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giovedì 27 novembre 2014

IL MOVIMENTO MODERNO IN ARCHITETTURA

Sintesi tratta dal libro di testo "L’architettura moderna dal 900" di William J.R. Curtis
Testo di riferimento del corso di DESIGN E COMUNICAZIONE VISIVA tenuto al Politecnico di Torino.

CAPITOLI 1-36
1-Le tendenze formative dell’architettura moderna
2-Industrializzazione e città: il grattacielo come tipo e simbolo
3-La ricerca di forme nuove e il problema dell’ornamento
4-Razionalismo, tradizione ingegneristica e cemento armato
5-Ideali Arts and Crafts in Gran Bretagna e Stati Uniti
6-Risposte alla meccanizzazione: il Deutscher Werkbund e il Futurismo
7-Il sistema architettonico di Frank Lloyd Wright
8-Miti nazionali e trasformazioni del classico
9-Cubismo, De Stijl e nuove concezioni spaziali
10-La ricerca di Le Corbusier della forma ideale
11-Walter Gropius, l’Espressionismo tedesco e il Bauhaus
12-Architettura e rivoluzione in Russia
13-Grattacielo e periferia: gli Stati Uniti tra le due guerre
14-La comunità ideale: alternative alla città industriale
15-L'international style, il talento individuale e il mito del funzionalismo
16-L'immagine e l'idea della villa savoye di Le Corbusier a Poissy
17-La continuità di tradizioni più antiche
18-Natura e macchina: Mies van der Rohe, Wright e LeCorbusier negli anni ’30
19-La diffusione dell’architettura moderna in Gran Bretagna e in Scandinavia
20-Critiche dei regimi totalitari al Movimento Moderno
21-Internazionale, nazionale, regionale: la diversità di una nuova tradizione
22-Architettura moderna negli Stati Uniti: immigrazione e consolidamento
23-Forma e significato nelle tarde opere di Le Corbusier
24-L’Unitè d’Habitation a Marsiglia come prototipo di residenza collettiva
25-Alvar Aalto e gli sviluppi scandinavi
26-Discontinuità e continuità nell’Europa degli anni cinquanta
27-Il processo di assimilazione: America Latina, Australia, Giappone
28-Su monumenti e monumentalità: Louis I. Kahn
29-Architettura e anti-architettura in Gran Bretagna
30-Estensione e critica negli anni ’60
31-Modernità, tradizione e identità nei paesi in via di sviluppo
32-Pluralismo negli anni settanta
33-Architettura moderna e memoria: nuove percezioni del passato
34-Universale e locale: paesaggio, clima e cultura
35-Tecnologia, astrazione e idee di natura
36-Conclusione: modernità, tradizione, autenticità






CAPITOLO 1
Le tendenze formative dell’architettura moderna
Correnti di idee e prime cause della nascita dell’architettura moderna si notano già verso il 1850 (‘moderna’ in opposizione agli stili recuperati dal passato), ma il vero processo di sintesi avviene tra la fine dell’800 e i primi del 900.
Cause:
  • idea di progresso, che presuppone la creazione di uno stile del proprio tempo, autentico come lo erano quelli precedenti nelle loro epoche;
  • perdita di fiducia (già nel 700) nella tradizione rinascimentale e nell’idealismo dell’estetica rinascimentale, soppiantato da un nuovo empirismo;
  • l’Antico non è più l’unico punto di riferimento;
  • rivoluzione industriale: nuove committenze (non + solo Chiesa, stato e aristocrazia, ma anche ceto medio), nuove problematiche, nuovi metodi di costruzione, nuovi materiali;
  • la crescita della borghesia porta a nuove istituzioni: musei, biblioteche, teatri, palazzi governativi, banche, tribunali, casinò, fabbriche, stazioni, mercati, grandi magazzini e grattacieli;
  • nuovi stili di vita (dal contadino all’operaio, con condizioni di vita pessime ed insalubri)  impegno sociale dell’architettura;
  • spesso il punto di riferimento diventò la natura (Sullivan, Aalto, Wright, LeCorbusier);
  • la tradizione non fu abbandonata, ma si abbandonò l’adesione superficiale e servile ad essa, spesso identificata con la scuole di Beaux Arts di Parigi;
  • spinta ispiratrice di Viollet-le-Duc, Semper (identificò 4 elementi base dell’architettura) e Ruskin (la natura è l’espressione dell’evidenza fisica della creazione e delle leggi di Dio);

ECLETTISMO

Posizione che mirava a fondere gli stili del passato per sommarne le qualità.
Non forniva regole automatiche per la composizione, e ciò portò ad edifici a volte assurdi, a volte orribili, a volte ricchi e anche interessanti.


PRIMITIVISMO (1750 circa)

Posizione che si basava sul mito delle origini, sul ritorno agli ‘inizi’. L’archetipo era la capanna primitiva, esaltando la semplicità e disprezzando l’artificialità; si tornava la vecchio presupposto di imitazione della natura.


RAZIONALISMO

Le forme migliori erano radicate nelle esigenze strutturali o funzionali (Laugier); se si analizzano i problemi senza il filtro del passato, si trova ad essi la soluzione migliore anche dal punto di vista formale, oltre che funzionale. Una delle sue falle era il presupposto che da una semplice analisi funzionale scaturissero delle forme.
Viollet-le-Duc valorizzò, nel suo razionalismo, l’architettura medievale perché ‘onesta’, e sosteneva che l’eccellenza delle opere del passato nasce dalla loro capacità di esprimere le ‘verità’ programmatiche e strutturali del loro tempo; non dobbiamo quindi imitare gli aspetti esteriori del passato, ma la mentalità e i principi.





CAPITOLO 2
Industrializzazione e città: 
il grattacielo come tipo e simbolo
La maggior parte delle nuove tendenze prese vita tra il 1890 e il 1900, tra le città di Vienna, Parigi, Glasgow, Bruxelles, Barcellona e Chicago.
Le pre-condizioni essenziali includevano:
  • meccanizzazione della città;
  • nuovi materiali (ferro, vetro e acciaio);
  • committenza aperta alle sperimentazioni;
  • architetti creativi;
Si svilupparono così l’Art Nuveau a Bruxelles (legata alla nuova ricchezza industriale), l’avanguardia viennese (in rottura col declinante sistema imperiale), le esperienze radicate nell’identità locale di Barcellona (Gaudì) e Glasgow e le nuove tendenze nordamericane (determinate dall’assenza di una tradizione forte e radicata, sulla scia del laissez-faire economico).
La città nordamericana era caratterizzata da urbanizzazione caotica, schemi rettilinei di strade e oggetti singoli circondati da spazi (al contrario dell’uso europeo di spazi circondati da edifici  piazze).
Nel frattempo, a Parigi, il barone Haussmann (dal 1850) tagliava la città con ampi boulevard, rendendo la città più adatta alla sua conformazione capitalista, oltre che dividendo il centro borghese dalle fatiscenti periferie operaie, che così diventavano inoltre molto più facili da controllare militarmente.
Altro elemento importante fu la ferrovia, che divise le città finite, demolì i confini tra città e campagna e confinò gli scarti e i rifiuti industriali nelle solite povere periferie.

La nuova città abbatteva anche i vecchi schemi: ormai gli edifici privati per il commercio, come banche, magazzini, depositi e fabbriche, si innalzavano, simbolo del capitalismo, al di sopra anche dei vecchi edifici di importanza civica o religiosa.
Non se la cavavano bene, invece, i quartieri poveri delle periferie, quartieri standardizzati nel susseguirsi di piccole finestre, ammassi di rifiuti, sporcizia e tonnellate di mattoni. Marx ed Engels erano convinti che la soluzione a questa situazione di degrado era possibile solo nella post-rivoluzione, mentre ci fu anche chi propose di trasportare le città nella natura o la natura nelle città, e ciò trova riscontro nei molti progetti di inizio 900 che abbondavano di verde, spazi aperti e trasparenze. Da qui sorsero i primi grandi edifici in ferro e vetro, che consentiva ampie luci, scomponeva le masse e apriva gli spazi, suggerendo spesso analogie col mondo naturale e con l’architettura gotica.
(Crystal Palace di J.Paxton, ingegnere che trasferì la serra all’architettura)
Queste tendenze furono criticate da Ruskin (materialismo puro e morte dell’artigianato) e Semper.
Mentre si può affermare che le creazioni ingegneristiche spesso non possedevano quei contenuti artistici propri dell’architettura, è anche vero che ciò rese in molti casi superfluo l’intervento architettonico.
L’ascesa delle strutture in ferro e vetro non rese però obsolete quelle in mattoni con struttura portante di acciaio o ferro, che continuarono ad esistere, sfruttando le proprietà isolanti, antincendio e ornamentali dei rivestimenti in mattoni e quelle puramente strutturali dell’acciaio e del ferro, che permisero la costruzione dei grattacieli.
Il grattacielo si diffuse inizialmente a Chicago tra il 1880 e il 1890, grazie anche alla tabula rasa offerta dall’incendio che semidistrusse Chicago nel 1871. Il grattacielo si estendeva in verticale, concentrando gli spazi e riducendo i tempi, come piaceva al capitalismo industriale.

RICHARDSON
In America inizialmente si erano susseguite le stesse tendenze che dominavano in Europa, ma anche qui andarono in crisi, anche perché non supportate da un adeguato substrato di cultura e tradizione, e i primi segni di indipendenza si ebbero con Richardson. Amava le grandi masse in pietra e le ampie superfici, spesso tagliate da archi, rifinite da torri e superfici ornamentali, fondendo così motivi romantici e artigianali con il rigore e la solidità moderna, senza disdegnare riferimenti classici e medievali ( romanico), in un eclettismo molto originale.
MAGAZZINI MARSHALL (1885): tipico esempio dell’architettura di Richardson, è un gigantesco magazzino caratterizzato da una pianta molto semplice e gerarchica, una massa imponente e solida che all’interno mostrava travi metalliche e ascensori, mentre all’esterno si presentava con ampie superfici murarie di arenaria e granito, una massa monolitica tagliata solo da una fila di archi a tutto sesto, fondendo romanico e moderno;

SULLIVAN
AUDITORIUM (1986): sorto a Chicago dalla collaborazione di Sullivan e dell’ing. Adler, è caratterizzato da un’imponente massa sormontata da una torre su un lato, trasposizione di un palazzo pubblico medievale (con la sua immagine ‘civica’) in una struttura che incorporava un teatro e un albergo con uffici. All’interno era molto moderno, con predominanza del ferro e sistemi di ventilazione e riscaldamento.
Un difetto degli architetti della Chicago School fu di aver sì prestato attenzione al grattacielo in sé, ma di aver altresì tralasciato la forma della città a grattacieli, con le sue vie buie e cavernose.
Nel 1893 ci fu la Fiera Mondiale di Chicago, caratterizzata da opere classicheggianti, di chiara influenza beaux-arts francese, testimone della forte influenza che lo stile secondo Impero aveva sul pubblico mondiale.
La Chicago di fine 800 era l’esempio della città capitalista, dominio del vapore e dell’acciaio, sintesi di tecnologia e forma, che ebbe però, grazie ad alcuni grandi architetti, punte di alta architettura, che divenne modello per tutto il mondo.




CAPITOLO 3La ricerca di forme nuove e il problema dell’ornamento
C’è chi sostiene le riforme stilistiche conseguenze di quelle strutturali e tecniche, e chi invece che sostiene che tecniche e materiali siano dipendenti dalle tendenze estetiche e formali; la verità è in entrambe le posizioni.
Telaio in ferro e acciaio suggeriscono alcune soluzioni, ma sono gli architetti a indirizzarne la via lungo una direttrice principale che possa portare alla nascita di una nuova architettura.
La Chicago School ebbe un ruolo predominante in questi cambiamenti, favorita anche da condizioni economiche e culturali impossibili da riscontrare in Europa (Secondo Nietzsche il bagaglio storico qui era troppo forte per permettere di esprimere il potenziale interiore represso).

ART NUVEAU
Offrì il primo programma internazionale per un fondamentale rinnovamento, e fu il primo stadio di architettura moderna in Europa.
Era un totale rifiuto dello storicismo, ma non corrispondeva con un totale rifiuto della tradizione, perché nessuno può appoggiarsi sul nulla.
Era una forte reazione tipicamente fiamminga contro il classicismo beaux-arts, ed offriva, al posto del poderoso monumentalismo, creazioni ariose e luminose che sfruttavano le proprietà di vetro e metallo, traendo chiara ispirazione dalla natura. La fase creativa durò dal 1893 al 1905.
Victor HORTA, di Bruxelles, fu rivoluzionario nella sua attività. Il suo Hotel Tassel è sintesi di architettura e arti decorative, con strutture in ferro a vista che richiamavano motivi floreali e forme vegetali, vetrate colorate, ampie scalinate e lunghe prospettive interne. La Maison du Peuple, quartier generale del partito socialista belga, presenta un telaio in ferro a vista, che ispirò in seguito capannoni ferroviari e costruzioni fieristiche.
Henry VAN DE VELDE fu altro importante esponente, e pose l’obiettivo che sarà dell’art nuveau di creare edifici che siano ‘ opera d’arte totale ’, dove ogni elemento è in piena armonia stilistica col tutto (Infatti usava creare i mobili appositamente per gli edifici).Era socialista, e sperava con la sua opera di rendere accessibile alle masse la qualità formale.
L’Art Nuveau si diffuse presto in altri settori, come il disegno industriale, la grafica, l’artigianato e la moda, e le idee portanti furono divulgate da riviste come the studio. Dominò le esposizioni di Parigi (1900) e Torino (1902), e l’art nuveau o stile liberty divenne presto internazionale.
Hector GUIMARD progettò le forme del metrò di Parigi, i chiaro stile Liberty, come per rendere piacevole un luogo buio e soffocante come la metropolitana parigina.

ANTONI GAUDì (1852-1926)
Antoni Gaudì, architetto catalano, è in realtà solo vagamente affiliato all’Art Nuveau. Lettore di Ruskin, in gioventù opponeva il neo-gotico al dominante stile secondo impero, ma il suo stile divenne ben presto molto originale. Il Palazzo Guell di Barcellona presentava interni quasi ecclesiastici ed esterni caratterizzati da strutture di ferro battuto ondulato e decorazioni elaborate. Il suo scopo era la ricerca di un autentico stile catalano, ed infatti fece largo uso di mattoni e ceramiche, prodotti caratteristici della sua terra. Nelle sue opere c’era un misto di echi medievali, tecniche regionali e allusioni alla natura della Catalogna. La Sagrada Famiglia (1884-/) è un misto dell’arte di Gaudì, comprendente una base gotica, un evolversi di pura fantasia, ricco di motivi floreali ed onirici, atmosfere surreali e influenze delle costruzioni di fango africane. E’ un’opera ancora oggi incompiuta, che indica nel suo svolgimento un’evoluzione continua, simbolo stesso del popolo catalano, della ragione e dell’irrazionale, del sacro e del materiale. Gaudì era razionalista negli studi delle sue opere, ma al tempo stesso fortemente religioso, al punto di voler rispecchiare nella materialità dell’architettura l’ordine spirituale del creato, sfociando spesso nel simbolismo (ad es. la parabola era il simbolo stesso del sacro).
Lo stile tardo di Gaudì emerse nel Parco Guell (1900-1914), con sedute dalle forme animali e rivestite di mosaici di ceramica, grotte sotterranee da incubo, cupe foreste, strani e inquietanti colonnati, riferimenti alla natura e all’arte gotica.
Gli stili collegati all’art nuveau si diffusero presto in quasi tutta l’Europa, ma incontrarono resistenza in Inghilterra.
In Scozia, invece, l’art nuveau si incarnò nello stile originale di Charles Mackintosh. La sua School of Art di Glasgow (1897) andò oltre l’art nuveau, verso una sobria forma fatta di semplici sequenze di masse e spazi, pieni e vuoti, progetti lineari e dinamici ma non privi di allusioni alla tradizione celtica e gaelica. Stranamente in Inghilterra fu criticato, mentre ebbe successo nel continente.
A Vienna suoi ammiratori erano Josef Olbrich e Otto Wagner, aspri critici sia dell’accademia classica che della nuova decadenza dell’art nuveau. Otto Wagner sosteneva che l’architettura dovesse essere realista, pura risposta tecnica alle nuove problematiche, espressione diretta dei nuovi mezzi di costruzione. Il suo Ufficio Postale di Vienna sostituisce i motivi floreali con la razionalità e la solidità di travi e bulloni.
Non a caso Vienna e, più tardi, Berlino e Parigi divennero fieri oppositori dell’art nuveau, spinti da ideali di semplicità, essenzialità e simmetria.
Gli esponenti di questa nuova architettura viennese furono Adolf Loos e Josef Hoffmann, tesi verso una semplificazione lineare e volumetrica sempre più drastica (cercare la bellezza nella sola FORMA, e non nell’ornamento, simbolo della cultura decadente).




CAPITOLO 4Razionalismo, tradizione ingegneristica e cemento armato
critica all’art nuveau:
L’art nuveau apparve come rottura col passato, ma venne presto intesa come creazione troppo soggettiva, superficiale, affondata dai desideri di austerità e linearità e dal razionalismo, che chiedeva giustificazioni funzionali alle scelte formali.
Lo stesso Viollet-le-Duc venne inteso come simbolo del razionalismo, del funzionalismo e della critica ai ‘ linguaggi morti ’ degli architetti.
soluzione:
Il rischio, ora, sembrava quello di cadere nel blando funzionalismo materialista, accecati dalla capacità di ingegneri e razionalisti di emanciparsi dal revivalismo. Alcuni grandi ingegneri (come Eiffel o Roebling, col ponte di Brooklyn) non trascurarono l’aspetto formale, cercando di dare dignità artistica all’arco, alla trave e ai tralicci. Lo stesso Sullivan si rese conto che la funzione da sola era sì in grado di suggerire soluzioni, ma non poteva, senza l’apporto dell’intuito artistico, generare valori estetici. Nacque il cemento armato, e si cominciò ad esplorarne le potenzialità. Materiale ignifugo, flessibile, solido, versatile, aprì presto nuovi orizzonti all’architettura (Chiesa di Montmartre a Parigi).
Perret, razionalista classicista animato da un forte spirito pratico, fu uno dei primi a farne largo uso. Nei suoi appartamenti a Parigi ampliò al massimo le finestre per sfruttare la vista sulla Senna e la Torre Eiffel, creando così diversi rapporti di pieni e vuoti. Introdusse scelte importanti, come il piano terra più alto degli altri e visivamente distinto, dislocò le finestre su livelli diversi, utilizzò riempimenti e rivestimenti ceramici; insomma rese il suo edifico ARCHITETTURA, e non solo costruzione.
Nel teatro sugli champs-élysèes il suo classicismo si fece più forte, con richiami a cornici e lesene.
Negli Stati Uniti i maggiori pionieri del cemento armato furono Ransome e Kahn, individuando nuovi campi di applicazione nell’agricoltura e nell’industria (tra cui per Henry Ford). Kahn esaltò i requisiti di economicità, standardizzazione, luminosità, resistenza al fuoco e flessibilità del cemento armato, pensando solo alla funzionalità delle sue opere, che in seguito diventarono dei modelli per l’Europa.

In Francia Maillart e Freyssinet introdussero le sezioni paraboliche e circolari (ponti, hangar), a dimostrare che non si potevano usare solo quelle ortogonali, anche se la generazione successiva accantonò queste applicazioni, tesa nella ricerca di planarità e orizzontalità, eleggendo predecessori architetti come Wright e Perret.
Garnier ci fornì il primo esempio di pianificazione territoriale, con la sua Citè Industrielle, modello della perfetta città moderna. Distinse aree residenziali, industriali e ricreative, rette da imponenti assi stradali.
Sostenitore dell’architettura in cemento armato di Perret fu Jeanneret, ovvero Le Corbusier. Studiò all’atelièr di Perret e assorbì le idee di Viollet-Le-Duc, passando poi a Berlino, dove elaborò la convinzione dell’utilità di tipi e norme nella società moderna. Progettò Dom-ino, una casa kit di facile e rapido assemblaggio, in grado di ovviare a una rapida ricostruzione della Francia devastata dalla prima guerra mondiale. Era un progetto rivoluzionario, versatile nella struttura (basata su uno scheletro di sostegno che dava massima libertà di composizione) e nelle componenti standardizzate.
Gli stili collegati all’art nuveau si diffusero presto in quasi tutta l’Europa, ma incontrarono resistenza in Inghilterra.
In Scozia, invece, l’art nuveau si incarnò nello stile originale di Charles Mackintosh. La sua School of Art di Glasgow (1897) andò oltre l’art nuveau, verso una sobria forma fatta di semplici sequenze di masse e spazi, pieni e vuoti, progetti lineari e dinamici ma non privi di allusioni alla tradizione celtica e gaelica. Stranamente in Inghilterra fu criticato, mentre ebbe successo nel continente.
A Vienna suoi ammiratori erano Josef Olbrich e Otto Wagner, aspri critici sia dell’accademia classica che della nuova decadenza dell’art nuveau. Otto Wagner sosteneva che l’architettura dovesse essere realista, pura risposta tecnica alle nuove problematiche, espressione diretta dei nuovi mezzi di costruzione. Il suo Ufficio Postale di Vienna sostituisce i motivi floreali con la razionalità e la solidità di travi e bulloni.
Non a caso Vienna e, più tardi, Berlino e Parigi divennero fieri oppositori dell’art nuveau, spinti da ideali di semplicità, essenzialità e simmetria.
Gli esponenti di questa nuova architettura viennese furono Adolf Loos e Josef Hoffmann, tesi verso una semplificazione lineare e volumetrica sempre più drastica (cercare la bellezza nella sola FORMA, e non nell’ornamento, simbolo della cultura decadente).





CAPITOLO 5
Ideali Arts and Crafts in Gran Bretagna e Stati Uniti
La ricerca di semplicità propria del primo 900 ha le radici in alcune posizioni intellettuali anteriori, tra cui il RAZIONALISMO e gli ideali ARTS AND CRAFTS discendenti da Morris e Ruskin in Inghilterra.
Ruskin e Morris erano convinti che una vera architettura sarebbe nata mediante l’espressione di virtù morali incorrotte tramite un artigianato ispirato, disgustati dall’impatto della rivoluzione industriale.
Voysey diede vita ad edifici semplici e radicati nella tradizione inglese, ricchi di grondaie, spioventi e giardini, poi indicati come esempi di architettura moderna. Era un’architettura che si basava su materiali e consuetudini locali, radicata nell’artigianato e nella semplicità formale, quasi rurale.
Scott, con Voysey, fornì l’archetipo dell’edilizia residenziale inglese in tutta Europa. Scott integrò casa e giardino senza eccedere in ‘rusticità’.
Lutyens disegnò edifici ricchi e ricercati, con giardini ben progettati e forte utilizzo dei materiali del luogo, elevando la casa rurale ad abitazione raffinata ed esotica, dando sempre grande attenzione al cliente e al sito.
Tutti questi architetti erano sì innovatori, ma anche, per certi aspetti, tradizionalisti. Erano i creatori di microcosmi di valori tradizionali e morali, familiari e naturali.
Questi ideali passarono, verso il 1910, in Germania, incarnati da Muthesius, fervente ammiratore dei tipi inglesi. Cercò di importare in Germania il gusto per il cottage e il giardino, come risposta alla forza disgregatrice dell’industrializzazione. Il disegno industriale tedesco crebbe sotto la spinta delle Arts and Crafts inglesi, mentre in Inghilterra si tornava alle tendenze Beaux-Arts.

FRANK LLOYD WRIGHT
In America il catalizzatore della trasformazione fu Frank Lloyd Wright, il maggiore tra gli architetti influenzati dalle Arts and Crafts. Impregnato delle idee di Morris, fu promotore del tradizionale cottage ligneo, dell’abitazione monofamigliare rustica, emblema dello spirito democratico americano, reazione alla città e al grattacielo. Aiutato dalla totale mancanza di una lunga e coerente tradizione nazionale si aprì alla sperimentazione, ma ciò lo rese privo di una solida base, rintracciata vagamente in Richardson.
L’Ames Gate Lodge è fortemente legata al loco, con un grande uso di pietra locale, ma si apre anche a riferimenti ad antiche tradizioni lontane, della Siria e della vecchia Francia.
Wright costruì una mitologia intorno alla casetta familiare suburbana, una mitologia fatta da riferimenti giapponesi, da citazioni coloniali, da tradizione locale e da forte radicamento nella Natura.
Diede vita alla Prairie School, basata sulla “casa nella prateria”.
I fratelli Greene furono maestri del bungalow californiano, un’abitazione concepita in apertura verso l’esterno, la natura. La loro Gamble House di Pasadena era la piena esaltazione e nobilitazione del bungalow californiano, nobile e ricco ma al tempo stesso intimo e umano. Sorgeva su un terrazzo sollevato sui prati, e si distingueva per i suoi spioventi, le trasparenti balconate e i colori caldi del legno californiano. Il salotto, come anche nelle opere di Wright, era simmetrico lungo l’asse del focolare, fulcro della casa di campagna.
Altri esponenti del movimento americano furono Gill e Maybeck.






CAPITOLO 6
Risposte alla meccanizzazione: 
il Deutscher Werkbund e il Futurismo
Diversamente dai sentimenti nostalgici delle Arts and Crafts, nei primi anni del 900 sorsero dei movimenti che invece si ispiravano apertamente all’idolo della meccanizzazione, come il Deutscher Werkbund in Germania e il Futurismo in Italia, oltre a singoli elementi come Gropius, Behrens e Sant’Elia.

DEUTSCHER WERKBUND
Il Deutscher Werkbund fu fondato da Muthesius, che si pose l’obiettivo di creare i collegamenti tra l’arte e l’industria, tra l’artigianato (nasceva dalle Arts and Crafts) e la produzione in serie. Era convinto di poter portare la kultur tedesca in una posizione di supremazia nei mercati e negli avvenimenti mondiali, e dava grandissima importanza alla Forma, simbolo della stessa cultura tedesca.
Progettava per la macchina, ed era intriso dell’idealismo della filosofia tedesca, convinto che la realizzazione di una grande cultura tedesca fosse già scritta nel destino.
Behrens è stato molto vicino all’opera di Muthesius, è significativo il suo progetto per la società elettrica AEG, comprensivo di progetti di lampade, mobilio, oggetti ed edifici. La sua ricerca di una genuina arte tedesca lo portò ad un “richiamo all’ordine” e alla linearità. Di influenze neoclassiche, anche lui sentì l’ispirazione dell’idealismo di Schinkel.
Gropius preferì gli spazi e le ampie vetrate alle masse (tipiche di Behrens). La differenza tra l’architettura americana e quella contemporanea di Gropius, e tedesca in genere, è che quella teutonica non si limita a “trovare una sistemazione alle funzioni del mondo moderno, ma anche a simbolizzare quel mondo”.
Gropius e Meyer progettarono nel 1914 il padiglione del Werkbund per l’esposizione di Colonia, che riprendeva, per la grande sala macchine, la classicità dei capannoni ferroviari, rifinita dalle ampie scalinate vetrate che davano l’accesso al simmetrico padiglione d’ingresso e al padiglione dei motori a gas Deutz. Il rigore e l’assialità della pianta richiamano gli schemi beaux-arts, ma gli sviluppi verticali erano invece assolutamente originali e privi di riferimenti storici evidenti.
Si era forse ispirato al precedente padiglione dell’industria dell’acciaio di Bruno Taut alla fiera di Lipsia del 1913: uno ziggurat sormontato da una sfera, tutto di acciaio (il materiale che pubblicizzavano). Apparteneva all’ala ‘mistica’, espressionista della Werkbund, come nel sempre suo padiglione del vetro di Colonia (1914), un mausoleo industriale rappresentato da una cupola multicolore e multisfaccettata di vetro posta su un alto basamento. Sfruttava, negli interni, variegati giochi cromatici e di luce, con la maestria Art Nuveau, ma lo sguardo rivolto al futuro.
L’intento di Taut e Gropius era, ognuno a modo suo, di sottolineare la capacità poetica e il potenziale progressista dell’industrializzazione.

FUTURISMO
Fu prima movimento poetico, poi pittorico, scultoreo e architettonico. Il maggiore esponente dell’architettura futurista fu Sant’Elia (con la sua Città Nuova). L’ideologia futurista, di base anarchica, non aveva particolari affiliazioni politiche, ma auspicava la rivoluzione, la velocità, il dinamismo, l’aggressività e l’adulazione della macchina ( Marinetti). Era una visione intrisa di estetismo e simbolismo, che attaccava la tradizione e il passato a favore della modernità e dei suoi contenuti ‘artistici’ (il treno, l’auto da corsa). Si riallacciavano alla filosofia di Bergson su tempo e flusso, sul ruolo predominante del cambiamento. Il manifesto futurista dell’architettura (che non anticipò, però, una vera e propria architettura futurista), scritto da Sant’Elia e Marinetti, parlava di una architettura sradicata dalle continuità storiche e dalla tradizione, nuova, moderna, che si avvalesse di nuovi materiali e nuove tecniche. Lo stile era descritto leggero, agile, mobile, dinamico, fiero di esporre la modernità, e non di nasconderla (ascensori non nascosti, ma esibiti), libero da decorazioni tradizionali, lineare e a forme pure, “brutta nella sua meccanica semplicità”. Si predicava l’abolizione del monumentale e del decorativo, ispirandosi solamente al proprio genio, liberi da ogni tradizione.
I contrasti tra il dinamismo e l’anarchia del futurismo e l’organizzazione del Deutscher Werkbund è chiaro, ma entrambi i movimenti poggiavano sulla convinzione che lo spirito del tempo fosse legato alla meccanizzazione.





CAPITOLO 7
Il sistema architettonico di Frank Lloyd Wright
Gli unici artisti, nella storia moderna, in grado di fondare, da soli e al di fuori di ogni movimento, nuove concezioni architettoniche sono stati Wright e LeCorbusier.
Wright ruppe con l’eclettismo, trovando uno stile basato sulla compenetrazioni di piani e volumi (che si trasformò poi nell’International Style). Era uno stile rivolto al futuro, ma al tempo stesso fortemente radicato nella tradizione americana e Art and Crafts.
Il suo punto di partenza era la condizione materiale e culturale del Midwest americano, ma si spinse oltre, inglobando prima la totalità della cultura americana, e poi il mondo intero, occidente e oriente insieme.
Il suo sogno era l’armonizzazione con la natura e la rappresentazione della società umana.
Non finì gli studi di architettura, e studiò in seguito da Sullivan, un idealista che gli trasmise la convinzione che l’architetto del midwest avesse la grande occasione di progettare libero da ogni modello tradizionale o straniero, oltre che rappresentare la vera “forma” della democrazia umana.
Wright però non progettò grattacieli come il suo maestro, ma casette unifamiliari. Nelle sue opere il focolare, come di tradizione, aveva un ruolo dominante, in posizione centrale, quasi un simbolo sacro della famiglia.
La Winslow House era di un’eleganza semplice e priva di fronzoli, con la facciata principale simmetrica, costruita su due livelli rivestiti diversamente e sormontata da un tetto fortemente orizzontale, ampio e fornito di grondaie. All’interno il camino è centrale, e, come usava spesso Wright, la camera da letto al piano superiore corrisponde alla sala da pranzo nel piano inferiore. Era il risultato dell’ordine assiale della tradizione classica, dell’architettura di Sullivan (ruolo della Natura e struttura dell’edificio suddivisa in basamento, parte mediana e sommità), della forte influenza del sito e della natura presente (come l’albero che cresce e si adatta, diviso in radice, tronco e rami) e della personalità del committente.
La casa di Wright era il rilassante rifugio rurale alla stressante vita che i suoi committenti facevano a Chicago, e l’eleganza, la linearità, l’attenzione ai particolari offrivano ai clienti un rilassante mondo domestico.
Caratteristici dell’opera di Wright erano il focolare, le vetrate colorate, l’utilizzo di mattoni tipici del luogo, la spaziosità degli interni e l’attenzione posta la comfort e al rilassamento. Le case di Wright aiutarono la nuova borghesia americana a trovare la propria identità.
Dalla Winslow House Wright passò, nei primi del 900, al tipo da lui ampiamente sviluppato della Prairie House, dove l’uso dei materiali, l’integrazione con la natura, l’unificazione degli arredi e degli impianti e i valori Arts and Crafts assunsero un ruolo sempre più predominante, ma vennero reinterpretate in modo da essere più vicine alla meccanizzazione e alle nuove tecniche, considerando la macchina non come una protagonista, ma come uno strumento in grado di semplificare e migliorare il lavoro. Qui ebbe grande importanza anche l’influenza che la cultura orientale e giapponese in particolare aveva su di lui, di cui ammirava le proporzioni, la carpenteria, l’uso dei materiali umili, la collocazione nei contesti naturali, la spiritualità. Wright ricercava un’espressione che fosse in grado di esprimere all’esterno l’idea dei volumi interni, restando sempre “a misura d’uomo”. La classica prairie house di Wright era formata da lunghe e basse linee orizzontali parallele al sito, ricca di tetti, verande, muretti, per una facciata lineare e asimmetrica. Ampie finestre e pochi muri pieni, spazi interni collegati fra loro e ruotanti intorno al focolare, arredi incorporati e spazi interni ampi ed eleganti. La rotazione e l’asimmetria si combinavano così in una struttura di piani scorrevoli e sovrapposti, animati da un ritmo intenso.
La Ward Willit House del 1902 è arretrata rispetto alla strada, una bassa struttura di cui si intravedo gli ampi tetti tra gli alberi. E’ divisa in quattro ali, per snellirne la struttura, e, come spesso nelle sue opere, un “percorso” si snoda dall’ingresso principale verso il soggiorno, rialzato, ove dominano il camino e le finestre. Da qui si passa poi nella sala da pranzo con vista sul giardino, fino all’ala riservata alla cucina. Ogni più piccola parte è integrata col tutto, dal mobilio alle inferriate, dalle finestre alle trame dei mattoni.
Più tardi Wright cercò di mettere insieme i principi della sua architettura:
  1. ridurre il numero di parti al minimo e dare un’impressione generale di unità;
  2. associare l’edificio col suo ambiente esterno, sottolineandone l’orizzontalità ma lasciando libera la parte migliore del sito;
  3. eliminare la concezione delle stanze come scatole separate e dare a tutta la casa proporzioni umane, adattando la struttura ai materiali del luogo e all’uomo;
  4. sollevare il basamento al di sopra del terreno;
  5. armonizzare tutte le aperture con l’uomo e l’ambiente, senza ritagliare buchi nei muri come in una scatola;
  6. eliminare per quanto possibile combinazioni di materiali differenti e non usare decorazioni che non siano proprie dei materiali stessi. La linearità è naturale perché lo è anche per le macchine che tagliano i materiali;
  7. incorporare gli impianti idraulici, di aerazione, di illuminazione e di riscaldamento nell’edificio  arch. organica;
  8. incorporare gli arredi con l’edificio, preferendo (per i motivi di prima) linee rette e forme rettangolari  arch. organica;
  9. eliminare le decorazioni tutto curve ed efflorescenze;
La Dana House (1904), per una committenza molto ricca, occupava un intero lotto suburbano, e comprendeva, oltre la casa principale, un’ala per la musica e i resti del precedente edificio che andava a sostituire,come fosse un tempio di famiglia, e ciò dimostra l’estrema varietà dell’architettura di Wright. Wright utilizzò qui molto la volta e l’arco, ora per rendere ambienti quasi sacrali, ora per conferire un’aria istituzionale a quella che sarebbe potuta diventare il centro di una piccola nuova cittadina del midwest.
La Martin House (1904) era anch’essa una residenza di gran lusso, completa di scuderia, foresteria, pergolati, giardini, serre. Wright monumentizzò i suoi moduli abituali, come tetti, pilastri e vasi da giardino, e il risultato fu una struttura importante e lussuosa, ma fedele al suo pensiero.
La Coonley House (1908) era un’altro esempio di unificazione di un'intera zona residenziale benestante, nel pieno rispetto delle diverse esigenze. Wright dimostrò così di saper creare strutture di grande dignità e magnificenza senza perdere in coerenza.
Progettò la piccola Glasner House su un sito diverso dalle sue abitudini: un burrone boscoso. Wright così rese la consueta orizzontalità col tetto, ma lasciò scendere le forme dell’edificio a cascata, sfruttando i vari livelli del burrone. Si entrava così dal piano più alto, scendendo poi nel piano inferiore e addirittura in una sala da tè costruita su un ponte.

ROBIE HOUSE
La Robie House (1910) fu tipico esempio della Prairie House. Organizzata in due fasce distinte, comprendeva un piano seminterrato con sala da biliardo e sala giochi dei bambini, e un livello più alto con soggiorno e sala da pranzo, due stanze unite in un’unica area separata solo dalla mensola del camino. I rivestimenti interni nascondevano gli impianti e allo stesso tempo aumentavano il senso di orizzontalità offerto dall’edificio, ricco di piani prolungati (che oltre a proteggere le finestre dalle intemperie fornivano un caldo senso di rifugio) che mediavano interno ed esterno, creando l’antitesi della classica architettura a “scatole chiuse”. Wright utilizzò qui mattoni in cotto con fughe orizzontali scavate, in modo da aumentare l’impressione di orizzontalità. La finestra piombata con forme naturali, elemento tipico della sua architettura, questa volta era decorata con disegni fortemente orizzontali e ripetizione di motivi triangolari, che riprendevano i tetti e gli sbalzi. Nell’insieme l’edificio rievocava romantiche silhouette, immagini “navali”, richiamando gli elementi di Semper (piattaforma, focolare, tetto e recinto), le falde geologiche (nel basamento di pietra) e l’architettura orientale.
Wright ricevette poi anche altri tipi di commissioni, e dovette adattarsi a edifici come uffici (Larkin Building) e luoghi sacri (Unity Temple), entrambi risolti con forme pure, geometriche e lineari, e per lo Unity Temple scelse il cemento, lasciandolo addirittura a vista (fatto unico per un edificio religioso).
Costruì per sé, in seguito al suo trasferimento nel Wiskonsin, Taliesin (una casa sulla collina), celebrazione della vita ideale in un ambiente naturale, finché un domestico impazzito non sterminò la sua famiglia e bruciò Taliesin nel 1914, lasciandone i segni nell’opera successiva di Wright.





CAPITOLO 8
Miti nazionali e trasformazioni del classico
Tutti i più grandi architetti sono passati, in gioventù, da fasi caratterizzate dalle due principali, e spesso contraddittorie, correnti dell’epoca: una di tendenza regionalista, l’altra di tendenza classicheggiante.
La tendenza regionalista è interessata al carattere, al clima e alla cultura dei luoghi specifici, ai miti nazionali, sensibile alle politiche nazionaliste di fine secolo, reazione all’omogeneità dell’industrializzazione e contro il cosmopolitismo delle formule delle beaux-arts classiche. Mondo rurale e mondo medievale venivano idealizzati (ma non imitati ciecamente), sede della cultura autentica di ogni popolo. Gli ideali Arts and Crafts erano esasperati, mentre la meccanizzazione era del tutto esclusa. Era chiamato anche “romanticismo nazionale”, ed era fortemente evocativo, soprattutto nelle silhouette e nelle decorazioni, che potevano addirittura richiamare le gesta di eroi nazionali.
Tra il 1910 e il 1920, invece, in Europa ci fu un “ritorno all’ordine” generale, caratterizzato dalla tendenza classicheggiante. Rifiutava il soggettivismo, i campanilismi nazionali, gli ideali espressionisti, in favore dei valori universali del passato classico. Il classicismo beaux-arts continuò a dominare nel campo dell’architettura pubblica, istituzionale e monumentale fin quasi al 1950. Elementi caratterizzanti, oltre ad elementi tipicamente classici (colonne, cupole frontoni, ecc…) e a facciate decorate, l’uso di piante simmetriche dove gli assi principali corrispondevano agli spazi più importanti, le ampie aree di circolazione, spessi muri con nicchie e lesène, ricchi riferimenti ad esempi classici di diversi periodi. Ma il classicismo diede anche un impulso all’architettura moderna, soprattutto con quegli autori che ad un classicismo sterile e “vecchio” preferirono una sempre più radicale schematizzazione del classicismo, recuperandone la purezza e l’essenzialità delle origini.





CAPITOLO 9
Cubismo, De Stijl e nuove concezioni spaziali
Dal 1915 in poi le manifestazioni dell’architettura mondiale che fino ad allora avevano messo in evidenza una grandissima varietà tenderanno a convergere sempre più, fino a coincidere, in alcuni periodi, in un vero e proprio stile moderno, condiviso in tutto il mondo occidentale. Questa sintesi fu favorita dagli approcci razionalistici alla storia, dalle implicazioni filosofiche della meccanizzazione, dal tentativo di non dimenticare la tradizione, dal desiderio di onestà morale e semplicità, dall’aspirazione all’universalità e all’internazionalismo, e grande importanza ebbe anche l’influenza del cubismo e delle arti astratte, utilizzando l’astrazione come mezzo di purificazione formale.
Il Cubismo influenzò l’architettura indirettamente, attraverso, cioè, la mediazione di altre forme artistiche. Tra il 1907 e il 1912 Picasso e Braque elaborano un linguaggio che fonde astrazione e frammenti di realtà osservata, e queste forme furono assorbite, ad esempio, nel purismo e nell’architettura di LeCorbusier, ma l’espansione di questa nuova sensibilità in architettura in Germania e Russia necessitò, prima, che il De Stijl ne preparasse la strada.

DE STIJL
Il movimento De Stijl, fondato nel 1917 in Olanda, riunì artisti di tutti i campi ispirati da uno stile basato sull’enfasi dell’astratto e delle forme rettangolari, concependo l’arte astratta come strumento di rivelazione. I pittori più famosi furono Theo Van Doesburg e Piet Mondrian, ma furono lo stesso Van Doesburg e Gerrit Rietveld a svilupparne le potenzialità in architettura. L’edificio veniva considerato come una scultura astratta, un’entità artistica fatta di colore, forma e piani intersecati. I colori caratteristici del De Stijl erano nero, bianco e colori primari, sistemati in semplici geometrie rettangolari, elementi facilmente convertibili nelle forme di un’architettura funzionale. Rompeva con gli schemi assiali tipici del classicismo beaux-arts , creando equilibri dinamici e asimmetrici tra forme e spazi. Era una concezione non del tutto estranea a quella di Wright, ammirato da Berlage (il padre dell’architettura moderna in Olanda), che affermò infatti che in architettura decorazioni ed ornamenti sono secondari, mentre i veri elementi essenziali sono lo spazio e i rapporti tra i volumi. Wright divenne così il principale ispiratore dell’architettura moderna olandese, non solo del De Stijl, ma anche dei movimenti espressionisti. Van Doesburg e Rietveld ammirarono, in particolare, il carattere spaziale e il sistema di piani sospesi e intersecanti dell’arte di Wright, e preferirono ignorarne il gusto decorativo ed artigianale.
Opera di grande importanza del primo De Stijl fu la Sedia Rosso-Blu di Rietveld (1917), che, influenzata dai mobili di Wright, tradusse in tre dimensioni l’astrazione delle linee rette del De Stijl. Era un prototipo fatto a mano che rappresentava l’arte delle macchine, oggetto standardizzato e frutto di calcoli. Gli elementi parevano fluttuare l’uno sull’altro, poggiando su linee infinite e piani dello spazio astratto.
Il primo edificio De Stijl è stato Casa Schroder, progettata da Rietveld nel 1923. E’ caratterizzata da lisce forme rettangolari e brillanti colori primari, da piani sospesi nello spazio sia in orizzontale che in verticale. Non esiste un asse di simmetria, ma ogni elemento è in relazione dinamica e asimmetrica con gli altri. Le ringhiere e i montanti delle finestre sono neri, in netto contrasto con le superfici grigie o bianche delle pareti, e, mentre i colori ricordano la pittura De Stijl, gli elementi sconnessi tra loro e isolati nello spazio rimandano all’elementarismo della sedia rosso-blu. L’interno è in perfetta sintonia con l’esterno, e al piano superiore fu introdotta per la prima volta la “pianta libera”, cioè la possibilità di rimuovere le pareti divisorie creando un unico spazio, e fu fatto ricorso anche ai primi, rivoluzionari, mobili ad incasso. Casa Schroder è un’opera d’arte totale, in cui pittura, scultura, architettura ed arti applicate si fondono insieme.
Per i seguaci del De Stijl la nuova architettura, con i suoi piani lisci e levigati, i nuovi materiali e la libertà da ogni impressionismo, poteva addirittura superare, nella sua condizione di libertà non-essenziale, la purezza del mondo classico (Oud).





CAPITOLO 10
La ricerca di LeCorbusier della forma ideale
Negli anni venti la corrente architettonica chiamata “International Style” ha creato forme che sembravano demolire i precedenti stili e stabilire una nuova base comune. Era più di uno stile, più di una rivoluzione tecnica e costruttiva: implicava nuove idee e sentimenti utopici. Fu esemplare l’opera di LeCorbusier, che mirò alla città ideale, alla filosofia della natura e alla tradizione, investendo il tutto di un tono universale e condivisibile.
LeCorbusier (Charles Eduard Jeanneret) nacque nel 1987 in Svizzera. In gioventù studiò le forme naturali ed apprezzò il valore estetico delle forme semplici, e si interessò di idealismo e spiritualità nel campo artistico (geometria  mezzo per esprimere le più alte verità). Assimilò la versione messianica e superomistica dell’artista predicata da Nietzsche, ed evitò accuratamente insegnamenti di stampo beaux-arts. Era un autodidatta che imparava facendo, viaggiando, osservando. Da giovane aveva già lavorato per gente come Perret a Parigi e Behrens a Berlino, imparando i pregi del cemento armato e del razionalismo francese dall’uno (qui progettò la struttura Dom-ino), e il controllo totale dei progetti dalla parte più grande alla più piccola (qui probabilmente iniziò a pensare ai tipi, ai moduli) dall’altro. Nei suoi viaggi visitò Italia, Grecia e Asia minore, schizzandone le architettura per comprenderle più a fondo, e fu colpito in particolar modo dal Partenone, che per lui assunse il valore dell’inafferrabile assoluto. Disprezzò invece il barocco italiano e gli orrori dell’800, così come il neoclassicismo tipicamente accademico. La sua vera “antichità” era il classico del Partenone, del Pantheon. Dopo il viaggio in Italia acquisì la convinzione di non essere inferiori al passato, ma, anzi, di poter creare un’architettura moderna, fatta di solidi semplici, di ritmiche successioni, in grado di esprimere il proprio tempo e, così, superare addirittura i livelli dell’antichità.
Si interessò al cemento armato, dando vita a Villa Schwob, di stampo classico nelle proporzioni e nelle simmetrie, rimandante a Wright negli interni e chiaramente influenzata da Perret e Behrens nell’uso del cemento armato, ma tutto ciò era valorizzato dalla sua grande abilità compositiva.
Nel 1917 si trasferì a Parigi, ed entrò in contatto con i movimenti post-cubisti e futuristi. Qui conobbe Ozenfant, che lo introdusse nel mondo della pittura, da loro poi definita purista. Era di impostazione cubista, ma rigettavano il mondo bizzarro e frammentato di Picasso e Braque in favore di un preciso ordine matematico (forse un richiamo all’ordine dopo il caos della guerra). Rifiutarono il De Stijl perché non potevano accettare un’arte non oggettiva. LeCorbusier cercava, nella sua pittura, le idee degli oggetti, una ricerca platonica che anticipava la ricerca dei tipi ideali. Per lui le forme pure e precise erano le più adatte per l’età della macchina.
Nel 1920 intraprese definitivamente la strada dell’architettura, cambiando il suo nome da Jeanneret in LeCorbusier. Fondò, con Ozenfant, la rivista L’Esprit Nuveau, e scrisse un libro, Verso un’architettura. Non era una semplice difesa del funzionalismo, era infatti carico di contenuti poetici, enfatizzati nell’artisticità della forma. Ispirato dalla pittura purista e dal suo platonismo sostenne l’esistenza di forme di base straordinariamente belle, trascendenti tempo e stile, forme assolute e ideali, un linguaggio universale dello spirito. Importanza basilare avevano le forme pure,oggettivamente belle, e la luce, nel suo ruolo di elemento indispensabile per rivelarne la bellezza.
Sottolineò come l’arte antica sfruttasse tali forme pure (piramidi, templi greci, pantheon, bagni romani), mentre l’architettura recente ne fosse priva e vuota di contenuti. Apprezzò, invece, la rigida funzionalità di automobili e aeroplani, l’armonia presente in alcune opere ingegneristiche ed architettoniche quali silos per il grano e fabbriche. Propose ardue similitudini fra antichi monumenti e moderne automobili, sottolineando come basti identificare chiare “forme-tipo” e relazionarle fra loro nel giusto modo per poter ambire alla perfezione del sistema.
La prima casa che, ispirandosi al modello dell’automobile, cercò di sviluppare la sua nuova concezione fu la Maison Citrohan (1922). Era un prototipo, una scatola bianca su pilastri con tetto piano e finestre di tipo industriale. L’edificio, in cemento, mirava alla produzione in serie, ed era stato pensato componendo i bisogni dell’uomo e dando una risposta soddisfacente ad ognuno di essi. Il colore bianco era stato “rubato” dalle abitazioni mediterranee che aveva visto durante i suoi viaggi.
Nel 1924 riuscì finalmente a convincere un imprenditore, Frugès, a fargli realizzare un intero complesso residenziale sulla linea-guida della Maison Citrohan. Sorse così uno stravagante quartiere dalle tinte verdi, marroni e bianche, e sperimentò anche nuove tecniche quali il getto di cemento.
Ma la Francia del dopoguerra non permetteva grandi imprese costruttive, e così LeCorbusier si dovette accontentare di soddisfare le esigenze di una piccola parte alto-borghese della società. Nacquero così parecchi esperimenti su piccola scala ricchi di spunti interessanti, come l’utilizzo di elementi industriali (es. finestre) nelle residenze, tetti piani e terrazze dal sapore mediterraneo, “straniamento” generato da accostamenti e locazioni inusuali delle stanze, allo scopo di abbandonare le vecchie abitudini.
La Maison La Roche / Jeanneret del 1923 è la fusione di due case, per due famiglie, in un edificio a L. Si misurò qui con le richieste differenti di dei due committenti, uno collezionista d’arte scapolo, l’altro (il fratello) appena sposato. All’interno, in chiaro stile purista, l’arredamento è di chiara estrazione industriale (lampadine a bulbo, sedie Thonet, ecc…), e l’esterno tendeva allo stesso risultato, con ampie vetrate in linea con le pareti bianche, verdi o marroni. La Maison La Roche era percorribile lungo un percorso iterante adatto al suo uso di Atelièr. L’edifico dava un senso generale di leggerezza, pareva sospeso nel vuoto, ed era infatti sua convinzione che in futuro le case sarebbero dovute essere sollevate di un piano per permettere lo scorrimento delle automobili.
In LeCorbusier architettura e urbanistica si fondono, animate dall’unica visione della tecnologia come forza progressista in grado di ristabilire un ordine naturale ed armonico. Il razionalismo fu per lui un trampolino di lancio verso un’espressione lirica, con la struttura sempre subordinata agli obiettivi formali.
La Maison Cook (1926) nasceva su un lotto stretto fra altre case, e solo la facciata sarebbe risultata visibile. La forma è quasi un cubo, e la simmetria è rafforzata dalle fasce di finestre e dall’unico pilastro centrale, ma all’interno di ciò tantissimi piccoli particolari asimmetrici ne rendono più vario l’aspetto. All’interno i vari ambienti sono incastrati come un puzzle nel cubo, la consueta collocazione delle stanze è stravolta, e le pareti interne, spesso curve, enfatizzano la “pianta libera”. E’ un’opera matura, e scriverà in seguito di aver applicato con certezza le recenti scoperte come la pianta libera, la facciata libera, le finestre a nastro, il tetto giardino, i pilastri, le proporzioni, la base sgombra da elementi, l’inconsueta collocazione degli ambienti (stanze più importanti più in alto).
Identificò le 5 “certezze recenti” come i 5 punti di una nuova architettura, cioè pilotis, tetto giardino, pianta libera, facciata libera e finestre a nastro.
Il pilotis era fondamentale: sollevava gli edifici lasciando lo spazio sotto sgombro, e ciò invertiva la normale aspettativa del piano terra come il più massiccio;
Il tetto giardino era il mezzo principale per reintrodurre la natura nella città, e fungeva anche da isolante;
La pianta libera permetteva qualsiasi disposizione di stanze, pareti esterne o pareti interne a seconda delle esigenze personali ed estetiche;
La facciata libera consentiva qualunque tipo di apertura, finestra o riempimento, secondo le esigenze di vista, clima e privatezza;
La finestra a nastro divenne la sua soluzione prediletta alla facciata libera, visto che faceva entrare più luce e rendeva un rilassante effetto di orizzontalità.
Nel 1926 poté progettare la Villa Stein / de Monzie. Si articolava su un ampio lotto stretto e lungo, un formale blocco rettangolare, reso leggero dalle bande orizzontali di muro bianco e dalle strisce vetrate. E’ imponente, effetto aumentato dal balcone centrale stile “palazzo reale” e dal monumentale viale di ingresso. L’esterno suggerisce, mediante vetrate e terrazzi, la suddivisione interna, rendendo visibili le varie stratificazioni di cui la villa è formata. Lungo il cammino professionale interno sono esposti i pezzi della collezione d’arte degli Stein, percorso reso rilassante dalla combinazione di griglie di pilotis e di superfici curve. Le similitudine ingegneristiche e navali sono presenti soprattutto sul tetto, dove un magazzino curvo e sporgente rende l’idea del transatlantico, aiutato dalle balaustre di tipico gusto navale. Era una villa moderna con un’armonia, un gusto e una quiete classica.
LeCorbusier nel 1927 aveva già prodotto un intero sistema architettonico basato su “forme tipo” capaci di innumerevoli variazioni, un sistema applicabile su tutte le case e per tutte le occasioni. Inizialmente guidato dall’utopia dell’età della macchina, il nuovo sistema fornì soluzioni valide al più vasto problema di una architettura moderna.





CAPITOLO 11
Walter Gropius, l’Espressionismo tedesco e il Bauhaus
Nel dopoguerra, crollato il sogno di Muthesius di una grande kultur unificata, si venne a creare un periodo ambiguo, generato dal caos economico e dalla polarizzazione politica sull’estrema destra e sinistra. Gropius si accorse di questo bisogno di un nuovo ordine nell’arte, che generò negli artisti e negli architetti il tentativo di redimere la società attraverso l’arte, rivelandone le forme e i simbolismi.
Il Bauhaus nacque dalla fusione di due istituzioni esistenti a Weimar: la vecchia Accademia delle Belle Arti e la Scuola di Arti Applicate, era infatti obiettivo di Gropius una fusione tra arte e artigianato. L’ideale del Bauhaus era l’integrazione sociale e spirituale, in cui artisti ed artigiani si sarebbero uniti per creare un simbolico edificio collettivo del futuro. Gropius dava enorme importanza all’artigianato, espressione più vera dei veri sentimenti del popolo. Il suo radicamento nel movimento Arts and Crafts era chiaro nel modo di educare gli allievi della Bauhaus, visti come apprendisti in una corporazione dell’artigianato, educati all’uso delle più varie tecniche artigianali così come allo studio della forma e del colore (insegnavano qui pittori come Klee e Kandinsky). Era una scuola molto eclettica, che spaziava in tutti i campi dell’arte, ma solo dopo aver fatto “disimparare” all’allievo tradizioni e abitudini accademiche. Negli insegnamenti di Itten, insegnante del Vorkurs, al “disimparare” faceva seguito un ritorno al primitivismo, con riferimenti espressionisti e dadaisti.
In questa Germania lacerata dall’inflazione, però, gli unici artisti in grado di vendere le proprie opere parevano i ceramisti, tuttavia nel 1920 Gropius ebbe l’incarico di progettare una casa in legno per i Sommerfeld. Gropius si avvalse della collaborazione dei suoi studenti per gli interni e l’arredo, tra cui Breuer. L’edificio appariva ricercatamente ingenuo, medievaleggiante, ma il largo uso del legno pare distante dai futuri lavori in acciaio della Bauhaus.
Mendelsohn rientrava nel gruppo di artisti denominati come “espressionisti”, anche se è piuttosto difficile delineare i confini di questa corrente o semplificarla all’attitudine anti-razionale dei suoi sostenitori.
Nel 1920 poté progettare l’osservatorio dedicato ad Einstein a Potsdam, e il risultato fu un edificio assiale, ricco di forme curve e dinamiche, che si innalzava in una torre-telescopio. La sinuosità e la plasticità dell’edificio cercavano di riflettere le teorie Einsteniane di materia ed energia, infatti, per Mendelsohn, i nuovi propulsori della società erano proprio industria e scienza.
Ludwig Mies van der Rohe fu un altro architetto tedesco definito “impressionista”, prima di maturare su uno stile dalle forme rettilinee, basato sull’accentuazione poetica di struttura e tecnologia. La sua torre di vetro, lavoro giovanile, è l’essenza del grattacielo, il palazzo alto spoglio di ogni cosa, con la struttura a vista e l’etereo rivestimento vitreo. Non è semplice minimalismo, ma la silhouette romantica e i giochi di luci rendono questo edificio per uffici simile ad una cattedrale gotica.
Dopo le ardue sperimentazioni nel campo del vetro progettò un edificio per uffici in cemento, questa volta sviluppato su equilibri orizzontali e su piani sospesi. Ogni piano sporgeva un po’ rispetto a quello sottostante, creando un effetto ottico “espressionista”, quasi una rivisitazione dell’entasi classica.
Nel 1923 fondò il gruppo G di Berlino, in opposizione al formalismo e a sostegno di forme strettamente legate alla praticità e alla costruzione (Nuova Oggettività), esaltando materiali come vetro, cemento e ferro.
Nel frattempo l’economia tedesca mostrava segni di ripresa, mentre il governo social-democratico della neonata Repubblica di Weimar si dimostrò sostenitore del moderno: finalmente i progetti non sarebbero più rimasti soltanto tali.
La villa in mattoni del 1923 determinò la maturazione dell’opera di van der Rohe. Mai realizzato, questo progetto prevedeva una pianta composta da linee di varia lunghezza e spessore che sembravano estendersi all’infinito, partendo dal cuore dell’edificio. Queste linee murarie si interrompevano solo per lasciare spazio a vetrate a tutta altezza. In futuro tutto il suo stile si baserà su questa smaterializzazione dei piani, sul loro fluttuare e sulle piante centrifughe e in rotazione.
Riprese l’irregolare rivestimento in mattoni anche per il monumento a Rosa Luxemburg, una massa di volumi rettangolari compenetranti.
Tra il 1922 e il 1923 emerse definitivamente l’International Style. Nella Bauhaus si manifestò un nuovo orientamento, basato sulle forme base, semplici, su un ritorno di interesse per la forma. Per Gropius bisognava entrare in rapporto con la macchina, sia acquisendone le tecniche, sia ricercando uno stile adatto all’epoca della meccanizzazione. Bisogna evitare sia la pura funzionalità, sia il kitsch, e sintetizzare tutte le arti per la costruzione dell’opera totale: l’edificio. Alla Bauhaus si mirava ad un’architettura organica, chiara, logica, adatta al nuovo mondo delle macchine, al passo con le nuove tecniche ed i nuovi materiali. Bisogna abbandonare la vecchia simmetria assiale, in favore di un nuovo equilibrio asimmetrico ma ritmico.
Nel 1925 però la Bauhaus dovette addirittura trasferirsi, in seguito alle pesanti accuse rivolte loro dall’estrema destra pre-nazista.
Lasciata quindi l’ostile Weimar, il movimento si trasferì a Dessau, dove, anche grazie alle simpatie del sindaco, si presentò la grande occasione di costruire un edificio, sede della scuola, che esprimesse in sé tutti i valori e la filosofia stessa della Bauhaus. Gropius intese l’edificio come insieme di parallelepipedi separati, connessi tramite strutture intermedie di collegamento. Un ponte collegava gli atelier artistici, passando sopra ad una strada, e i diversi ritmi delle superfici vetrate rispecchiava esternamente la suddivisione interna degli ambienti e delle luci. L’International Style maturò nel Bauhaus, e il nuovo edificio inaugurò l’età d’oro della scuola, che vantava insegnanti del calibro di Klee, Kandinsky, Breuer. Si svilupparono progetti di sedie basati sul tubolare d’acciaio, ideali per le nuove costruzioni standardizzate, così come per i sistemi di illuminazione e per gli oggetti per la casa.
Quando però le committenze si fecero più numerose, il modo in cui la Bauhaus e la Nuova Oggettività trasferirono “l’estetica della fabbrica” e gli schemi residenziali di ispirazione inglese nella casa tedesca non fece altro che aumentare i sospetti e le accuse nei loro confronti, visti come animati da spirito anti-tedesco, innaturale, meccanicistico, inumano, fino al bolscevismo e alla sovversione. In effetti con la Nuova Oggettività la forma stava perdendo tutta la sua importanza, troppo drasticamente per una Germania dall’anima romantica e nazionalista.
Quando, alla grande mostra del 1925, tutte le opere presentate dai grandi dell’architettura mondiale (quali Mies van der Rohe, Gropius, Taut, Oud, Stam, Bourgeois e LeCorbusier) sembrarono al pubblico tutte uguali, nel loro ripetersi di bianchi volumi cubici, piante libere e forme rettilinee, si gridò allo scandalo, al “complotto internazionale comunista”. L’International Style venne apprezzato solo da una piccolissima parte di pubblico.
Nel 1928 Gropius lasciò il Bauhaus nelle mani di Meyer, ancor più radicale nel considerare l’architettura il risultato del prodotto tra funzione ed economia, con il totale disprezzo del formalismo. Era una concezione socialista-materialista più che capitalista. Modificò il nome del dipartimento di “architettura” in “costruzione”, ed incoraggiò l’uso del compensato per la creazione di mobili economici. Le critiche aumentarono sempre di più, mentre Meyer fu sostituito da Mies van der Rohe, ma nel 1933, con i nazisti al potere, la scuola fu chiusa definitivamente, e i metodi e le menti che avevano animato la Bauhaus si frammentarono emigrando in America.





CAPITOLO 12
Architettura e Rivoluzione in Russia
L’architettura moderna è stata pervasa da molti e diversi modi di intendere la propria ideologia, dal socialismo a-politico di Gropius, al marxismo materialista di Meyer, agli utopismi di LeCorbusier e Rietveld.
L’architettura sovietica degli anni venti era intrisa della convinzione post-rivoluzionaria dell’architettura moderna per il nuovo ordine sociale.
Tutto ciò non era facile: bisognava tralasciare completamente le tradizioni, cercare di immaginare i nuovi valori (ancora in fase embrionale) da esprimere come caratteristici della nuova società, non era chiaro nemmeno il ruolo dell’architettura, se conseguenza o spirito guida del nuovo ordine.
La precedente architettura in Russia era un eclettismo intriso di echi europei, e questa diffusione di architettura moderna fu solo un intermezzo prima del ritorno della vecchia architettura, sfruttata durante la dittatura di Stalin.
La Russia, priva di talenti, si ritrovò così in un periodo di intensa sperimentazione formale almeno fino al 1924, quando la situazione economica parve migliorare. Il bisogno di rompere col passato, la carenza economica (e quindi l’impossibilità di mettere in pratica i progetti) e la continua ricerca di un nuovo linguaggio potarono ad un utopismo avventato privo di senso pratico. Le prima direttive a questa nuova architettura si ebbero nel 1918 con l’abolizione della proprietà privata. Si tenne d’occhio l’Europa, e fecero proprie alcune idee futuriste, spogliate del loro carattere proto-fascista e associate alle idee socialiste, e così il culto della macchina, simbolo del progresso, divenne un importante riferimento della nuova società (scelta curiosa, vista l’arretratezza tecnologica di cui gravava la Russia).
Si sviluppò un’iconografia che fondeva i piani fluttuanti dell’arte astratta con citazioni della fabbrica e della meccanizzazione, anche se ciò avveniva in modo più “teatrale” che naturale, vista anche l’estrema arretratezza russa.
Nel progetto per il monumento per la Terza Internazionale Tatlin ha messo tre volumi (cubo, piramide e cilindro) sospesi all’interno di due spirali strutturali intrecciate, ognuno contenente una sala congressi dello stato. Le tre sale ruotavano a velocità differente (mese, anno, giorno), in linea con l’importanza. Il monumento sarebbe dovuto essere alto 400 m e verniciato di rosso. La spirale aveva grande importanza nell’architettura russa, vista come emblema dei tralicci ingegneristica, e poeticamente come forma legata al terreno ma proiettata in una fuga dalla terra. L’intera opera era un emblema dell’ideologia marxista, una società che aspirava al più alto stato dell’utopia proletaria egalitaria.
Altre manifestazioni d’avanguardia si riscontrarono al concorso per la realizzazione del Palazzo del Lavoro (1922-23), un complesso enorme e multifunzionale che non aveva precedenti. I fratelli Vesnin proposero un edificio formato da forme semplici collegate tra loro con ponti e corridoi, un’ostentazione del cemento armato e degli elementi strutturali, ma anche questo progetto non fu mai realizzato.
Tutta l’architettura russa pareva ormai prigioniera di un utopico tentativo di celebrazione tecnologica in uno stato privo di risorse e arretrato tecnologicamente.
Dopo questo periodo di sperimentazioni ed ipotesi proseguito fino al 1925 si entrò finalmente in una fase di realizzazioni.
Melnikov progettò circoli ed edifici pubblici, creando dinamici volumi scultorei (come tutti i membri dell’ASNOVA). In seguito l’ASNOVA fu duramente criticata dall’OSA (unione architetti), rea di mancanza di attenzione verso la praticità.
Opposto al formalismo dell’ASNOVA era il puro funzionalismo, e l’OSA cercò sempre di stare in mezzo a queste due tendenze, divagando spesso, però, nel puritanesimo espressivo. Caratteristica opera è il Narkomfin, residenza in cui i classici schemi erano sovvertiti in favore di una suddivisione interna tipicamente socialista, ricca di aree comuni e attenta agli equilibri tra singolo, famiglia e società. Lo stile, qui come nell’architettura russa per molti anni, doveva molto a LeCorbusier, un basso blocco sopraelevato su pilotis con finestre a nastro e tetto-giardino comune.
Nel 1927 fu offerto a LeCorbusier il progetto per l’Unione Centrale delle Cooperative dei Consumatori, e l’architetto dovette cercare di estendere il suo stile per ville a un’edifico imponente e multifunzionale. LeCorbusier superò qui i costruttivisti sul loro stesso terreno, enfatizzando le zone di circolazione, sottolineando il dinamismo dell’asimmetria dell’edificio.
Un architetto che trascende la disputa formalista/funzionalista russa è Ivan Leonidov, essendo riuscito ad operare una sintesi tra forma e funzione. Nell’Istituto Lenin di studi bibliotecari ha creato una similitudine con il planetarium, costruendo una biblioteca cupolare in vetro, quasi una mongolfiera trattenuta dai tiranti metallici.
Alla fine degli anni 20, però, la divergenza tra popolo e architettura moderna era sempre più evidente, inoltre gli organi dello stato erano ormai convinti che l’architettura moderna non fosse più adatta agli obiettivi dello stato, e fu soppiantata dal vecchio eclettismo e classicismo russo.
Proprio mentre l’architettura moderna in Germania era accusata di bolscevismo, la stessa architettura in Russia era condannata come borghese e capitalista, mentre da una parte Hitler e dall’altra Stalin premevano sulla tradizione, sul nazionalismo e sull’autorità statale.
Ultimo atto dell’architettura moderna russa fu il concorso per il Palazzo dei Soviet, per cui LeCorbusier ci ha offerto uno dei suoi capolavori. I due auditori erano disposti sullo stesso asse, forme derivate dall’ottimizzazione acustica interna. Il tetto della sala principale era sospeso mediante cavi d’acciaio che scendevano da un arco parabolico. Con i suoi spazi in tensione dinamica, le struttura trasparenti e le ampie aree assembleari, il progetto era l’immagine di un meccanismo di vita collettiva, un monumento alla democrazia. Ma il palazzo, tanto per cambiare, non fu mai realizzato, visto che si impose il gusto ufficiale, capace di rifiutare LeCorbusier e Gropius e di accettare un esagerato mausoleo neoclassico.





CAPITOLO 13
Grattacielo e periferia: 
gli Stati Uniti tra le due guerre
L’edilizia statunitense conobbe il suo boom tra la fine della prima guerra mondiale e il crollo di Wall Street del 1929. Le città crebbero vertiginosamente, sorsero ovunque grattacieli e le periferie si estesero a vista d’occhio. Nessuno si accorse della crisi verso cui stavano andando queste grandi città, e la politica del laissez-faire prevaleva sulle quasi assenti aspirazioni riformiste ed utopistiche, presenti solo nel campo dell’abitazione rurale e monofamigliare.
Gli Usa erano in una specie di “letargo culturale” da qualche decennio, prigionieri di una fase conservatrice che li portava a vedere con sospetto il fervore artistico che viveva in Europa. Gli architetti rimasero insensibili all’enorme potenziale tecnologico americano, e l’ingegneria continuò ad essere vista solo come un mezzo materiale.
L’America si era riversata sulle Beaux-Arts perché questo classicismo così adatto per la monumentalità e così facile da recepire era l’ideale per uno stato che si stava avviando ad essere la prima potenza mondiale.
Il classicismo era l’ideale per rendere più eleganti le città americane, e spesso si prendevano spunti dalla Roma imperiale e dalla Parigi di Haussmann. Da un lato architetti americani e clienti desideravano importare la cultura decorativa europea, dall’altro l’avanguardia moderna europea vedeva nell’America la terra promessa per la loro architettura. LeCorbusier, descrivendo un grattacielo americano finemente decorato, esprimerà come sia bene fidarsi degli ingegneri americani, e come sia bene invece non ascoltare gli architetti americani.
Col boom le industrie americane, cresciute enormemente, sentirono il bisogno di essere presenti nelle città mediante imponenti grattacieli, attenti, questa volta, anche all’importante aspetto stilistico e d’immagine della società stessa. Mentre elle origini, con Sullivan, si era cercato di dare al neonato grattacielo un nuovo linguaggio, negli ultimi decenni la tendenza era stata di “rivestirli” con gli stili più disparati, rubati all’Europa, per dar loro una parvenza di civiltà. Crebbero, così, città totalmente eclettiche, in cui si rasentava spesso il kitsch. Nel 1922 un concorso a Chicago offrì un lotto per quello che sarebbe dovuto essere “uno degli edifici più belli al mondo”: i progetti presentati erano tutti sulla linea dell’eclettismo, del remake o dell’imitazione (Adolf Loos addirittura trasformò l’intero fusto del grattacielo in una colonna dorica, e ci fu chi propose una rivisitazione del campanile di Giotto), mentre i progetti europei erano molto diversi, tutti sobri, privi di humour e cattivo gusto. Taut propose un edifico che era una celebrazione del vetro e dell’acciaio, Gropius si basò sul telaio rettangolare, in una costruzione che partiva dalla Chicago School e si realizzava negli ideali Bauhaus. La giuria, però, trovò i progetti europei troppo “ingegneristica” e privi di gusto architettonico, e preferì ripiegare su un progetto neo-gotico di Raymond Hood. Il secondo arrivato, invece, era molto più interessante: un progetto del finlandese Saarinen, lodato dallo stesso Sullivan.
A New York divenne simbolico il Chrysler Building di Van Alen, celebrazione del successo finanziario, l’edifico più alto del mondo (260m) fino alla costruzione dell’Empire State Building. Si ergeva su una base di 20 piani, un fusto intermedio grigio chiaro sormontato da una raggiera d’acciaio inossidabile culminante in una guglia. Le finestre accentuavano l’effetto di verticalità, che terminava nella sommità tondeggiante, come a rappresentare i movimenti degli ascensori. Era un edifico di grandissima eleganza, sia internamente che esternamente, anche se la presenza del cliente era ovunque: sculture a forma di tappi di radiatori, fregi di ruote, stemmi della casa, aquile americane e “cimeli” all’interno del palazzo.
Dopo questo monumento del capitalismo, Sullivan affermò di disperare ormai della possibilità di creare un’architettura americana, sconfitta da questa “incivile” architettura capitalista. LeCorbusier fu inorridito dai grattacieli di Manhattan, ma era indubbio il loro potere simbolico ed estetico nel mondo della finanza.
Dopo la crisi del 1929 si costruirono meno grattacieli, ma si assistette comunque alla costruzione dell’Empire State Building nel 1931, una vera e propria città in verticale, che aveva perso però l’eleganza del Chrysler Building.
I progetti più innovativi non vennero però mai costruiti, come quelli di Wright, che, nonostante la sua avversione per la città, riconosceva il grattacielo nella città moderna ideale. I suoi progetti prevedevano piani sostenuti da pilastri, illuminazione per quanto possibile naturale, contatto con l’esterno. Se per Sullivan il palazzo alto era l’espressione della verticalità, per Wright era un insieme di piani orizzontali compenetranti.
Wright, dopo l’incendio di Taliesin del 1924, passò molto tempo in Giappone, e al suo ritorno ricostruì Taliesin, il suo laboratorio vivente.
Progettò la Barnsdall House (Hollyhock House), in California, un complesso contenente un teatro, studi, alloggi per artisti. Wright la concepì come una serie di fasce orizzontali, con terrazze e tetti piatti. Era una vera e propria scultura paesaggistica su larga scala, con un fiume artificiale e il teatro che faceva da monumento.
Uno dei suoi allievi più promettenti fu l’austriaco Schindler, che aveva assorbito pienamente l’insegnamento del maestro, la vita a contatto con la natura, i riferimenti al sito e all’antichità (soprattutto del posto), l’archetipo del “rifugio”, ma con un occhio all’architettura moderna europea.
L’altro allievo degno di memoria è il viennese Neutra, più radicato nell’architettura moderna europea, ma allo stesso modo intriso dell’organicismo di Wright, senza tralasciare la sua visione di uno stile di vita profondamente naturale.





CAPITOLO 14
La comunità ideale: 
alternative alla città industriale
La ricerca di nuovi stili di vita si manifestò anche in progetti idealistici, e a volte utopistici, per la ripianificazione della città industriale. Questi progetti erano destinati a rimanere tali, ma hanno avuto lo stesso grande influenza sulle realizzazioni future.
Le nuove città cercavano di liberarsi dalle “forme morte”, anche se erano spesso assemblaggi di elementi urbani preesistenti, ricomposti in modi nuovi, spesso con una vena nostalgica verso il passato.
I problemi fondamentali furono affrontati da urbanisti quali Garnier, Berlage, LeCorbusier e Gropius, stimolati dalle nuove problematiche emerse nella città industriale. La velocità dell’immigrazione dalle campagne aveva determinato la nascita di informi e malsane periferie, l’espansione selvaggia aveva reso i trasporti insufficienti, e i nuovi ritmi economici avevano trovato delle infrastrutture urbane inadeguate. L’armonia tra società e natura era perduta, e doveva essere recuperata.
C’erano modi diversi di criticare il degrado della società industriale:
  • Marx ed Engels ne trovavano le cause nel capitalismo, ed unica soluzione era la rivoluzione;
  • Socialisti utopisti come Saint-Simon e Fourier auspicavano una irreale cooperazione tra le classi in una società egalitaria;
  • Il barone Haussmann tentò di risolvere il problema isolando, per mezzo delle boulevard, i quartieri operai dal centro borghese;
  • A New York si era cercato di introdurre la natura nel centro con il Central Park;
  • Sitte fu il primo a sostenere l’importanza del tessuto urbano preesistente, per evitare gli interventi proposti in tutta Europa che prevedevano una “tabula rasa”;
  • Arturo Soria y Marta sostenne i vantaggi della città lineare rispetto alla città gerarchica nel mondo industriale, che necessita di facili trasporti;
  • L’inglese Howard propose il decentramento, il modello di città pluricentrali e meglio gestibili, sintesi tra mondo rurale e mondo urbano, una Garden City secondo gli insegnamenti di Morris e Ruskin;
  • Unwin realizzò una zona urbana stile Garden City in pieno stile Arts and Crafts in Inghilterra;
  • Garnier, nella sua citè industrielle, proponeva la città industriale ideale, l’organizzazione più redditizia e i compromessi migliori, rispecchiando la sua ideologia socialista e le sue utopie neoclassiche;
  • Berlage realizzò l’estensione di Amsterdam in modo ammirevole, rendendola in miglior esempio di architettura moderna in Europa. Portò ordine dove non c’era mediante grandi viali alberati, tenendo le abitazioni in stretto contatto con i giardini;
  • LeCorbusier cercò di ridurre la città industriale ai suoi rapporti principali, cercando una sintesi tra meccanizzazione, ordine geometrico e natura. La “ville contemporaine”, progetto per una città ideale di 3 milioni di abitanti, si strutturava su 3 livelli, il più elevato dei quali era l’aeroporto. I fulcri politici,economici e sociali erano grattacieli, e il resto della città era organizzato in modo razionalista e disciplinato, con le classi sociali separate e il massimo apporto di spazi aperti (la strada tradizionale era abolita: tutto era sollevato su pilotis, lasciando liberi grandissimi spazi);
  • May progettò a Francoforte un’area urbana vastissima, ispirata vagamente alla Garden City. Era una città che puntava tutto sulla funzionalità e sulla razionalità, sfruttando al massimo la produzione in serie. E’ in questo contesto che è stata progettata la “cucina di Francoforte”. Questo spirito analitico, così attento alla compattezza e alla funzione, ebbe grande influenza in tutta l’Europa, simbolo di un’economia socialmente attenta, a differenza del brutale laissez-faire americano;
  • Gropius e Taut a Berlino, ormai vicini alla Nuova Oggettività. Taut, abbandonati i gusti espressionisti giovanili, cercava di infondere dignità e gusto alle sue opere standardizzate e funzionali:
  • Oud, in Olanda, realizzò straordinari interventi residenziali, ispirati a Berlage. Riuscì a sintetizzare le scoperte De Stijl con la funzionalità richiesta dalle abitazioni operaie, creando case a schiera che non perdevano la loro identità di singoli edifici, colorate, come anche gli arredamenti, come i quadri di Mondrian, di un dinamismo asimmetrico che ne accentuava i ritmi;
  • A Vienna il prototipo di grossi blocchi operai ad altissima densità di Behrens prevalse sulle proposte di periferie a bassa densità di Loos, e si vennero a creare delle mastodontiche fortezze operaie, luogo di aspri scontri sociali;
  • I CIAM (congressi internazionali di architettura moderna) nel 1928 sostennero il bisogno di ricollocare l’architettura nel contesto economico e sociologico del servizio all’umanità, riallacciando città e campagne, e nel 1929 si concentrarono sul tema della existenzminimum, l’abitazione minima. Nel 1930 si discusse dell’altezza ideale degli edifici, e nel 1933 si ritornò ai problemi generali della città moderna, quali organizzazione, funzionalità, benessere, pianificazione (su 4 temi: vivere, lavorare, ricrearsi e muoversi). La cellula base è il nucleo abitativo, e va messa in relazione con luoghi di lavoro e di ricreazione;





CAPITOLO 15 
L’International Style, il talento individuale e il mito del funzionalismo
Esaminando gli edifici che sono sorti negli anni 20 in tutta Europa, si potevano rintracciare elementi comuni,come finestre a nastro, tetti piani, griglie strutturali, piani orizzontali aggettanti, ringhiere metalliche, partizioni curve, volumetrie rettangolari con aperture nettamente tagliate, piani sospesi e spazi compenetranti, attenzione posta sul volume piuttosto che sulla massa, regolarità, assenza di decorazione.
Questo International Style permetteva di emulare i grandi stili del passato nella loro essenza senza imitarne la superficie, finalmente si era trovato lo stile dell’architettura moderna.
In realtà i grandi autori erano tra loro differenti, e spesso avevano voluto trasmettere ideali diversi, ma ciò non toglie che tutta l’architettura moderna degli anni 20 poteva essere vista, in senso ampio, come un’unica manifestazione mondiale. Era un linguaggio condiviso che univa tutta l’Europa, anche se faticò sempre a coinvolgere anche pubblico e committenza. Naturalmente ci furono sempre divisioni, come tra funzionalisti e formalisti russi, tra utopisti e materialisti, tra “Nuova Oggettività” (Meyer) e qualsiasi poeticità o spiritualità. Anche negli interni le differenze erano evidenti: dagli arredi spogli ed essenziali della Nuova Oggettività, ai materiali raffinati di Mies van der Rohe, agli oggetti tipicamente industriali prediletti da LeCorbusier (es. sedia Thonet), oltre ai suoi stessi mobili basati su strutture in acciaio tubolare (chaise longue).
Richard Fuller criticò aspramente l’International Style, che gli sembrava, alla stregua delle vecchie beaux-arts, solo un modo, falso e ingannatore, di rivestire in maniera ricercatamente spoglia e semplice le stesse strutture in acciaio sfruttate dagli architetti beaux-arts, senza una sincera espressione di tecnica e funzione.
Un capolavoro del movimento moderno, in grado anche di dimostrarci che non è il tempo a definire forma e principi delle opere, è il Padiglione Tedesco a Barcellona di Mies van der Rohe del 1929. Nacque come struttura temporanea con funzione celebrativa e ambasciatoriale della nuova Germania della Repubblica di Weimar, desiderosa di dimenticare il passato imperialista. Van der Rohe sintetizzò tecnica e forma, classico e moderno, ed enfatizzò i valori strutturali dell’architettura moderna in una pianta centrifuga, liberando i muri da ruoli portanti ed esaltando i telai strutturali, arricchiti da raffinati riempimenti (materiali costosi invece del solito economico cemento). Gli interni furono arredati con pesanti sedie in pelle e acciaio (mod. Barcelona), per creare un ambiente regale, dove sarebbero stati ospitati i reali di Spagna. Una statua di donna in una vasca conferiva al tutto il gusto classico che van der Rohe ricercava, completato dai giochi di luce creati sui pavimenti in pietra, sull’acqua e sull’acciaio.





CAPITOLO 16
L’immagine e l’idea della Villa Savoye di LeCorbusier a Poissy
E’ un’opera matura di LeCorbusier, difficilmente classificabile all’interno del condiviso International Style, ma fortemente personale e ricca di contenuti.
Ci si arriva in auto, imboccando una misteriosa stradina tra gli alberi che si affaccia su una radura, dove sorge la villa, ed è qui che il visitatore la vede per la prima volta. Sembra una scatola bianca sospesa su pilotis, immersa nel panorama; il viale d’accesso passa sotto l’edificio, attraverso il basamento dipinto di verde, per poi girare attorno all’edificio e sfociare sulla strada sull’altro lato. La scatola principale del 1 piano è sormontata da volumi curvi, e la facciata dà l’impressione di simmetria e radicatezza nel terreno. La figura complessiva, la singola finestra a nastro e le vetrate industriali del piano terra (dove alloggia la servitù) danno una forte enfasi orizzontale, e il sistema di pilotis cilindrici, leggermente arretrati rispetto la facciata, crea un senso generale di leggerezza e sospensione.
La visita dell’edificio ha un gusto cerimoniale, iniziando dall’arrivo in auto attraverso il bosco, il passaggio sotto l’edificio, l’ingresso vetrato e l’auto che, con l’autista, prosegue il giro dell’edificio per parcheggiare. Si passa nell’ingresso, dominato da curve superfici vetrate, e una rampa sale dritta verso i piani superiori, mentre un’altra scala, a spirale, collega l’area dei domestici ai piani alti. La rampa principale, in pianta esattamente sull’asse, ha grande importanza nella promenade, collegando i vari eventi e dando un carattere nobilitante all’ascesa. Emersi al primo piano, il piano nobile della casa, ci si ritrova negli ambienti più formali e pubblici, che si aprono attorno al tetto terrazzato, una specie di stanza a cielo aperto nascosta. Il camino del salone sfocia in una ciminiera di tipo industriale. Se si prosegue lungo la rampa fino al secondo piano si giunge in un ambiente dal gusto decisamente “nautico”, con balaustre navali, ciminiere, cilindri (tra cui quello contenente il finale della scala a spirale). LeCorbusier gioca molto sugli effetti di trasparenze e sulle percezioni simultanee di più livelli, senza tralasciare mai l’armonia di base e il controllo della proporzione degli elementi. L’ultimo tratto della rampa ascende verso il solarium (il volume curvo che si intravedeva dal basso) in cui è ritagliata una finestra che offre un interessante effetto cromatico, col quadrato di cielo azzurro contornato dalle pareti bianche. Arrivati in cima si apre la vista ad un fantastico panorama, che ribalta la percezione dell’inizio del “tour”, essendo ora l’edificio a circondare il panorama, mentre all’arrivo nella radura si vede il panorama circondare l’edificio.
Nella Ville Savoye si mescolano diverse idee formali: una struttura essenzialmente simmetrica, rafforzata dalla pianta quadrata e dalla rampa centrale, che si combina con un interno strutturato asimmetricamente e reso dinamico dalle curve, dall’asimmetria del tetto e dal movimento rotatorio suscitato. LeCorbusier suggerisce la similitudine con l’architettura araba, un’architettura fatta di movimento e viste dinamiche, a differenza di quella barocca, ad esempio. Considera Ville Savoye il perfezionamento della sua arte (come lo era stato il Partenone in Grecia, nato da Paestum  Maison Citrohan), entusiasta della promenade architettonica suscitata da un sistema rigido di travi e colonne. Il pilotis stesso è emblema della concezione di LeCorbusier, al tempo stesso forma naturalmente bella (idealismo) e forma essenziale e naturale, priva di ogni decorazione, del sostegno in cemento (razionalismo).
La Ville Savoye è quindi una creazione senza tempo, semplice e immediata, classica nelle idee e radicale nella concezione architettonica.





CAPITOLO 17
La continuità di tradizioni più antiche
Inizialmente (anni ‘30) il Movimento Moderno era in minoranza, sullo sfondo di diverse tradizioni precedenti. In realtà non era una vera e propria distinzione tra “moderni” e “tradizionalisti”, perché abbiamo visto bene quanto debbano al passato e alla tradizione architetti come Wright, LeCorbusier e Mies van der Rohe, ma non era nemmeno un semplice cambio stilistico. Alla fine il Movimento Moderno ebbe la meglio, e i suoi schemi furono adottati in tutto il mondo, e le ragioni di ciò variano di luogo in luogo. Negli anni 30 le posizioni tradizionaliste furono spesso usate dai regimi totalitari per estromettere l’architettura moderna, e anche ciò contribuì ad un rigetto generale successivo. Anche grandi artisti considerati “anacronistici” vennero tralasciati, come Gaudì, impegnato fino al 1926 nei suoi personali sviluppi Art Nuveau, o Wright, che terminò la carriera con progetti esotici e romantici: la tendenza era di accomunare sempre più uno stile a un momento e un momento ad uno stile, tralasciando tutto il resto. Anche manifestazioni rivoluzionarie, ma a sé stanti rispetto all’International Style, vennero emarginate, come la Torre Einstein di Mendelsohn (espressionista) e il Goetheanum di Steiner (il fondatore dell’antroposofia). Nel Goetheanum mondo minerale e vegetale si intrecciavano, assumendo toni cangianti alla luce. Nel centro di questa costruzione poligonale c’era una astrazione di un albero, simbolo delle teorie di Goethe sulle specie vegetali.
Altra corrente derivata dall’Art Nuveau, e come tale rigettata, fu l’Art Decò.
Era una tendenza fortemente esotica e decorativa, in netto contrasto con i principi dell’International Style, ed aveva un valore architettonico decisamente scarso, anche se ha influenzato opere di valore, come, ad esempio, il Chrysler Building di Van Alen a New York. La procedura era, in genere, di mascherare un impianto assiale beaux-arts con materiali moderni e superfici finemente decorate, con forti contrasti cromatici e di texture. L’Art Decò era un modesto ponte tra moderno e consumismo, di forte carattere “pubblicitario”.
Effettivamente il Movimento Moderno si tenne sempre al confine, se non al di là di esso, della comprensione del pubblico. I vari rifiuti nei concorsi pubblici vanno spiegati anche con il comprensibile timore che il pubblico non potesse apprezzare, spiazzato dalla lotta contro i cliché, privato delle naturali associazioni a cui era abituato. Tutto ciò risulta ancor più evidente nel campo delle abitazioni private, dove la nuova architettura divenne proprietà culturale di bohèmien di classe medio-alta, mentre il gusto dell’uomo comune era a suo agio tra gli ideali Arts and Crafts.
Le fredde costruzioni moderne, così simili a fabbriche, vennero associate ovunque ad una ristretta cerchia di eruditi, così lontani dal gusto comune, e ci vollero oltre due decenni per permetterne una volgarizzazione e popolarizzazione.
Nella maggior parte dei paesi europei, in America e in Russia la tradizione preesistente da sconfiggere era l’eclettismo, capace, nonostante tutto, di consentire un ampio spettro di significati. Queste forme resistettero anche durante il momento migliore dell’architettura moderna, quando, giustamente, venivano preferite a questa in campi in cui era necessario sottolineare il rapporto col passato e con le tradizioni.
Washington sorse come una nuova Roma, a capo di un nuovo impero, monumento neo-classico ricco di riferimenti presidenziali (Lincoln Memorial, obelisco a Washington).
Anche i grattacieli di New York degli anni ’20 erano una chiara rielaborazione beaux-arts, pur non presentando chiaramente le insegne del classicismo.
Nelle colonie la “cultura ufficiale” si fuse spesso l’identità culturale locale, dando vita in certi casi a falsi orientalisti piuttosto ridicoli, in altri ad esempi di eclettismo in grado di rappresentare adeguatamente luogo e popolazione, sia colonizzante che colonizzata (ma senza mai perderne di vista le relazioni di subordinazione).
Altra area in cui le soluzioni tradizionaliste furono sempre preferite a quelle moderne fu la progettazione di chiese, dove era indispensabile una certa aderenza all’immaginario convenzionale.





CAPITOLO 18
Natura e macchina: 
Mies van der Rohe, Wright e LeCorbusier negli anni ’30
Negli anni ’30 l’architettura moderna era ormai abbastanza diffusa nel mondo occidentale, ma la sua intensità creativa cominciò a cedere, aiutata anche dalla depressione economica e dalla repressione dei regimi totalitari. Emerse un accademismo moderno, in cui l’imitazione formale non corrispondeva a nuovi contenuti. Il Moderno raggiunse tutto il mondo, e sovente furono necessari dibattiti per verificarne l’adeguatezza ad esprimere le tradizioni culturali nazionali.
Le forme tipo caratteristiche del Moderno (pianta libera, elementi orizzontali sospesi, pareti bianche, pilotis, spazio post-cubista…), che imponevano limitazioni ma, al tempo stesso, aprivano nuove direzioni, divennero negli anni ’30 oggetto di studio e di sviluppo, e, mentre alcuni elementi diventarono patrimonio comune (spesso oggetto di moda), altri vennero abbandonati, come la parete intonacata di bianco con le finestre a nastro, inadeguate alle nuove intenzioni. L’architettura degli anni ’30 appariva più organica, con curve più complesse, facciate elaborate, finiture e materiali meno “asettici”. C’era un interesse più vivo verso la natura, e le restrizioni dell’International Style sembrarono sempre meno pertinenti, così come l’eccessiva planarità astratta degli edifici.
Wright, che non aveva mai abbandonato la Natura come riferimento, negli anni ’30 sperimentò nuove vie sul concetto di “origine naturale”; LeCorbusier cambiò direzione, mediando le nuove tecnologie in vetro e acciaio e un primitivismo rurale e surreale; Mies van der Rohe si assestò su progetti simmetrici per gli edifici pubblici e asimmetrici per quelli privati, stabili e simbolici quelli pubblici, informali quelli privati.

MIES VAN DER ROHE
Un esempio del suo modo informale è casa Tugendhat (1930), sviluppata su un pendio, riservata sul lato della strada e aperta e trasparente sul lato del panorama. Gli interni rispecchiavano il lusso del Padiglione di Barcellona (una parete divisoria curva in ebano creava uno spazio pranzo), fondendo tranquillità classica e lussuoso macchinismo (intere parti delle vetrate esposte al panorama potevano ritrarsi nel pavimento, aprendo la casa alla natura).

WRIGHT
Dopo l’avvento dei nazisti la Bauhaus fu chiusa, e Mies, che ne era direttore, si trasferì, nel 1937, in America, dove fu accolto da un Wright incompreso, anziano e in problemi finanziari. Col New Deal Wright rinacque, e si dedicò anche a progetti come casette unifamiliari economiche e un utopico progetto di decentralizzazione (Broadacre City).
Uno dei suoi capolavori fu “Fallingwater” (la casa sulla cascata) del 1934-37, un ritiro in campagna al di sopra di una cascata. L’edificio si ancorava alla roccia, così i suoi piani orizzontali si libravano privi di peso e di supporto apparente al di sopra dell’acqua. Le pareti erano quasi del tutto assenti, sostituite dalle ampie finestre, dalle ampie sporgenze murarie e dai livelli sovrapposti. Il camino era in grezza pietra locale, in netto contrasto col calcestruzzo delle balconate. L’edificio sintetizzava al meglio sia le idee architettoniche di Wright, sia l’estrema integrazione tra architettura e Natura. Wright celebrava l’ossessione americana della vita libera in mezzo alla natura, ed ebbe anche da criticare il Movimento Moderno europeo, a cui molti lo accomunavano, sostenendo che le case non dovrebbero assomigliare a scatole splendenti, né essere un monumento alla macchina, ma dovrebbero essere un terreno primordiale, complementare al suo ambiente naturale. In questo panteismo Wright rifletteva sulle origini naturali dell’uomo, e sulla sua integrazione nella natura.
Altra grande opera del Wright maturo fu il Johnson Wax Administration Center, un grosso complesso per uffici commissionato da una società che voleva dare un’immagine di grande famiglia sotto un benefico patriarcato. Wright realizzò un luogo comunitario e solidale, senza dimenticare i rapporti gerarchici. L’edificio era un grande rettangolo senza finestre, in cui l’illuminazione era garantita da un ampio lucernario. I piani superiori, sospesi verso l’interno, si affacciavano sull’atrio. I piani più alti, posti in una sovrastruttura a ziggurat, ospitavano la dirigenza, e un ponte collegava lo stabile all’area di ricerca, completata da una torre vetrata per il laboratorio. Gli esterni presentavano spesso spigoli curvi ed aerodinamici, e l’effetto di aerodinamicità continuava all’interno, nelle finiture e nell’illuminazione, con largo uso di effetti di lucidità di vetro e metallo, che rimandavano alle cere prodotte dall’industria. Wright odiava il modello classico delle fabbriche, e riuscì qui a creare un luogo in cui vita e lavoro si valorizzavano vicendevolmente, e il successo fu dimostrato dal fatto che molti dipendenti decidevano di trattenersi in quell’oasi anche dopo la fine dell’orario lavorativo.
Wright elaborò anche una proposta teorica di città moderna ideale, nota come Broadacre City (1935). Era il frutto delle sue riflessioni sul problema della riconciliazione di uno stato ideale con la libertà individuale all’interno di una società meccanizzata. Era una comunità decentralizzata in cui l’abitazione unifamiliare e il piccolo appezzamento di terreno costituivano le unità fondamentali. Wright era convinto che la città centralizzata fosse ormai obsoleta, abbattuta da invenzioni come il telefono e l’automobile, e che, quindi, la meccanizzazione ci stesse portando al nostro vero destino: una democrazia rurale di liberi individui. Era l’unico modo per recuperare la “dignità” individuale, l’unico per liberarsi dal “profitto” del capitalismo urbano. Le torri alte si ergevano qua e là, disperse nella griglia cittadina, e, tra le “usonian” (casette individuali che diventarono in seguito il modello di migliaia di residenze economiche), sorgevano mercati, teatri e anche una cattedrale (non in posizione centrale, ma laterale). Wright infatti, come LeCorbusier, era convinto che la realizzazione della sua Utopia rendesse obsoleta la religione tradizionale.
Nel 1937 costruì anche l’avamposto Taliesin West nel deserto dell’Arizona, dove trasferire la sua scuola nei mesi d’inverno. Per questo edificio si rifece agli indiani d’America e alle forme naturali del deserto.

LE CORBUSIER
Nel 1930 Le Corbusier, a 43 anni, era in un periodo di grande successo, a differenza del 63enne Wright. Era arrivato il momento di rivedere un po’ il proprio stile, per non cadere nell’imitazione di sé stesso, e di porsi nuove problematiche, ed infatti in questo periodo progettò in tutti i continenti e proseguì i suoi studi sulla città ideale, sempre convinto del ruolo messianico dell’artista. Si avvicinò molto alla natura e all’uomo primitivo, affascinato da ciò che vide nei suoi viaggi, ma non significa che abbandonò del tutto la sua ammirazione con la macchina, anzi, tentò di far coincidere meccanico e naturale più armonicamente. Anche i suoi quadri cambiarono soggetto: dalle nature morte di oggetti industriali passò alla figura umana e agli oggetti naturali. Le sue linee si ammorbidirono, curve e contorni si fecero più irregolari, adottò forme biomorfe. Fu attratto dal surrealismo e dal fotomontaggio, e la sua architettura risentì di ciò nell’uso di texture dai forti contrasti e dai colori vivaci. Le sue opere si avvalsero di materiali naturali, e fece largo impiego di murature in pietra, assi di legno e materiali locali.
La Petite Maison del 1935 è un rifugio rustico periferico a volta, che non solo abbandona i piani sollevati su pilotis, ma è addirittura seminterrato, con continui riferimenti sia al mondo industriale, sia a quello rustico e artigianale.
Il Pavillon Suisse per la Citè Universitaire era una casa dello studente strutturata su pilotis a forma di 8, con una torre curva che comunicava tra scatola e base, contenente le scale. Una facciata era totalmente vetrata, e dava sui campi, mentre l’altra era trattata come superficie grezza. Abbandonando le esili forme bianche degli anni 20, Le Corbusier era riuscito a creare un’architettura che, sempre basandosi sui soliti 5 punti, si adattava perfettamente ad edifici di grandi dimensioni. Il Pavillon Suisse era una sperimentazione riuscita degli ideali che si proponeva nella sua “Ville Radieuse”.
Le Corbusier era convinto che un ambiente ben ordinato potesse riunire in armonia uomo, macchina e natura. La meccanizzazione portava degrado e declino, ma, se usata nel modo giusto, forniva i mezzi per realizzare un nuovo ordine. Con la Ville Radieuse, città fortemente urbanizzata e centralizzata, creò la sua Utopia. La maggior parte degli spazi era destinata ad aree per il tempo libero, ampie strade rendevano i trasporti agevoli e i pedoni avevano percorsi appositi su altri livelli. “L’ordine ideale” era sintetizzato nella simmetria e nella geometria simbolica della pianta, di forma quasi antropomorfa. I tipi principali erano grattacieli (raggruppati nelle periferie) ed edifici per appartamenti, tutti sollevati da terra su pilotis. Non esisteva più alcuna divisione di classe (com’era invece nella Ville Contemporaine), e la città era piena di strutture di carattere collettivo.
Le Corbusier, tuttavia, dimostrò grande adattabilità creativa (a differenza dei propri seguaci), come, per esempio, nel suo progetto per Algeri (Piano Obus), in cui grandi viadotti portavano le strade su un livello superiore rispetto alla città e le case ricercavano uno stile tutto mediterraneo.
Le idee urbanistiche di Le Corbusier non vennero mai attuate, e si dovette limitare a lasciarle sulla carta e a criticare i sistemi esistenti, come le irrazionali città americane. Lui sperava di trasformare le città che contenevano un parco in parchi che contenessero una città.
Negli anni trenta Wright, Le Corbusier e Mies van der Rohe riuscirono a rivitalizzare e modificare la propria architettura, e si concentrarono sulle loro visioni urbane, sperando tutti nel ruolo di un’architettura capace di ricollegare individui e società in un ordine naturale e armonico. Per Mies van der Rohe significava spazio di libertà individuale, per Le Corbusier e Wright era indispensabile un giusto rapporto con la Natura, illuminista per il primo e rustico e “americano” per il secondo. Si consideravano platonici filosofi-sovrani detentori del segreto della società perfetta, anche se ora ci sembra chiaro che le disgregazioni presenti all’interno delle società occidentali erano difficilmente superabili con dei palliativi architettonici.





CAPITOLO 19
La diffusione dell’architettura moderna in Gran Bretagna e in Scandinavia
Come per ogni rivoluzione creativa, anche il Movimento Moderno conobbe, negli anni ‘30, una fase in cui le innovazioni precedenti vennero assorbite ed esplorate. Questa nuova generazione, che includeva Alvar Aalto, Lubetkin, Sakakura, Niemeyer, Sert e Terragni, nata a cavallo fra i due secoli, ebbe il compito di assimilare la Nuova Architettura senza cadere in dogmatismi o imitazioni servili.
Mentre negli anni ‘20 il Movimento Moderno era all’apice del successo in quasi tutto il mondo, in Gran Bretagna e in Scandinavia era ancora di scarsissima influenza, ma, alla metà degli anni ’30, la situazione si invertì.
Favoriti dall’immigrazione di talenti da paesi come la Germania, vittima della repressione nazista, Gran Bretagna e Scandinavia prepararono il terreno, ognuno in modo diverso, alla nascita di un buon movimento artistico locale.
In Danimarca e in Svezia l’architettura moderna era vista come simbolo di democrazia ed emancipazione, ed in Finlandia rappresentava addirittura la nuova identità nazionale di un paese che teneva a rivendicare la sua indipendenza dalla Russia.
In Gran Bretagna, invece, l’architettura moderna fu inizialmente distante dalle vicende statali, si diffuse tra le difficoltà e la resistenza dei tradizionalisti ma rimase sempre in una posizione abbastanza marginale.
L’architettura moderna degli anni ’30, a differenza di quella precedente, era caratterizzata da una fusione di idee nuove ed eredità degli anni precedenti.
GRAN BRETAGNA
In Gran Bretagna mancavano, ed erano sempre mancati, tutti i presupposti per uno sviluppo moderno. C’era una tradizione forte, un movimento Arts and Crafts vivo e un neoclassicismo sempre presente, mancavano committenze e talenti progressisti, nell’arte non c’era mai stata la rivoluzione cubista avvenuta in Europa e la soddisfazione post-bellica rendeva superflua ogni utopia urbanistica.
Le prime opere veramente moderne sorsero alla fine degli anni ’20, e il maggiore architetto degli anni ’30 fu sicuramente il russo Lubetkin. In lui convivevano le idee del contesto sovietico e gli insegnamenti del suo maestro di gioventù Perret, oltre ai principi dell’ammirato Le Corbusier.
Nel ’30 fondò il gruppo ”Tecton”, con cui progettò prima l’innovativa vasca per i pinguini dello Zoo di Londra, poi gli appartamenti High Point I di Highgate. Sorgevano in mezzo ad un parco su pianta ad H, per massimizzare le vedute, con un corpo principale sollevato su pilotis e tetto terrazzato comune. Una rampa curva (simile a quella dei pinguini) scendeva nel giardino retrostante. Era una valida sintesi dell’architettura di Le Corbusier e delle residenze collettive sovietiche, e lo steso Le Corbusier ne lodò il progetto come una “Garden City verticale del futuro”.
Anche Mendelsohn arrivò in seguito alle persecuzioni naziste, e progettò subito il complesso per il tempo libero De La Warr Seaside Pavilion. Era molto raro, in Gran Bretagna, avere così grosse commissioni, e molti architetti si dovettero accontentare di progettare piccole case private. Inoltre, lo stile moderno (così lontano dalla “casa” anglosassone) continuò ad essere guardato con sospetto, come dimostrano alcune imposizioni delle amministrazioni locali sull’uso dei materiali tipici o sull’uso di rivestimenti in legno per i tetti piani.
Due tra gli edifici moderni più importanti in Gran Bretagna avevano destinazione commerciale: la Boots Factory di Williams e il Peter Jones Store di Crabtree. Entrambi avevano una facciata continua in vetro con scheletro in calcestruzzo, sostenuti da pilastri a fungo.
Più tardi si sentì il bisogno di uscire dagli angusti limiti dell’International Style, così lontano dalla “casa” britannica, e Lubetkin ci provò col suo High Point II. Ci furono sì delle costrizioni sul progetto da parte delle amministrazioni locali, ma ciò non giustificava l’eccessivo decorativismo e i riferimenti classici e barocchi che caratterizzarono l’esperimento. Le reazioni furono diverse: c’era chi si sentì oltraggiato, e chi considerò il progetto un importante mossa oltre il funzionalismo. Il formalismo di High Point II era sintomatico dell’imbarazzo degli architetti rispetto ai gusti della loro ristretta clientela, che faticava a capire l’architettura moderna, e la crisi di idee della stessa architettura moderna.

SCANDINAVIA
In Scandinavia il moderno si caricò presto di caratteri social-democratici, ed incontrò presto l’approvazione dello stato e del pubblico. Era la giusta risposta ai problemi di una zona che si stava velocemente urbanizzando, felicemente accolta anche dalla religione protestante, che ne ammirava l’estetica “povera”. Lo svedese Asplund fu un degno esponente dell’architettura moderna scandinava, e riuscì a combinare armonicamente funzionalità moderna e disciplina e gerarchie classiche.
In Finlandia Alvar Aalto partiva da fondamenti classici e nazional-romantici, e Bryggman creò la sua modernità su basi classiche e tradizionali nordiche e mediterranee. Aalto era cresciuto in un’atmosfera carica di questioni legate all’identità nazionale finnica, in cerca di autonomia dalla Russia, influenzato dal classicismo nordico e dal nazionalismo romantico di gusto quasi gotico, e tenne sempre conto sia delle condizioni climatiche, sia di un elegante uso dei materiali locali, in particolare il legno. Il suo stile, che, maturando, divenne sempre più funzionale, era strettamente legato a Le Corbusier e ai suoi 5 punti, oltre che a schemi intrinsecamente classici. Il suo Sanatorio di Paimio (1933) è considerato uno dei capolavori del Movimento Moderno. L’edificio nasceva su un sito rilevato e immerso nelle foreste, visto che il metodo seguito per curare la tubercolosi era l’esposizione al sole, al verde e all’aria aperta. Le stanze erano in un edificio a sei piani con tetto a terrazza, utilizzabile per i letti nei giorni più caldi, ed era stata data particolare attenzione alle viste panoramiche e agli ingressi di luce naturale. I piani si aggettavano da una struttura portante a tronco rastremato, e la disposizione delle ali denotava una organizzazione complessa e articolata, adatta ad ogni situazione climatica. Riprendeva gli schemi dell’architettura collettiva sovietica, raggruppando le stanze private nella struttura a lastra e le aree collettive in volumi ad essa articolati.
All’incontro dei CIAM del 1933 Aalto incontrò e impressionò Le Corbusier, Mies van der Rohe e Gropius; un giovane talento che era riuscito a convertire un’intera nazione all’architettura moderna. Aalto si fece promotore nel mondo dei valori finnici, e soprattutto del legno e dei suoi molteplici utilizzi, disegnando splendidi mobili dal carattere spesso antropomorfo. Aalto cercava di portare la natura, le tradizioni e la cultura locale sempre più vicino alla sua architettura e all’uomo.
Nella Villa Marea (1938-41) sperimentò le sue idee di rifugio rurale allo stesso modo di Le Corbusier nella Ville Savoye. Si strutturava sulla consueta forma ad “L”, che permetteva una chiusura privata su un lato e un fronte formale e di relazione sull’altro. Vi era un forte utilizzo di legno, pietra e mattoni, con grande attenzione alle splendide vedute e alla foresta circostante. I dettagli erano “artigianali”, e sfruttavano gli intrecci e le tessiture di materiali naturali ed artificiali, con uso di cinghie, perni di legno, travi, in una personale “mitologia della foresta”. Un’ala rustica, affiancata alla piscina, ospitava la sauna, ed era strutturata in maniera estremamente naturale, quasi una capanna nordica primitiva, sormontata da zolle erbose. In tutta la villa c’era un costante contrasto tra artificiale e naturale, tra acciaio e legno, tra urbano e rurale, tra colto e primitivo. L’immagine generale evocava forme biomorfe e astrattismi, e l’opera si radicava nel concetto di origine, immersa nella foresta.






CAPITOLO 20
Critiche dei regimi totalitari al Movimento Moderno
Nel corso della storia l’architettura monumentale è stata utilizzata per incarnare i valori di ideologie e gruppi dominanti, e come strumento di propaganda dello Stato. I regimi totalitari in Russia, Italia e Germania tentarono di rafforzare i sentimenti nazionalistici tramite precedenti tradizioni architettoniche, a cavallo tra legittimazione storica e populismo. In queste regioni l’architettura moderna non solo veniva emarginata, ma era anche vista come una minaccia da sopprimere. Era “straniera”, ignorava le tradizioni locali, era di difficile comprensione al grande pubblico, era frutto di “congiure bolsceviche” in Germania o simbolo di un occidente in declino in Russia. Non sempre fu respinto: in Germania se ne sfruttò la funzionalità nei capannoni bellici, e in Italia, con accenti progressisti e latini, venne affiancata al regime.

GERMANIA
In Germania i dibattiti sulla nuova architettura avevano portato ad una completa identificazione della casa moderna a tetto piano col marxismo, con la volontà comunista di annientare la personalità e l’umanità nel collettivismo standardizzato e materialista. Ne veniva criticata la mancanza di praticità, lo stile “orientale, ebreo e bolscevico”, la freddezza dei materiali, la bruttezza, inadatta a celebrare la razza tedesca. Con la salita al potere dei nazisti, nel 1933, la Bauhaus fu chiusa e molti architetti furono messi al bando, altri furono cacciati, altri emigrarono di loro spontanea volontà (Mendelsohn). Mies van der Rohe decise di restare, forse convinto da quell’ala del nazismo che considerava la funzione alla base della forma, e partecipò, come anche Gropius, al concorso per la Reichsbank del ’33. Entrambi i progetti furono scartati, in favore di idee più classiche. Nel 1937 emigrò negli Stati Uniti anche Mies van der Rohe. Hitler era un architetto frustrato, e cercò di lasciare una nuova Berlino imperiale, convinto di poter incarnare l’anima di un’epoca e del volk nell’architettura monumentale e tradizionale. L’architettura “nazista” divenne quindi gotica in certi casi, e classica in altri, relegando l’architettura moderna in applicazioni funzionali di “bassa gerarchia”, come fabbriche ed uffici. Troost, il consulente di Hitler per l’architettura, amava un architettura monumentale e classicheggiante (si credeva in un legame tra cultura greca e teutonica), semplice e “comunitaria”, celebrativa del nuovo stato. Nel ’34 Troost morì, e fu sostituito dal giovane Speer, l’autore delle monumentali ed enfatiche scenografie delle manifestazioni naziste, senza disdegnare riferimenti alla magnificenza egizia, babilonese o classica. Speer voleva impressionare il mondo con la rinata potenza tedesca, per mezzo di opere militariste e vigorose, ma ripetitive ed estremamente banali. Il suo progetto per il nuovo Palazzo della Cancelleria (1938) era un’imponente struttura classica, piuttosto spoglia e monotona, che racchiudeva al suo interno lunghi e lussuosi corridoi, con l’intento di impressionare e “spaventare” qualsiasi visitatore, costretto ad una lunga camminata tra bandiere, svastiche ed uniformi. Fu nel bunker ad esso connesso che Hitler morì, nel ‘45, mentre i russi demolivano il suo mausoleo. Nel 1937 riorganizzò Berlino, ritagliandola con lunghi viali assiali, rifacendosi agli schemi parigini, dell’antica Roma e di Washington. Il punto focale era la cupola di immense proporzioni della “Grande Sala” (mai costruita), un pantheon celebrativo del nazismo, fronteggiato da un arco di trionfo.
Nel campo domestico il nazismo sponsorizzò la ruralità, l’esaltazione dell’atleticità, i regionalismi, l’artigianalità, facendo attenzione alle tipologie (tetti a falde) e ai materiali più adatti in maniera spesso artificiosa.
All’Esposizione Internazionale di Parigi del ’37 i padiglioni russo e tedesco erano di fronte, ed era inquietante come somigliassero l’un l’altro.

RUSSIA
In Russia il gusto ufficiale stava cambiando già dal 1931 (Palazzo dei Soviet), come, ad esempio, in pittura, dalla quale fu estromessa ogni astrazione in favore di un realismo dai temi rigorosamente scelti dal regime. La “formalità” era censurabile: nulla doveva essere di difficile comprensione per il grande pubblico. In architettura si seguirono due strade: quella della decorazione esasperata e quella monumentalità di facile lettura, populista ed imperialista.

ITALIA
Mussolini non ebbe il bisogno di creare la sua capitale, avendo già un palcoscenico quale l’antica Roma. Nel 1925 pianificò un’opera di rinnovamento di Roma, che comprendeva nuove strade diritte a tagliare la città ( Haussmann) per congiungere gli antichi monumenti con quelli che aveva in mente di costruire con la consulenza di Piacentini. Liberò i monumenti da impedimenti limitrofi, esaltò la magnificenza e il passato glorioso di Roma e lo accostò a viali a scorrimento veloce, simboli della città moderna ( Marinetti e futurismo). Tutta la propaganda fascista si basò sulla “terza Roma”, sul nazionalismo e sui parallelismi con l’antica Roma imperiale.
Il Movimento Moderno in Italia si sviluppò più tardi (1928), ed incontrò minore resistenza, grazie anche al fatto che arrivò quando ormai il fascismo era ben consolidato al potere. Si caratterizzò di un astratta rievocazione classica, minimizzando il richiamo al mondo della macchina, rischiando di cadere nel formalismo e nella monumentalità. Il “Gruppo 7”, di inclinazioni moderne, sottolineò più volte la sua radicatezza nella tradizione, ed era loro intenzione fondare un’architettura “razionale”, strettamente legata alla funzione. La figura più importante fu Terragni, con la sua ricerca di sintesi tra classicità e modernità, sulla scia di Le Corbusier. Nella Casa del Fascio di Como incarnava perfettamente le ambizioni fasciste, con giustapposizioni severe di pieni e vuoti, con elementi ricorrenti e aperture che simbolizzavano la trasparenza del fascismo. Presentò un monumentale progetto per il Palazzo Littorio a Roma (un enorme palazzo curvo di porfido nero, con un teatrale palco per il duce) e un’altrettanto audace proposta per un Danteum, un palazzo processionale (attraverso inferno, purgatorio e paradiso) in onore a Dante e alla sua opera. Nell’opera di Terragni avevano un ruolo indispensabile ed inscindibile poetica e politica, fuse nella sintesi di moderno e mondo classico da lui operata, e fu un caso più unico che raro di grande talento moderno all’opera per un regime totalitario.





CAPITOLO 21
Internazionale, nazionale, regionale: la diversità di una nuova tradizione
La fase riflessiva che interessò il movimento moderno negli anni ’30 fu caratterizzata da un tentativo, spesso contraddittorio, di comprendere, spiegare e rivendicare il Movimento stesso. Gli autori spaziarono tra funzionalismo, formalità, classicismo, contenuti sociali e ideologici. Ci furono opinioni diverse anche sulla genesi, tra chi proponeva teorie eurocentriche e chi sottolineava le esperienze americane.
Gideon, ad esempio, proponeva uno schema evolutivo lineare, da cui erano escluse manifestazioni come l’espressionismo, i regionalismi e il romanticismo del tardo Wright. Giedion vedeva il tutto in modo transnazionale e panculturale, ignorando intenzionalmente le manifestazioni nazionaliste, regionaliste e locali.
In realtà l’architettura moderna fu sì un’espressione universale di quel periodo, ma era ricca di sfaccettature, non poteva essere racchiusa sotto nessuna ideologia accomunante ed andava compresa nella miriade di influenze locali e regionali che presentava, a cominciare dalle diversissime ragioni che ne avevano permesso lo sviluppo nelle diverse nazioni.
In Svizzera si sviluppò un’architettura moderna di grande valore, vicina al funzionalismo ed alla Nuova Oggettività tedesca. Rigore tecnico, chiarezza funzionale e sobrietà formale soppiantarono i tipici regionalismi alpini e ogni tentativo “poetico”. Il Mundaneum di Le Corbusier per Ginevra, purtroppo, non fu realizzato. Sarebbe stato una rivisitazione moderna dell’Acropoli, simbolo della cultura universale.
In Spagna Torroja ideò un’architettura tipicamente latina, ricca di riferimenti a Gaudì, che per i suoi caratteri di ingegneria a basso contenuto tecnologico fu adottata in tutta l’America Latina. Qui, con l’avvento di Franco, predominava un’architettura nazionalista, e il Movimento Moderno (tra cui Sert) si limitò a trattare questioni locali, ma senza cadere nel regionalismo. I progetti per Barcellona, che era stata soggetta ad una forte e rapida urbanizzazione, si avvicinano molto ad uno stile tipicamente “mediterraneo”, attento alle esigenze climatiche e naturali e all’utilizzo dei materiali locali.
In Francia le commissioni monumentali e civiche rimasero monopolio beaux-arts, e l’architettura moderna, a parte il caso dello stile molto personale di Le Corbusier, seguì strade differenziate. Si variava tra funzionalismo e formalismo, ideologia e razionalismo, regionalismo quasi arts and crafts e imitazione coloniale.
In Grecia la mediterraneità e l’ellenismo di Le Corbusier vennero recuperati, a scapito del revival che affliggeva la penisola da decenni.
In tutta l’Europa meridionale ci fu il tentativo di distillare un autentico stile “mediterraneo”, e un esempio ben riuscito è la Casa Malaparte a Capri, arroccata su uno sperone roccioso, un rosso edificio terrazzato dalle forme navali, con un parapetto curvo bianco a forma di “vela”.
Non sempre, tuttavia, l’architettura moderna venne ben accolta: oltre ai regimi totalitari c’era chi la vedeva come un’intrusione occidentale, soprattutto nelle colonie, capace di distruggere le tradizioni e creare un mondo piatto e monotono. Ci fu chi invece, come il turco Eldem, riuscì a sintetizzare al meglio architettura tradizionale locale e International Style. Lo stesso risultato lo ottenne Mendelsohn in Palestina, sfiorando addirittura un’unificazione culturale tra ebrei e arabi, oltre che tra occidente e tradizione. Nel suo Ospedale Hadassah a Gerusalemme, una lunga e bassa struttura rivestita di pietra e traforata di finestre, sintetizzò sobrietà e riservatezza esterna e luminosità e freschezza interna, il tutto sotto il motivo unificante del cerchio, inteso forse a soddisfare le tre civiltà che vi dovevano convivere, cioè ebrei, arabi e cristiani.
In Giappone il Movimento Moderno fu accompagnato da un processo di forte modernizzazione tecnologica ed istituzionale, con forti legami con l’occidente. L’eclettismo di ispirazione occidentale si affiancava ad edifici fortemente tradizionali, immutati da secoli, e persino l’uso dei mattoni al posto del legno era visto con sospetto. La ricerca di uno stile moderno tipicamente giapponese oscillava quindi tra chi voleva accogliere gli schemi occidentali riadattandoli e chi, invece, voleva liberarsene per esaltare quelli tradizionali. Negli anni ’30 cominciò a nascere un movimento moderno, ma anche il Giappone piombò nel nazionalismo imperialista, e fatalmente ritornò alle forme classiche occidentali.
In Brasile si ricercò un “moderno tropicale”, attento al clima e ai materiali, e, nel 1936, si avvalsero anche della consulenza di Le Corbusier per raggiungere il loro scopo, dando vita ad un’architettura ariosa, sollevata su pilotis, vagamente biomorfa.
In Messico l’architettura moderna, come anche in Brasile, divenne uno dei veicoli dell’industrializzazione, della centralizzazione e del progressismo.
Nonostante tutte le ostilità, l’architettura moderna era diffusa, ormai, in tutto il mondo.






CAPITOLO 22
Architettura moderna negli Stati Uniti: immigrazione e consolidamento
La seconda guerra mondiale ebbe forte impatto sull’architettura, prima provocando emigrazioni di artisti, poi screditando la tecnologia di fronte ad essi (causa di male) e, più materialmente, demolendo intere città e gettando Europa, Giappone e Unione Sovietica nella crisi. Il bisogno di ricostruire era impellente, e non c’era più né la possibilità né la voglia di credere in grandi utopie urbanistiche. Nei secondi anni ’40 l’architettura moderna era ormai “tradizione”, e non si poteva ignorarla. Il bivio era tra innovazione dell’architettura moderna o reazione ad essa, ma bisognava evitare una ripetitività accademica degli anni prima del conflitto; sfortunatamente questo avvenne spesso, svalutando enormemente i caratteri del Movimento Moderno. Gli Stati Uniti cominciarono ad estendere la loro ombra sul mondo, in un ripetersi internazionale di stereotipi costruttivi ormai privi di anima, simbolo della commercializzazione globale. Mentre negli anni ’30 si era stati molto attenti al problema della trasmigrazione dello stile e delle radici locali (es. Wright, Aalto, Sert, Niemeyer), ora accadeva in forma minore. Artisti come Gropius e Mies van der Rohe, arrivati già maturi negli Stati Uniti, furono costretti ad adattarsi al nuovo ambiente, oltre che ad influenzarlo fortemente.
I progetti di Gropius, appena arrivato, erano un’intrusione internazionalista, straniera;, anche se presentava già alcuni elementi locali; Breuer, una volta in America, perse di incisività, avvicinandosi anch’egli alla tradizione locale. Questo “ammorbidimento” era dovuto alla guerra appena trascorsa, ma il loro insegnamento fu importantissimo, in un paese dove si insegnavano ancora le Beaux-Arts. Gropius, con la sua autorità, portò nel Nord-Est americano l’architettura moderna, proprio mentre l’Europa annaspava nell’eclettismo, e questo portò in America un gran numero di giovani talenti, la generazione del futuro. Progettarono un’università con “l’estetica della fabbrica”, che andava a sostituire il vecchio complesso neoclassico, e, verso gli anni ’50, si intravedevano già sviluppi al di là della rigidità dell’International Style. Tuttavia l’esperienza americana di Gropius fu un lento declino, dove lui e l’International Style furono ingoiati dal capitalismo crescente. Era necessario, ormai, un rinnovamento di queste forme tanto abusate e svalutate.
Negli anni ’50 partì il processo di rigenerazione, da una parte con gli “espressionisti” come Saarinen, che cercavano un ammorbidimento (spesso manierato) dell’estetica dell’architettura moderna, dall’altra con i ripetuti tentativi di un ritorno al classicismo e alle beaux-arts. C’era anche chi, come Kahn, riusciva invece a sintetizzare classico e moderno.
Gli anni ’50, in America, furono un periodo di grande prosperità ed ottimismo, e il progresso tecnologico e scientifico permise notevoli sviluppi anche nelle tecniche costruttive. Opera emblematica è il General Motors Technical Center di Eliel Saarinen (poi proseguito dal figlio Eero) nel 1948. Acciaio e vetro erano i protagonisti di un complesso di edifici che divenne simbolo dell’industria americana.
Mies van der Rohe, invece, si adattò meglio di Gropius, anche se i suoi primi progetti ebbero lo stesso impatto straniante di quelli di Gropius, ovvero eleganti fabbriche di acciaio e vetro in contesti completamente diversi. Le sue linee, in schemi asimmetrici ma al tempo stesso classici, “correvano all’infinito”, ed è interessante l’espediente usato nell’Institute of Technology, dove lascia a vista, negli spigoli, la struttura di acciaio interna, rivestita sulle pareti, per legge, di uno strato di materiale ignifugo e di un altro strato di acciaio (puramente estetico). La sua filosofia era “di meno è di più”, ma, come per Mondrian, i suoi seguaci seppero ridurre il tutto a spoglie banalità o semplici scacchiere colorate. Ma anche il messaggio di Mies van der Rohe venne frainteso, perché in America l’architettura moderna era staccata dal suo ambiente naturale “socialista”, e, depurata di ogni ideologia, era solamente un “modo di costruire” e di esaltare la bella vita ed il mondo capitalista, come nei progetti di Johnson ed Eames.
Il gruppo Case Study, in California, applicò la standardizzazione alla casa unifamiliare, con l’intento di tralasciare lo stile, che doveva molto comunque alla tradizione.
L’Equitable Building di Belluschi adattò il “leitmotiv” americano della struttura in acciaio con riempimenti in vetro all’edificio per uffici. Era una lastra luminosa di vetro verde, marmo e alluminio, una celebrazione dell’alta tecnologia americana che traeva origine da una ormai lunga tradizione architettonica nel campo del grattacielo.
Mies van der Rohe era considerato un po’ il “maestro” dell’arte del palazzo alto in America (es. torri gemelle di Chicago), capace di esaltarne tecnologia e verticalità, struttura (le travi a I di Mies erano considerati ormai un tipo strutturale al pari delle colonne per l’antica Grecia) e oggettività priva di formalismi inutili. Il sogno di cristallo dell’Europa anni ’20 era ormai divenuto realtà nell’America anni ’50, anche se privo di molti dei valori originali.
Emblematico nel campo degli edifici “prestigiosi” è il Seagram Building di Mies e Johnson (’54-‘58), un imponente grattacielo celebrativo, sobrio, elegante nei materiali e simmetrico, su un plinto in travertino comprensivo di piccolo portico. La perfezione formale sfiorata da Mies cadde però, come al solido, nell’alienazione della “scatola di vetro” provocata dalle sue volgari imitazioni negli anni ’60 e ’70. Ma anche Mies aveva le sue colpe, reo di aver creato un’architettura adatta solo all’ordine e al denaro, capace di cadere nella ripetitività e nell’alienazione se eseguita senza gli adeguati mezzi economici e tecnici.
Il Quartier Generale delle Nazioni Unite per New York di Harrison, esempio di grattacielo in contesto non commerciale, era un adattamento del progetto incompiuto di Le Corbusier del ’47, e dimostrava agli americani la “vera funzione” del grattacielo, ovvero liberare la città per garantire spazio, luce e verde, non soffocarla.
Gli studi di Le Corbusier sulla proporzione e sull’armonia portarono al “modulor”, un teorema che univa proporzioni umane e sezione aurea, alla ricerca della riconciliazione tra meccanizzazione ed ordine naturale.
Le opere tarde di Wright rivelano la sua infinita capacità di invenzione. Ormai ottantenne, alternava produzioni di un orientalismo scarso e quasi kitsch a ben più alte realizzazioni. L’America delle periferie aveva adottato la sua Usonian House come cliché, svuotandola di valori. Costruì anche un grattacielo, la Price Tower, dimostrando la sua avversione per l’idea di scatola/telaio/griglia modulare, in favore di un nucleo con solai a sbalzo, ovvero un sovrapporsi di piani orizzontali. L’opera che lo impegnò più a lungo fu il Guggenheim Museum, a New York. L’edificio si snodava intorno ad una rampa a spirale in espansione, racchiusa da bande sempre più ampie, e i volumi ausiliari che si articolano da questo volume conico ne riprendono l’orizzontalità e le linee curve, su superfici lisce. L’edificio è in nettissimo contrasto con la griglia della città, una forma naturale e riposante, semplice e leggera. Wright sperava di realizzare “l’opera d’arte totale”, in armonia con la pittura e la scultura “non oggettiva” che doveva ospitare, anche se i suoi pavimenti inclinati, le superfici curve e l’illuminazione non erano adattissime ad un’esposizione di quadri (quasi che il contenuto fosse solo un ornamento della sua opera architettonica). Era comunque un caso emblematico di architettura “organica”, in cui spazio, struttura e forma si fondono armonicamente, dove lo spazio, sempre al centro della sua visione, è l’elemento principale. Wright influenzò diverse generazioni di artisti, anche se il suo messaggio non era facile da comprendere profondamente, e ancora oggi non tutte le implicazioni delle sue opere sono state esplorate.
In questi anni tra la guerra e gli anni ’60 in America si venne a creare l’ambiente ideale per lo sviluppo dell’architettura moderna, ma spesso le energie non furono ben incanalate, e venne data troppo poca attenzione alla città capitalista e alle sue contraddizioni. L’architettura moderna ebbe in America una sorta di “vittoria popolare”, ma perse l’anima che aveva in Europa.






CAPITOLO 23 
Forma e significato nelle tarde opere di Le Corbusier
Nel periodo tra il ‘45 e la sua morte (1965) Le Corbusier diede vita a opere e capolavori di difficile catalogazione, tra rivisitazioni di vecchi temi, nuovi spunti e primitivismo. Non perse vigore come Gropius, né cadde nel manierismo come Wright, e nemmeno finì nel perfezionismo tecnologico di Mies, ma sviluppò un mondo poetico sempre più mistico e privato.
Introdusse nuovi accorgimenti, come il bèton brut (cemento a vista) e il modulor, combinandoli con rielaborazioni dei suoi punti fondamentali.
La sua fiducia nella macchina, con la guerra, era diminuita, ed era caduto in uno stato di resa, di parziale isolamento. Nella pittura passò dal purismo a un biomorfismo inquietante e per nulla oggettivo,. Il suo obiettivo di diventare l’architetto/urbanista a capo della ricostruzione francese fallì, e si accontentò di isolate dimostrazioni come l’Unitè d’Habitation a Marsiglia, basato interamente sul modulor. Le sue utopie prebelliche ormai non interessavano più a nessuno, e il “poeta della forma” ripiegò sempre più in un personale mondo metaforico.
La Cappella di Notre-Dame-du-Haut (’50-54) è l’espressione diretta della religiosità di Le Corbusier, intrisa di panteismo, animismo e di amore per la natura. Appare come un edificio ricco di curve, superfici concave e convesse, aperture irregolari, completato da tre torri “incappucciate” orientate verso tre direzioni differenti. Le torri, insieme alle superfici ondulate, rimandano al paesaggio collinare circostante. All’interno, scavato come in una caverna, il pavimento in pendenza focalizza l’attenzione sull’altare, e l’impressione di solidità e di “massa” ravvisabile dall’esterno è smentita, all’interno, da sottili forature lungo i solai e le pareti. Sulla parete esterna un altare a cielo aperto mette a contatto con l’interno, grazie ad una nicchia vetrata con la Madonna, visibile anche dall’interno come in una finestra. Il sito, luogo di pellegrinaggio anche prima della guerra, è esaltato dall’edificio, che ne richiama il carattere processionale anche all’esterno, come una chiesa a cielo aperto, una radura tra gli alberi che conduce all’altare, tutto completato da un “mausoleo” rappresentato dalle macerie della vecchia chiesa, distrutta dai bombardamenti. Il cambio improvviso di direzione che il vecchio maestro Le Corbusier pareva aver appena intrapreso scioccò la critica.
Subito dopo progettò un altro edificio religioso: il Convento Dominicano di La Tourette, vicino Lione. Le Corbusier aveva sempre ammirato l’architettura tradizionale monastica e la sua organizzazione, Reinterpretò il tipo antico esemplarmente, sostituendo la pietra col cemento a vista, ma conservando l’organizzazione a recinto chiuso. Ogni alloggio era completo di balcone con vista panoramica, e la disposizione rispecchiava quella delle strutture ad uso collettivo. Nel tutto dominava un’austera bellezza morale, povera ma elegante, rievocativa del percorso spirituale, della rinuncia e del contatto con Dio. Si basava ancora sui cinque punti, ma con più varietà: oltre ai pilotis cilindrici pilastri a sezione variabile, non sottili superfici intonacate ma robusti muri, vetrate frangisole al posto di finestre nastro, in un orientamento generale che andava al di là del limitato International Style.
Le Maison Jaoul, due piccole case progettate tra il ’51 e il ’54, divennero anch’esse oggetto di imitazione. Semplici casette in mattoni con struttura in cemento a vista, con volte curve e tetti erbosi, che sostituivano la presenza della “macchina” con la Natura e la ruralità.
In India costruì la Casa Sarabhai e la Villa Shodhan, di cemento grezzo e mattoni artigianali cotti al sole. La prima catturava i venti caldi con la sua struttura, ed aveva un tetto erboso completo di canali per la raccolta dell’acqua, che defluiva in una vasca. La seconda era una composizione di parasole, pannelli, aggetti e aperture, per apparire come un cubo smaterializzato e ricco di contrasti tra piani e volumi, capaci di sfruttare le correnti e proteggere da sole e pioggia.
Nel 1951 ebbe la grande occasione di progettare un’intera città, Chandigarh, che sarebbe diventata la capitale del Punjab, e lavorò su questo progetto fino alla sua morte (’65). Una griglia di circolazione suddivideva la città in zone di abitazioni basse organizzate come in una città-giardino, e molte abitazioni furono studiate per utilizzare materiali del luogo (economici) e sfruttare le pecularietà climatiche indiane. Nel cuore del corpo urbano c’era il centro commerciale, collocato sull’arteria principale che conduceva alla zona governativa, mentre le strutture culturali e per il tempo libero sorgevano su un asse trasversale. Era una versione della Ville Radieuse senza grattacieli, che riprendeva i boulevards di Parigi e la forma della vecchia Pechino, senza trascurare l’arte tradizionale indiana e quella sua personale (la scultura della Mano Aperta vicino al palazzo del Governatore, la “ciminiera” portatrice di luce). Chandigarh divenne il simbolo della Nuova India, libera dalla tradizione e dall’oppressione coloniale,
Anche le opere tarde offrirono spunti ad intere generazioni di artisti, e gettarono le basi a correnti diverse, come i “New Brutalist”, e spesso, come sempre, divennero oggetto di vuota imitazione.
Il Carpenter Center for the Visual Arts per la Harvard University sorgeva tra i precedenti edifici neo-georgiani, ed era una struttura a pianta libera costruita intorno ad una rampa ad S, ricco di compenetrazioni di volumi curvilinei ed ortogonali, trasparenti e massicci. Anche l’orientamento, non in asse col resto del complesso, ne accentuava il dinamismo. Nonostante la sua importanza, questo fu l’unico edificio costruito in America da Le Corbusier, un’America industrialmente avanzata ma povera di spirito, ed infatti non fu l’America a dargli la possibilità di costruire una città, ma l’India, culturalmente ricca e materialmente povera. Morì nel 1965.





CAPITOLO 24
L’Unitè d’Habitation a Marsiglia come prototipo di residenza collettiva
L’Unitè d’Habitation di Marsiglia (1947-53) si pone come prototipo alla base di una tradizione architettonica nel campo dell’abitazione collettiva.
La lastra è intagliata da profondi brise-soleil, e la struttura, in cemento a vista, si compone di 12 piani più terrazza e piano terra. Gli appartamenti sono standardizzati negli elementi, ma la loro diversa combinazione permetta la coesistenza di monolocali per single e abitazioni per famiglie con 4 figli. I colossali pilotis definiscono uno spazio comune sotto l’edificio, e l’ascensore e le torri delle scale ne accentuano la verticalità. Il tetto a terrazza è reso riconoscibile da una serie di elementi scultorei: la palestra, l’asilo, la bizzarra forma a ciminiera del volume tecnico per l’aerazione, la pista, la piscina,che crea un’immagine “alla Gaudì”. Era un laboratorio di sperimentazione, e allo stesso tempo di dimostrazione, delle teorie urbanistiche di Le Corbusier. Cercò di conciliare la necessità di urbanizzazione ad alta densità con le “gioie essenziali” dell’uomo, cioè luce, spazio e verde. I soggiorni erano tutti a doppia altezza (spazio e luce), ed erano completi di ampi balconi con vista (verde). I singoli appartamenti erano incastonati in modo che le stanze a doppia altezza stessero al di sopra o al di sotto di quelle ad altezza singole di altre unità abitative, riducendo al minimo gli sprechi di spazio e dotando il tutto di dinamismo. Gli importanti spazi pubblici erano i corridoi comuni (sovradimensionati) e il tetto a terrazza, oltre allo spazio di passaggio sotto il palazzo, sorretto dai pilotis. L’Unitè era un perfetto microcosmo collettivo, quasi la metafora di un transatlantico fluttuante nella vegetazione marsigliese.
Da questo prototipo partirono diverse correnti di pensiero, come quella del Team X, un gruppo di giovani architetti, il New Brutalism, i progetti degli Smithson e i Cluster Block inglesi.
L’olandese Van Eyck tentò di riconciliare passato e moderno, cercando di reintrodurre nell’architettura moderna il “rifugio”, il primitivo.
L’Università di Urbino di De Carlo, arroccata sulla collina come le città medievali italiane, sperimentava un ritorno al medievale intriso dell’organicità di Aalto.
Purtroppo la maggior parte delle reinterpretazioni dell’Unitè erano desolanti edifici alti, che avevano abbandonato la combinazione vincente di densità e strutture collettive in favore di un mero funzionalismo basato soltanto alla massima densità possibile. Spariva il verde, sparivano le aree collettive, spariva l’attenzione allo spazio e alla luce. L’eccessiva semplificazione del modello è stata disastrosa, ma per questo non è sicuramente da biasimare Le Corbusier. Le lastre ad alta densità divennero presto bersaglio di aspre critiche e di rivolta, e vennero identificate a simbolo negativo, e si ritornò a sperimentare soluzioni di alta densità in edifici bassi. L’Unitè simboleggia perfettamente la traduzione dei sogni e delle speranze di un’epoca nei dubbi e nel cinismo di un’altra.






CAPITOLO 25
Alvar Aalto e gli sviluppi scandinavi
La monotonia e la piattezza delle “imitazioni” di architettura moderna che avevano riempito il pianeta negli anni ’50 fecero presto spazio ad un ritorno in voga del vernacolare rurale. Veniva evocato un mondo preindustriale in cui uomo e natura erano in armonia, con un occhio sempre rivolto alle tradizioni e ai climi e materiali locali. Giedion battezzò questo stato d’animo col nome di Nuovo Regionalismo, spesso in contesti nazionalistici, ma del tutto diverso dallo stile patriottico-evocativo del nazismo. La Maison Jaoul di Le Corbusier fu un esempio molto ben riuscito di questa tendenza.
In Finlandia un processo simile era già partito negli anni ’30, con Alvar Aalto, dove l’International Style era stato presto assimilato nell’ottica di un’architettura romantico-nazionale, ricca del gusto nordico a riguardo di luogo, paesaggio, luce e materiali naturali, e ciò era stato favorito dall’industria non ancora pienamente sviluppata e dalla grande abbondanza di legno.
La figura di Aalto aveva grandissima influenza sull’ambiente architettonico scandinavo, anche se lui rimase per lo più inimitabile. Aalto nel ’47 insegnava al MIT del Massachusetts, e lì ebbe la sua prima commissione significativa del dopoguerra: il progetto della Baker House, un dormitorio per gli studenti del MIT. La parte privata si sviluppava in un corpo sinuoso in mattone rosso (tradizionale di Boston), e la forma permetteva una grande varietà nelle stanze e molteplici viste sul fiume, mentre la parte collettiva era riunita in corpi rettangolari. Il contrasto di questo mattone di antiche sembianze con la levigatezza meccanica dell’architettura Americana sembrava un rifiuto all’industrializzazione in favore di valori più umani, ma in America ebbe scarso seguito.
Per Aalto era fondamentale “l’insenatura”, o cortile, spesso formato da tre lati di palazzo.
Il suo Centro Civico di Saynatsalo è dominato dalle superfici erose, dai mattoni rossi, dagli spioventi irregolari, dalle travi lignee e dalle superfici erbose, il tutto immerso nella natura. La struttura della zona amministrativa era ispirata alla polis greca, da cui cercava di prenderne la democrazia per fonderla con i contorni glaciali e boscosi nordici.
Fino alla sua morte (’76) Aalto ricevette moltissime commissioni, e spaziò fra tutte le tipologie riuscendo sempre a dare una risposta specifica alle aspirazioni del cliente, in sintonia col luogo e con la sua ideologia sociale e naturalistica. Le sue forme divennero sempre più irrazionali ed istintive, vagamente biomorfe; un tema ricorrente, ad esempio, è quello della forma a ventaglio connessa ad un rettangolo.
Nell’Università di Tecnologia di Helsinki la forma a ventaglio appariva in un teatro a gradoni all’aperto, illuminato dal sole, che stava a simboleggiare la cultura “illuminata” e liberale.
Per lui la Natura non era solo topografia e materiali locali, ma soprattutto modello e fonte di leggi per l’architettura, come le stratificazioni geologiche.
Uno dei suoi seguaci più interessanti è stato Utzon, autore della celeberrima Opera House di Sydney (’57-66), che fu comunque modificata dopo le sue dimissioni. Queste bianche curve volanti rimandano a barche a vela e al fluire delle onde sonore, per un’immagine generale dinamica e ricca di tensioni, che richiama alla mente l’armonia delle chiese gotiche. L’edificio diventò spesso punto di riferimento per gli architetti di tutto il mondo e simbolo nazionale per tutti gli australiani.







CAPITOLO 26
Discontinuità e continuità nell’Europa degli anni cinquanta
Nel dopoguerra, in Europa, il primo problema era sopravvivere e il secondo garantire alla gente un tetto, e ciò spiega la mancanza di “poesia” e di idee nell’architettura. Le eccezioni di Le Corbusier, Aalto, Utzon si distinsero su uno sfondo di architettura neutra, funzionale, ma mancante di umanità e sensibilità urbana. A ciò si aggiunse la mancanza di seri piani regolatori e progettuali o la presenza di questi nell’aspetto delle visioni prebelliche, troppo isolate da ogni contesto climatico e locale.
In Europa proliferarono molteplici interpretazioni della precedente tradizione moderna, e gli sviluppi si orientarono ora verso l’organicismo, ora verso il razionalismo, ora verso il cosmopolitismo, ora verso il regionalismo.
In Finlandia, nonostante la guerra, lo sviluppo architettonico proseguì alla stessa velocità, grazie anche ad Aalto e ad una mentalità dirigente progressista e modernista.
Nella Germania Occidentale l’architettura moderna si accollò il pesante onere della “ricostruzione” per milioni di persone, perdendo ogni carattere nazionalista o regionalista che potesse in qualche modo ricollegare al nazismo (ma cadendo in una certa “impersonalità” e freddezza). Inoltre, in Germania, la guerra aveva disperso la maggior parte dei talenti che avrebbero potuto garantire una certa continuità, e si cadde quindi in prototipi americani caratterizzati da uniformità espressiva e povertà di contenuti. Eiermann riuscì, invece, a proporre un’architettura fatta di semplici elementi, ma ricca di tensioni e appropriata a luogo e funzione. Scharoun propose, al contrario di Eiermann, forme meno sobrie, spessori un espressionismo estremo, basate su geometrie spigolose e curve. Nella sua Filarmonica di Berlino (’56) l’auditorium era concepito come un vascello dalle molte facce, con forme spigolose, piani inclinati e stratificati perle sedute fluttuanti a diversi livelli, per un insieme che era l’evocazione della musica stessa in termini spaziali. Le differenze tra Eiermann e Scharoun sono emblematiche dell’ambiente degli anni ’50, diviso tra tentativi di recuperare un’estetica minimalista e la via dell’espressione personale.
Anche in Francia si pose il problema della ricostruzione, e, anche qui, le idee architettoniche non erano chiare. Regionalismi e vernacolarismi furono duramente screditati a causa della loro presunta vicinanza al conservatorismo di Pètain. Intere città furono affidate a singoli architetti moderni (tra i tanti Le Corbusier, poi annullato, e Perret), ma in generale l’architettura francese realizzò aree di scarso valore progettuale al confronto di Scandinavia e buona parte dell’Europa. Perret si basò su un classicismo razionalista e semplice, strutturato sull’idea di telaio e pannello, ma molti critici videro nel suo risultato un’eccessiva monotonia, tra l’altro anche antiquata nelle idee. Le Corbusier rimase, paradossalmente, per lo più estraneo al suo paese, dove era quasi ignorato al confronto dell’altissima attenzione che suscitava all’estero. Non a caso le manifestazioni urbanistiche più vicine al suo gusto e ai suoi insegnamenti si svilupparono al di là del mediterraneo, dove il modello dell’Unitè fu sviluppato e adeguato positivamente alle caratteristiche locali. Figura che usciva un po’ dalle tendenze francesi del dopoguerra era Pouillon, che era da una parte l’antitesi architettonica di Le Corbusier (facciata urbana continua, isolati circondati da strade  tradizionalismo), dall’altra strettamente legato alle caratteristiche climatiche e culturali del sito. Un altro tema importante nel contesto francese del dopoguerra era la ricerca di un’appropriata relazione tra arte e tecnica, col tentativo di dare dignità estetica alle opere ingegneristiche, come con Prouvè, che fuse architettura e ingegneria, arte e artigianato, razionalismo e art nuveau.
Anche in Olanda si presentava il problema della ricostruzione, ma esisteva una divergenza tra i tradizionalisti guidati da Molière (tradizione artigianale del mattone) e i “moderni” guidati da Oud e Bakema. Molière, fortemente cattolico, considerava il funzionalismo degradante e materialista. Il moderno trionfò a Rotterdam, dove Bakema svilupparono le idee prebelliche in un sistema su griglie in sintonia con il paesaggio altamente artificiale olandese e con riferimenti al “vecchio” De Stijl, ai piani sovrapposti di Wright e all’organizzazione spaziale di Mondrian.
L’Italia del dopoguerra, come la Germania, sentiva il dovere di distaccarsi nettamente dall’architettura del fascismo, ma, a differenza della stessa Germania, non aveva subito lo stesso “esodo” di talenti. La forte presenza della tradizione e la più viva cultura architettonica moderna davano sicure garanzie di qualità sull’architettura, e solamente il classicismo esplicito fu rigettato tra le varie possibilità costruttive. Il dibattito per una nuova architettura vide sorgere molteplici correnti di pensiero, come i Neorealisti (influenzati dal neorealismo cinematografico) Ridolfi e Quaroni, che cercarono di inserire nei loro edifici l’ideologia populista e la coscienza proletaria. La Stazione Termini di Roma era, invece, uno sviluppo del Razionalismo, che annoverava artisti come Gardella (Padiglione di Arte Contemporanea a Milano), Figini e Pollini (nel Gruppo 7 degli anni ’20 con Terragni). Il Grattacielo Pirelli di Giò Ponti e la Torre Velasca di Peressutti e Rogers sono due grattacieli che dimostrano bene la straordinaria diversità nell’architettura italiana. Il primo era un elegante e tecnologico palazzo che dimostrò come in Europa non necessariamente si dovessero imitare gli esempi americani; il secondo aveva gli ultimi 6 piani (per gli alloggi) protesi verso l’esterno e sostenuti da contrafforti obliqui, con una verticalità accentuata per essere in sintonia col vicino Duomo e rivestimenti in pietra per non discostarsi troppo dai più antichi e più bassi palazzi circostanti, avvicinandosi ad uno stile medievale e storicista, e attirando (ingiustamente) per questo numerose critiche.
In Italia era impossibile distaccarsi nettamente dalla tradizione (come sosteneva il Gruppo 7), e l’architettura moderna ne fu sempre ispirata. Lo stesso ingegner Nervi (autore del Grattacielo Pirelli) sembrava un degno discendente degli architetti dell’antichità. Scarpa, anche lui convinto tradizionalista nella sua modernità, si avvicinava ai piani e allo spazio di Wright e del De Stijl, con riferimenti classici e cenni di architettura organica.
In Grecia l’architetto Pikionis sviluppò un’architettura dalle basi fortemente classiche e dai mezzi espressivi moderni, e, come Scarpa, riusciva perfettamente ad estrarre l’anima storica di ogni luogo.
In Portogallo, dove folklore e mondo rurale erano ancora forti, Tavora ritornò in modo moderno alle radici locali dell’architettura, cercando di eliminare l’eclettismo e il provincialismo dominante. Siza, come lui, vedeva nel moderno la via d’uscita dal provincialismo, e si poneva come modello l’architettura contadina.
In Spagna, isolata dall’Europa e persa tra il tradizionalismo di Franco e l’arretratezza tecnologica, l’unico tenue contatto con l’estero era con il Razionalismo italiano. Barcellona fu la prima città a voler riconquistare i contatti con l’architettura moderna internazionale, favorita dalla sua identità catalana e indipendente, vogliosa di differenziarsi dal centro spagnolo e di accomunarsi con l’Europa. L’architetto simbolo di questo periodo fu Coderch, che sviluppò un linguaggio moderno dai mezzi limitati ma dalla forte attinenza al loco e alla tradizione mediterranea.
Nel frattempo si diede una risposta razionalista e funzionalista alle forti migrazioni dal sud verso le grandi città del nord. De la Sota propose un’architettura moderna fatta di planarità, materialità e immaterialità, di riferimenti a Mies van der Rohe, e diede una forte spinta alla volontà spagnola di distaccarsi dal tradizionalismo di Franco in direzione del modello industriale occidentale di modernizzazione. Il suo Palazzo del Governo Civile a Terragona (ispirata forse alla Casa del Fascio di Terragni), che rappresentava il potere centrale di Madrid in Catalogna, era un edificio incerto, asimmetrico, in alcuni casi leggero e trasparente, ma di forte razionalità classica, in netto contrasto con la tradizione franchista. Dimostrazione del successo di questa acuta “de-costruzione” dell’iconografia del potere è il fatto che il palazzo, alla fine del regime franchista, acquisto funzione democratica, e fu preso a esempio anche dalla nuova generazione di architetti che ne detestava comunque la funzione originale. La Palestra del Collegio Maravillas a Madrid è, invece, priva di ogni riferimento retorico, addirittura umile e funzionale, e il suo look industriale era completato da un campo da gioco sul tetto. L’acciaio aveva qui un ruolo predominante, e l’attenzione rivolta a luce ed aria rendono l’edificio perfettamente funzionale e armonico.
De la Sota riprese l’insegnamento di Mies van der Rohe e lo rielaborò non per imitarne lo stile, ma per creare una continuità che permetterà a generazioni di architetti spagnoli di avere una solida base per la loro ricerca tra modernità e continuità, garantendo il rinnovamento di una tradizione altrimenti destinata a morire.






CAPITOLO 27
Il processo di assimilazione: America Latina, Australia, Giappone
Il Movimento Moderno si sviluppò in alcuni Paesi dell’Europa Occidentale, Stati Uniti e Unione Sovietica (anche perché, essendo il Movimento un riflesso dell’industrializzazione, queste erano le zone industrializzate), ma, verso la fine degli anni ’50, trasformazioni, valorizzazioni e deviazioni dell’architettura moderna si erano fatte strada in tutto il mondo, favorite dallo sviluppo post-bellico, dalla rapida industrializzazione di alcune zone e dal propagarsi di idee progressiste, capitaliste o socialiste.
I problemi principali furono la trasformazione dei prototipi in immagini stereotipate, l’attinenza ai nuovi contesti, la persistenza o meno delle tradizioni locali. Paesi come Giappone, Brasile, Sudafrica e Messico accolsero l’architettura moderna già negli anni ’20-30, sviluppando proprie evoluzioni tra le due guerre, ma la linea generale era stata l’attinenza allo stile internazionale. Nei due decenni dopo la guerra, invece, il Movimento Moderno assunse molteplici forme nei suoi centri generatori, e venne data grande attenzione al variabile, al locale, all’indigeno, al clima. L’India entrò a contatto con il moderno solo tramite le opere tarde di Le Corbusier, il Pakistan tramite Kahn, l’Australia tramite Wright; l’influenza di questi grandi artisti è stata enorme in tutto il mondo, e tutto ciò che oggi vediamo deriva dall’adozione o meno di alcuni “modelli” da loro sviluppati (es. i grattacieli di Mies van der Rohe, i cottage di Wright, i palazzi di Le Corbusier).
In Messico il Movimento Moderno aveva già giocato un ruolo importante nella riforma post-rivoluzionaria degli anni ’20-30; presto assimilato, liberò i messicani dai simboli della colonizzazione straniera e assunse il valore del progresso e dell’unità tra i popoli dell’America Latina. Il Messico, neutrale, proseguì i suoi sviluppi anche durante la seconda guerra, e rispose ai problemi derivati da urbanizzazione ed industrializzazione con edifici alti a lastra in sequenze parallele o libere. Negli anni ’50 si sperimentò sul tema della riconciliazione tra generale e locale, cosmopolitismo e tradizione. La figura chiave fu Barragàn; progettò per committenze facoltose della periferia di Città del Messico, sintetizzando tradizione e moderno, materiali locali e tecniche nuove, natura e tecnologia, con riferimenti al Surrealismo europeo e all’astrattismo, per un risultato di mistici rifugi contemplativi. Per Barragàn “qualsiasi opera di architettura che non esprima serenità è un errore”. Ha sempre sostenuto la propria “architettura emozionale” nei confronti del deplorevole funzionalismo, e i suoi lavori avevano sempre un che di spirituale, di privato. Progettò, nel ’57, le 5 torri monumentali a base triangolare per il quartiere “Satellite City”, e nel ’61 l’Ippodromo di Las Arboledas.
In Brasile il Movimento Moderno gettò le sue basi negli anni ’30 con architetti come Costa e Niemeyer. Il movimento assunse un carattere particolarmente progressista, incarnando l’anima dello stato Brasiliano, in rottura col precedente eclettismo. Nei primi anni il problema principale, come sottolineò lo stesso Niemeyer, fu che, in tutti questi paesi in via di sviluppo, l’architettura moderna per essere costruita, anziché mezzo universale di progresso, divenne un giocattolo chic per una ristretta minoranza. Negli anni ’50 le basi sociali vennero ampliate, e si sviluppò un moderno con una complessità formale derivata dal barocco coloniale e dal biomorfismo astratto moderno. Mentre in Messico gli ideali progressisti si fondevano con la celebrazione nazionale permessa dall’estesa eredità precolombiana, in Brasile non c’era un equivalente delle rovine messicane. Costa, nel suo piano per Brasilia, e Niemeyer, nel suo progetto per il Campidoglio della stessa, elaborarono un linguaggio monumentale utilizzando principalmente mezzi moderni. La città, intrisa della retorica tecnocratica del decennio, si sviluppava come proiettata dal centro del paese, vasto e inesplorato. In pianta ricordava le ali di un aereo, e il punto centrale, la Piazza dei Tre Poteri (con Palazzo Presidenziale, Corte Suprema e Congresso), era sull’asse principale che si allungava all’infinito verso il centro del continente. La Cattedrale, definita da un fascio di travi iperboliche, completava la piazza come una corona di spine. Brasilia era l’immagine dell’èlite tecnocratica che governava il Brasile, un simbolo dell’impegno nazionale nello sviluppo industriale. Niemeyer aveva formulato un’espressione tropicale moderna adatta ai climi caldo-umidi tanto appropriata quanto Barragàn aveva fatto per i climi caldo-secchi.
In Venezuela l’architetto Villaneuva sviluppo un repertorio ricco di elementi a sbalzo e fessure adatto al clima equatoriale umido e appiccicoso, e nel contempo indirizzò il paese, di recente industrializzazione, verso una visione sociale progressista.
In Australia non solo non c’era una vera e propria tradizione, ma la popolazione aborigena non si esprimeva in tipologie edilizie permanenti. Siedler era il portatore della risposta “internazionale”, estranea al luogo, cosmopolita, Muller, invece, riuscì finalmente a sviluppare un “regionalismo moderno” adatto al territorio australiano. Nel ’50 prese piede un’altra corrente ancora, quella dei “paesi dell’interno”, cioè ispirata ai rifugi temporanei, impalpabile e in grado di mettere in risalto al massimo la natura.
Nel frattempo quello che si diffondeva nel resto del mondo non era lo “stile internazionale”, ma la sua valorizzazione, un vero “stile multinazionale” esportato dal capitalismo, favorito dall’industrializzazione troppo rapida di questi paesi e al potere degli affaristi occidentali. Questo modernismo privo di anima sembrava cospirare contro le tradizioni nazionali, e portò, così, ad una tendenza generalizzata al ritorno al vernacolare, al regionalismo, al “paesanesimo”.
In Giappone pose le sue basi tra le due guerre in un ristretto numero di edifici d’èlite, ma, quando arrivarono anche le idee urbanistiche e su larga scala, queste entrarono in conflitto con gli antitetici modelli orientali. Il Giappone era in una grave crisi dopo la guerra, e il grandissimo bisogno di abitazioni venne soddisfatto da piccole unità modulari a basso costo sul modello tradizionale del tatami. Il dibattito sulla possibilità o meno di uno stile giapponese moderno proseguì fino al ’50, quando, sotto la spinta dell’industrializzazione crescente e della progressiva “americanizzazione” della società, si cominciò ad avvicinarsi ai modelli occidentali, districandosi dagli stereotipi imperialisti e nazionalisti precedenti. Si trovarono le analogie tra le strutture moderne e quelle, in legno, tradizionali, tra gli aggetti, le parti modulari, pareti scorrevoli, schermi. Effettivamente le analogie erano moltissime, ma gli edifici a grande scala, ad esempio, non avevano precedenti tradizionali. Spesso non si trovarono soluzioni sintetiche: molte case sono “occidentali” su un lato e “tradizionali” in alcune stanze. Si cercò di superare questa frattura, come fece, ad esempio, Kenzo Tange, allievo di Le Corbusier. Il linguaggio giapponese divenne simbolico della nuova democrazia, ma anche di un certo orgoglio personale, che non doveva sfociare, però, in autoritarismo. Chandigahr divenne un esempio da seguire. L’architettura moderna giapponese era ormai conosciuta in tutto il mondo, caratterizzata da un’intensa espressione strutturale (Stadio Olimpico di Tokyo di Tange) e un uso “prepotente” della moderna tecnologia. La tradizione perse sempre più peso, e persino i piani urbanistici degli anni ’60 divennero grandiosi schemi utopici basati su un fantastico dispiegamento tecnologico. Il gruppo “metabolist”, che esaltava il cambiamento e richiamava il futurismo italiano, propose progetti, mai realizzati, che esaltavano la tecnologia e componevano la città di parti fisse e variabili, assemblabili modularmene.






CAPITOLO 28
Su monumenti e monumentalità: Louis I. Kahn
Tra le due guerre era insolito per gli architetti moderni ricevere commesse che richiedessero un trattamento monumentale, con rare eccezioni, come il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin o la Lega delle Nazioni e il Mundaneum di Le Corbusier. Il tradizionalismo ufficiale si mantenne forte in questo campo, essendo questo un campo in cui era necessario preservare valori e suggerire continuità col passato, e, nei regimi totalitari che sostennero un’architettura monumentale, il solo paese a ricercare una monumentalità moderna fu l’Italia. Ciò fece sì anche che la monumentalità in se fu guardata con sospetto da tutti gli stati liberali, come simbolo dal totalitarismo, ma dal ’43, con Sert e Giedion, si cominciò a dibattere sulla possibilità e sulla tipologia di una monumentalità del dopoguerra. Ormai l’architettura moderna era in grado di rendere la giusta monumentalità negli edifici, soprattutto grazie all’esempio dato da Le Corbusier, ma appariva ancora il vecchio problema del distinguere le diverse funzioni e del creare una gerarchia. Col tempo la monumentalità moderna si riavvicinò sempre di più al tradizionale e al regionale; in Unione Sovietica si venne a creare uno stile particolare, fatto di cenni allo stato e al comunismo, e in Usa, dove era necessario distinguere monumentalità privata e pubblica, si cercò di elaborare un linguaggio nuovo. Mies van der Rohe, in Germania, dimostrò come il cemento non fosse l’unico mezzo per dare monumentalità, progettando la Nuova Galleria Nazionale in acciaio e vetro.
L’americano Kahn, nato neoclassico in un ambiente che aveva appena cominciato a rifiutare le beaux-arts, si ritrovò ad assistere, negli anni ’50, ad un generale tentativo di ritorno ad uno scialbo neo-classicismo, forse come reazione al ristretto e minimalista “International Style” americano. L’architettura americana tendeva sempre più alle megastrutture, alla maestosità, al gigantismo, ma il maestro di tale monumentalità, ovvero Kahn, fu l’unico a sviluppare un linguaggio adeguato. Superò i problemi di forma e non cadde in esagerata grandiosità, fuse metodi tradizionali e mezzi moderni, si intrise di tradizione ma senza forzature e stonature. La sua era un’etica costruttiva struttural-razionalista, ma carica di tradizione. Il suo linguaggio maturò negli anni ’50, con la Yale University Art Gallery. Il soffitto a trama triangolare creava interessanti effetti luminosi, e l’esterno richiamava l’acciaio e vetro di Mies, mentre l’interno ricordava gli spazi di Wright. Nei Laboratori Medici di Ricerca dell’Università del Pennsylvania il suo linguaggio si sviluppò nella distinzione tra parti, tra fisso e variabile, tra funzioni, come in un moto di repulsione dalla “scatola neutra”. Esaltò le torri delle ascensori e i giunti strutturali, conferendo monumentalità e potenza al lavoro di ricerca svolto all’interno, anche se mancava un po’ di funzionalità. Architettura, per lui, era meditata creazione di spazi, indipendente dalle richieste dei committenti, ma legata solo a spazi in armonia idonea alla funzione. Era necessario identificare la forma ideale per il “tipo” di istituzione, derivata dall’analisi dei bisogni, e da qui creare un linguaggio idoneo e coerente. Era una posizione idealista che tendeva a definire “forme-tipo”, basate su geometrie primarie (quadrato, rettangolo, triangolo), che miravano a esprimere la sua visione panteistica della natura. Nel definire la sua monumentalità Kahn non poté mai fare a meno del “muro”, come piani di luce immateriali che definivano, in negativo, ombre scure. I muri non erano importanti solo perché definivano gli equilibri degli edifici, ma anche tra gli edifici, territorio a cui Kahn rivolse sempre grande attenzione. Strade, piazze e spazi di paesaggio avevano un ruolo da protagonisti.
Nel Jonas Salk Institute for Biological Sciences (’59-65), una comunità di scienziati in ricerca intensiva, non cercò di esaltare la componente progressista del progetto, ma tentò di esplorare le implicazioni umane delle scienze, trovando riferimenti ideali nei monasteri. Il complesso era diviso in tre zone: aree di riunione e auditori, residenze e laboratori stessi, tutto in blocchi separati da giardini e acqua, con aspetti contemplativi ed eleganti. Il Salk Institute era il livello zero della sua poetica: per quanto ricordi la sublimità dell’antichità, questa veniva raggiunta attraverso mezzi moderni e astrazioni di spazio, luce e struttura.
Il Kimbell Art Museum era una serie di volte parallele in cemento, su pianta classica, ma lo spazio interno era asimmetrico e fluttuante, concedeva viste diagonali e spezzava l’abituale divisione interna standardizzata. Il tutto utilizzava un limitato numero di materiali: travertino, cemento, acciaio, acqua e vetro. Ogni volta era divisa in due sulla sommità da una fessura che permetteva l’ingresso della luce, riflessa su pannelli di acciaio rivolti verso l’alto che diffondevano sofficemente la luce.
Nel suo edificio per l’Assemblea Nazionale di Dacca (Bangladesh) ha raggiunto la sua piena espressione monumentale. La sua “forma” avrebbe dovuto riflettere il significato dell’istituzione più impostante, il governo, e uno dei simboli usati maggiormente fu il cerchio (centro, combinazione sociale armonica). Per quest’opera Kahn assorbì echi e riferimenti di opere importanti nel campo sia d’occidente che d’oriente, ed elaborò una struttura poggiata su un basamento di mattoni, circondato d’acqua, costruito in cemento grigio con sottili inserti in marmo (che ricordavano le capanne di giunchi legati). Intorno alla massa centrale del Parlamento c’era un assembramento di volumi cilindrici e oblunghi, sede di istituzioni minori ad esso collegate (tra cui una mosche orientata a La Mecca). Come Le Corbusier a Chandigahr, Kahn amplificò il suo precedente sistema architettonico per raggiungere risultati di massiccia grandiosità. Mentre l’esterno sembrava solido, l’interno si dissolveva e le buie fessure esterne si riempivano di luce. L’uso dei materiali e della struttura sembrava far credere che l’edificio fosse lì da secoli. Kahn seppe essere conservatore nello spirito, non copiando le esteriorità del passato, ma la mentalità, come per Wright. Per lui non cambiavano gli obiettivi dell’architettura, ma soltanto i messi.







CAPITOLO 29
Architettura e anti-architettura in Gran Bretagna
Nel dopoguerra ogni paese aveva i suoi programmi riguardo l’architettura moderna, e la Gran Bretagna, finalmente, diede la giusta importanza a quest’architettura (anche grazie alle necessità di ricostruzione), fino ad allora sottovalutata.
Tra i progetti del dopoguerra vi furono le New Towns, con numerosi blocchi di appartamenti in serie a standard minimi, lievemente ispirati alla Garden City. Le soluzioni più diffuse mancavano sempre di ricchezza, e si collocavano inadeguatamente nel contesto urbano.
La speranza era nella nuova generazione, che includeva architetti come Alison e Peter Smithson. Ispirati da Le Corbusier e Mies van der Rohe, elaborarono un linguaggio fatto di impianti e materiali a vista, senza intenzioni formali, definito dalla critica “New Brutalism”. Provavano disgusto per la raffinatezza delle èlite, in favore della cruda e grezza vita urbana moderna, e cercarono di rispecchiare ciò nella loro arte. Il loro realismo sociale individuò delle icone nella “materia della scena urbana”, cioè nei meccanismi, negli annunci pubblicitari e nelle cianfrusaglie della strada.
Ebbero poche opportunità di esprimersi prima dei tardi anni ’50, quando ebbero la commissione dell’Economist per dei nuovi uffici per gentlemen a Londra. Ciò richiedeva una pacatezza estranea al loro stile sfacciato, e realizzarono il progetto in tre torri distinte che creavano, al loro interno, una piccola piazza sinuosa. Il blocco principale, quello per gli uffici, era il più alto, e il più arretrato dal livello stradale, con angoli smussati per ammorbidirne la relazione con gli edifici vicini. I materiali (travertino) diedero al complesso un carattere celebrativo, mentre la divisione interna suggeriva una struttura contemplativa quasi monastica. L’asimmetria di questo “grappolo” era una critica alla città attuale e ai palazzi per uffici, richiamando le piazze italiane e i percorsi cerimoniali della polis greca.
La loro prima occasione nel campo delle residenze per la classe operaia, per cui erano naturalmente orientati, arrivò solo nel ’66, col Robin Hood Gardens, e anche qui stravolsero il tipo dell’edificio alto, dividendolo in due spine sinuose che delimitavano uno spazio verde culminante in una collinetta artificiale. Le strade-ponte fallirono nel loro intento di esprimere una comunità ideale, anche perché il complesso era in sintonia con la dura realtà degli anni ’50, non con il consumismo degli anni ’60. Erano arrivati tardi.
Un altro importante architetto fu Stirling, che sentì il bisogno di dare forza all’architettura moderna inglese riavvicinandola alla tradizione nazionale. Si rifugiò in una poetica grezza e incline all’estetica della macchina, vicina a quella del New Brutalism, ma, in realtà, fonte più importante era per lui il vernacolo industriale delle città del nord, come Liverpool.
Il suo stile emerse nel Leicester University Engineering Building (’59-63), un edificio lievemente industriale e navale, con forti aggetti e vetrate industriali, sovrastato da una torre per le riserve idrauliche.
Nella History Faculty Building della Cambridge University riuscì ad integrare perfettamente, come da richiesta, la biblioteca con gli ambienti circostanti, con uno stile oscillante tra fantascienza, romanticismo ingegneristico ed esaltazione di vetro e acciaio. Nonostante la sua originalità formale, tutto era ponderato, in relazione a un forte razionalismo e funzionalismo. Prediligeva le superfici vetrate perché permettevano di sfruttare la luminosità soffusa del plumbeo cielo inglese, e ne difendeva la non impeccabilità termica col clima normalmente stabile, privo di sbalzi termici. Lo stile di Stirling raggiunse la sua pienezza negli anni ’60 e ’70, con una serie di grossi impianti industriali, immagini della nuova civiltà della macchina, influenzato anche dalle teorie di “Archigram”.
“Archigram” era un gruppo di architetti (Cook, Chalk, Herron, Crompton, Webb, Greene) fondato nel ’61. Facevano uso di simbologie “rubate” alla fantascienza e all’astronautica, come capsule, astronavi e robot. Herron immaginò città dalla forma di ragni che si muovevano sull’acqua verso Manhattan (Walking City), Cook pensò la Plug-in City, strutturata su intelaiature in cui potevano essere inseriti elementi abitativi standardizzati. Archigram aveva un atteggiamento anti-eroico che rifiutava la venerazione della natura; addirittura esaltavano le possibilità edonistiche del consumismo moderno. Cercavano di “trovare un nuovo vernacolo, costruire città simili a raffinerie e case simili a macchine, per quest’atomica epoca elettronica”, liberata dal peso della storia e della cultura.
Archigram non era l’unica manifestazione di tali pensieri: Price sosteneva che la città sarebbe stata migliore senza le ossessioni dei formalisti, e il suo “anti-stile” era una delle tante espressioni di questa crescente “non-architettura”. Il paradosso di questi anti-architetti, però, era che, nel loro tentativo di sovvertire i legami col passato e le costrizioni di espressione formale, definirono essi stessi una tradizione e delle forme, fino a quando, negli anni ’70, le loro forme verranno addirittura “addomesticate” dall’architettura ufficiale.
Lasdun, invece, si poneva contro queste tendenze, e considerava la tecnologia solo un mezzo, piuttosto che un fine. Lasdun innestò nel suo moderno l’attenzione per il contesto, prima di allora assente: ormai era importante un minimo di coerenza ed armonia con il contesto circostante, non più come nei primi anni del Movimento Moderno, quando si cercava, piuttosto, il contrasto accentuato.
Il suo Royal College of Physicians (’59-61), sede di un prestigioso corpo accademico di medici, collocato vicino alle neoclassiche terrazze del Regent Park di Nash, non strideva minimamente col contesto. Un bianco parallelepipedo su pilastri, con un pian terreno in mattoni curvo e inclinato. L’atrio conteneva una scala a spirale a pianta quadrata che collegava i diversi livelli aperti su un lato. Nelle forme e nelle finiture si riscontrava una delicatezza neoclassica, il terrazzo bianco richiamava il bianco del Regent Park, i pilastri riprendevano gli ordini classici, i mattoni porpora rispecchiavano i tetti in ardesia circostanti. L’edificio “rimava” perfettamente col Regent Park di Nash e la città circostante.
La sua ossessione per il contesto si sviluppò ulteriormente nel progetto per la University of East Anglia di Norwich. Il contesto era rurale, su un prato degradante verso il fiume. Scelse un modulo lineare capace di seguire l’andamento del paesaggio circostante, fatto di una successione di livelli sopraelevati, “stratificazioni” con torri annesse che, oltre a emulare il paesaggio, miravano a innalzare le attività umane su livelli superiori.
Nel National Theatre (’63-76) questo sistema di torri e stratificazioni si perfezionò, con una serie di spazi compenetranti lungo il fiume in grado di rendere benissimo la natura pubblica e aperta di questa istituzione. Le torri richiamavano l’estetica barocca e i profili medievali,. La forma del corpo principale era asimmetrica e cangiante, in cui spazio e luce collaboravano a suggerire il continuo mutare dei volumi, impedendogli di diventare un arrogante monolite e mantenendolo a scala umana.
Nonostante questo grande pluralismo, in Gran Bretagna c’erano anche degli interessi comuni: la ricerca di una sintesi tra moderno e tradizione, l’importanza della tecnologia, l’aspetto umano.






CAPITOLO 30
Estensione e critica negli anni ’60
I grandi nomi di questo periodo, per quanto diversi, presentano tratti comuni: sono tutti nati tra il ’15 e il ’30 e cresciuti nel declino dell’International Style, hanno tutti ammirato le opere tarde dei maestri per la loro ricerca di una maggiore robustezza e complessità, e cercarono di evitare sia la difesa di dogmi del passato che la reazione totale ad essi.
Negli anni ’60 un ottimismo generalizzato, persino nel pubblico, circondava l’architettura moderna (le crisi degli anni ’70 e ’80 sembravano ancora lontane…), e Giedion, annunciando la “Terza Generazione”, previde un lungo e facile cammino per l’architettura moderna. In realtà le differenze tra gli autori erano enormi, e non si venne mai a creare un coerente stile del tempo. Nell’edilizia generica si assistette ad un trionfo di una banale formula internazionale, riduttiva, monotona e strumentale alla rendita. I maestri pionieri trovarono il loro “nemico” nel “corrotto revivalismo” del XIX secolo, ma negli anni ’60 bene e male erano più difficilmente distinguibili; l’eclettismo aveva perso centralità, ma la svendita dell’architettura moderna aveva creato un “male” che condivideva le forme con il “bene”. L’architetto degli anni ’60 fu incapace di scegliere una strada precisa, tra la voglia di preservare, quella di innovare e quella di ricominciare daccapo, ma questi dubbi rimasero fino agli anni ’70, causandone la crisi. Alcuni dilemmi furono la conseguenza del materialismo del rapido sviluppo economico, causa di uno sviluppo urbano selvaggio che, oltre che a mancare di urbanità, distruggeva le campagne. Molte critiche, infatti, riguardavano la creazione di aree di circolazione pubblica, l’integrazione di vecchie e nuove piazze e vie, recupero dei centri storici. In questo periodo il Team X lavorò sull’associazione umana e sulla ridefinizione dell’identità urbana. Il Team X non diede vita a dogmatismi, anzi dava grande libertà ad ognuno di essi. Van Eyck, ad esempio, lavorò su una certa “continuità” con l’utopismo prebellico; d’altronde l’Olanda era patria di grandi esempi di urbanizzazione. In tutte le sue opere c’era un tono umano rassicurante, ma, come anche per gli altri del Team X, pose poca attenzione alla connessione tra i suoi edifici e la struttura urbana esistente.
Agli inizi degli anni ’60 l’International Style era già “passato”, mentre prendeva piede il “New Brutalism”, contraddistinto da un’espressione diretta dei materiali, separazione di parti ed elementi, accentuazione delle torri di servizio, compenetrazione di spazi. Si esaltavano i dettagli come “cose in sé”, con superfici in cemento grezzo a vista che richiamava sia la forza della realtà urbana, sia l’effetto dell’erosione naturale. I temi della “nuda verità” e “onestà strutturale” erano presenti in molti edifici dei primi anni ’60, anche non propriamente “New Brutalism”.
In Finlandia, come in tutto il mondo, erano presenti diverse componenti di sviluppo, a volte in competizione. C’era il minimalismo quasi astratto di Blomstedt, l’organicismo di Pietila, e i residui di Moderno, a cui questi ultimi si contrapponevano, che andava ancora di gran moda nel resto del paese.
In Spagna il pluralismo si espresse con l’integrazione di elementi del Moderno e di soluzioni adeguate ai diversi climi e luoghi, senza però cadere nel regionalismo. Madrid si arricchì della Torres Blanca di de Oiza, una torre organica, funzionale e tecnologica, come deve un’opera di architettura moderna, ma anche anti-moderna per il suo espressionismo scultoreo. Barcellona vide sorgere molte opere mature di Coderch, caratterizzate da mattoni rossi, balconi in cemento, terrazze, declinando l’Unitè di Le Corbusier alla realtà catalana.
In Germania emersero diverse scuole di pensiero, e Berlino si arricchì di molti edifici validi singolarmente (tra cui una Unitè) ma privi di un principio urbanistico comune. La monumentalità civica stava ormai tornando dal suo stato di “tabù” postbellico, e la norma dell’edilizia corrente si era assestata su una prosa architettonica di baso profilo basata su blocchi a parallelepipedo, telai strutturali e facciate continue, in contrasto con le rare dimostrazioni di poeticità di artisti come Mies van der Rohe (Nuova Galleria delle Nazioni) e Scharoun (Filarmonica di Berlino). Le reazioni a questa monotonia assunsero spesso le forme dell’organicismo romantico ispirato al passato o del riesame delle regole urbanistiche del passato. Il problema del “passato” stava inesorabilmente tornando al centro dell’architettura tedesca.
In Italia il “miracolo economico” del dopoguerra si realizzò a spese sia della città che delle campagne.L’architetto Scarpa si tenne lontano dalla consuetudine italiana alla teorizzazione (es. Argan), e creò mirabili esempi di edifici moderni perfettamente inseriti in un tessuto più antico. De Carlo si confrontò con il problema della grande scala e della standardizzazione edilizia (Università di Urbino), senza perdere di vista i valori architettonici ed urbani.
In Gran Bretagna il Team X, gli Smithson, Lasdun e Stirling erano espressioni uniche, ma gli Archigram e la loro non-architettura furono molto simili alla sperimentazione di Archizoom e Superstudio in Italia. Superstudio esprimeva un rifiuto del capitalismo, vedendo le forme e gli spazi dell’architettura del passato solo come una pretesa di ordine assoluto, maschera di oppressivi sistemi sociali di potere.
Mentre l’intenzione del Team X era di “umanizzare” la tecnologia, le loro opere attirarono molte critiche di eccessiva astrazione. La critica di sinistra attaccava ormai il moderno, giungendo al punto massimo alla fine degli anni ’60, con l’accusa alla pianificazione urbana di essere la maschera del capitalismo, un controllo sui poveri. Altri gruppi sostennero e difesero le strutture storiche e tradizionali delle città, ponendole al centro dell’urbanizzazione (in contrasto con le megastrutture tecnologiche stile Archigram o Metabolist). L’idea della Megastruttura, in realtà, era di convogliare in un edificio singolo le tematiche della città, viste anche le continue critiche mosse ad ogni tentativo di pianificazione urbana. Per contro, molti chiedevano alla città moderna di adattarsi a quella antica, non il contrario, come era accaduto fino ad ora con risultati spesso terribili. L’interesse per l’edificio venne sostituito da quello per l’isolato, nel tentativo di creare una città di spazi, e non di oggetti.
In Usa, invece, ci fu un boom edilizio, e si creò una sorta di araldica standardizzata per la grande impresa, dallo stile che riecheggiava un Mies semplificato. L’estrema fiducia nella potente tecnologia americana portò anche qui ad un gusto particolare per la megastruttura (si pensò addirittura di coprire Manhattan con una calotta ambientale) e ad uno strapotere del calcolo e della scienza ingegneristica sul gusto per la forma. Questo porterà, negli anni ’70, ad una reazione fortemente formalistica, che renderà vita dura all’avanguardia americana. Come eccezione è da sottolineare Goff, eroe della controcultura americana per il suo rifiuto dei valori aziendali.
Se Mies van der Rohe dominò gli anni ’50 in America, Le Corbusier dominò i primi anni ’60. Il suo unico capolavoro americano, il Carpenter Center di Harvard, non fu apprezzato molto, ma il suolo americano si disseminò di rivisitazioni de La Tourette, con esaltazioni di pilastri, brise-soleil e forti aggetti, il tutto con una vena di gigantismo.
Il grattacielo rimase uno dei tipi centrali dell’architettura americana, e le altezze crebbero a dismisura, creando un’estetica fatta di un onesto mix di travature reticolari e megapilastri, necessari per questi estremi. La formula estetica di Mies non era più adatta (singole finestre, parapetti e travi a I); ora un edificio “modello” era diventata la John Hancock Tower di Graham, rastremata e bilanciata da controventature a X.
Altro architetto degno di nota fu Rudolph, sostenitore di una monumentalità in cemento grezzo. Era una reazione alla sottigliezza dell’International Style, e il suo Art and Architecture Building era di una monumentalità grezza e vagamente primitiva, con un volume massiccio ed esageratamente irregolare, per un espressionismo interessante, ma privo di reale contenuto sociale.
A distinguersi da questo sfondo di meccanicismo o formalismo era Kahn, sentinella di saggezza e morale antica. Oltre ad essere il più grande talento del dopoguerra americano, fu grande insegnante (a Philadelphia) e trasmettitore delle sue idee.
Tra i suoi allievi di maggior talento Venturi, col suo Complessità e contraddizioni nell’architettura, che era un Verso una architettura tutto personale. Venturi credeva, in opposizione al miesiano Less is more, in un Less is bore, non come un aumento dei dettagli ornamentali, ma da un arricchimento di forma e significato, da una correlazione e/e piuttosto che da quella “ortodossa” o/o. I suoi sforzi architettonici erano caratterizzati da un atteggiamento populista, di “arte dal basso” (esaltava il manifesto pubblicitario stradale), alla ricerca di un vernacolo tipico americano. Nella Guild House Venturi applicò i suoi ideali di complessità su ampia scala, un complesso per anziani con aree comuni e oltre 90 appartamenti, con un’antenna televisiva d’oro in bella mostra, simbolo del tanto tempo passato davanti alla tv dagli anziani (…). Utilizzò banali componenti edilizie standardizzate di basso costo, sempre nella sua ottica pop di utilizzare vecchi cliché in nuovi contesti.
Altro architetto ad opporsi all’architettura moderna stereotipata fu Moore, in California. Nato regionalista e intriso di Pop Art, sfruttava nelle sue opere miscugli di riferimenti diversi (citazioni coloniali, regionaliste, di epoche passate, cliché, ecc…), con effetti spesso volutamente ironici. Era un eclettismo esagerato, privo di ordine e di tensione.
Venturi e Moore, due iconoclasti “eretici”, ci hanno dimostrato, però, la perdita di terreno dei principi dell’architettura moderna negli anni ’60.
Dall’altra parte c’era anche chi, come i New York Five, cercava invece di recuperare i mitici principi del moderno tramite le bianche forme degli anni ’20, anche in reazione alle dure masse “brutaliste”. Era loro intenzione far rivivere quella che definivano “l’età dell’oro” negli anni ’60, ma difficilmente andarono oltre dimostrazioni di eleganza. Negli esempi più riusciti riuscirono a proporre un gioco intellettuale in cui si poteva assistere alla rottura di alcune regole “classiche” degli anni ’20, o a leziosi accostamenti eruditi, il tutto per un pubblico molto ricercato.
Negli anni ’70 spesso i “bianchi” (N.Y. Five) vennero contrapposti ai “grigi” (Venturi e Moore), ma, in realtà, avevano molto in comune, ed entrambi attribuirono grande valore alla manipolazione formale complessa di schermi e piani, coinvolti nell’uso di citazioni e di revival, entrambi reazione alla progettazione moderna ormai priva delle sue basi, entrambi accademici ed iperintellettualizzati, isolati dalla società americana.
In termini generali, il percorso tra il ’55 e il ’75 in Europa Occidentale e USA partì da un esteso consenso e si attestò su un grande scetticismo, che vide diversi attacchi alla “mitologia” moderna. Le certezze lasciarono posto a “fedi spezzate”, dove nessuna idea forte scosse la società, e gli architetti fluttuavano insicuri ed estraniati. Alla fine degli anni ’70 i tentativi di revival di stili precedenti vennero definiti “rivoluzionari”…






CAPITOLO 31
Modernità, tradizione e identità nei paesi in via di sviluppo
L’architettura moderna nacque nei paesi occidentali industrializzati basati sul progresso, dove si cercò di creare uno stile appropriato e autenticamente moderno. I risultati furono imitati spesso altrove, anche se non si presentavano le stesse condizioni di partenza, infatti, nei paesi meno sviluppati, le forme moderne ebbero ripercussioni interessanti solo negli anni ’40 e ’50. La diffusione di questa versione svalutata del moderno si realizzò o attraverso un rapido sviluppo, o grazie all’intervento coloniale, o per imitazione da parte delle avanguardie post-coloniali intenzionate a portare i simboli del progresso in nazioni “arretrate”. Nei paesi che si liberarono dalla colonizzazione il moderno entrò o come mezzo di trasformazione sociale (India), o come risultato degli investimenti internazionali sul territorio, nel contesto di una neo-colonizzazione economica. Altre volte il moderno era un pretesto per attirare capitali stranieri. Tutto ciò provocò una grave collisione tra vecchio e nuovo, tra moderno e tradizione, causata anche dal fatto che questi paesi avevano compiuto in una generazione oltre 100 anni di sviluppo, utilizzando mezzi non propri e non facendo in tempo ad assorbirne le implicazioni. L’antico veniva visto come simbolo di arretratezza, lo stile coloniale rimandava alla dominazione, e allora ci si rifugiava nel “confortevole” moderno, totalmente estraneo al contesto, poco funzionale ma simbolo della “libertà consumistica” occidentale. Fu così che molti paesi liberatisi a fatica dalle colonie si fecero volentieri colonizzare rapidissimamente da un sistema architettonico occidentale moderno solo esteriormente. Sorsero città sullo stile di Londra e Manhattan, vittime di questo surrogato di moderno e dei suoi cliché, domini dell’imperialismo economico occidentale (ma c’erano esempi simili anche in zona sovietica).
Una via d’uscita poteva essere il tentativo di coniugare elementi indigeni ed importati, ma il rischio di “falso regionalismo” era grande. Una giusta soluzione era il Regionalismo Moderno, che portava alla luce gli insegnamenti fondamentali della tradizione locale per unirli ad un linguaggio moderno, ma ciò necessitava di talenti veri.
Nella transazione dell’architettura dai paesi industrializzati a quelli meno venne a variare anche il metodo di progettazione e realizzazione: l’architettura moderna presupponeva una divisione del lavoro tra architetti, costruttori, ingegneri ed operai, ma in molti paesi “sottosviluppati” le fasi venivano ridotte, e magari si importavano materiali estranei al luogo per farli lavorare da una manodopera locale adatta ad altri materiali e abituata a metodi di costruzione totalmente differenti.
Spesso i modelli “a basso costo” occidentali risultavano essere più costosi in altri contesti, oltre che meno funzionali, rispetto alle abitazioni tradizionali, come osservò in Egitto l’architetto filosofo Fathy. Suggerì di utilizzare metodi, materiali e manodopera locale. Fathy criticò l’industrializzazione e l’architettura moderna, rifiutando i miti del progresso imposti dall’occidente. Era convinto che un contadino fosse in grado di costruirsi una risposta ai propri bisogni molto meglio di quanto potesse fare un architetto. Il suo romanticismo contadino crollava, però, davanti alla necessità delle città in crescita di nuove abitazioni in tempi brevi, a basso costo e di minimo ingombro.
In altri contesti, come l’India e il Brasile, l’industrializzazione aveva stravolto sia le tradizioni sia il mondo rurale, causando una migrazione incontrollata verso le città. Si vennero a creare megalopoli dalle periferie fatiscenti, in cui né il moderno, né il romanticismo rurale di Fathy potevano nulla. In questo contesto di baracche di lamiere e rifiuti (bidonville) qualsiasi architettura era un lusso.
Alla fine degli anni ’60 le concezioni di pianificazione globale erano ormai sotto accusa. In Perù, nel ’68, le Barriada erano una rievocazione razionale dei modelli emersi proprio nelle bidonville; in Nuova Guinea si incoraggiarono gli immigrati dalle campagne a riproporre i propri modelli vernacolare, più adatti al clima, e sia arrivò addirittura a teorizzare la nascita di un moderno regionalismo neoguineano.
In questo periodo molti architetti cercarono parallelismi tra il moderno primitivista e arcaico e principi indigeni, come avvenne in India. Qui il moderno era un’adeguata risposta post-coloniale che travalicasse differenze di credo o di casta, e Kahn e Le Corbusier avevano dato un forte stimolo in questo senso. Il Gandhi Ashram Memorial di Correa (’63) si sviluppava tra spazi aperti, chiusi e semi-coperti, un labirinto di ombre e spazi. Il tutto era tenuto su da una griglia di pilastri, culminante in tetti piramidali a tegole. La struttura evocava la semplicità e la verità di Gandhi, riprendeva la Casa Sarabhai di Le Corbusier e una concezione spaziale tipicamente indiana, fatta di pilastri, terrazze, flussi d’aria e spazi per la comunicazione sociale. Gli architetti indiani volevano fornire alla società indiana, sottoposta al drastico passaggio dalla vita rurale a quella urbana, un equivalente moderno ai linguaggi architettonici tradizionali. La meccanizzazione era debole, l’acciaio scarso e l’aria condizionata un lusso: perché, allora, non usare mezzi di climatizzazione naturali, manodopera e materiali locali a basso costo? Balkrishna Doshi, allievo di Le Corbusier, tradusse splendidamente la tradizione in un linguaggio moderno, creando variazioni in dipendenza di clima e uso, richiamando la maglia compatta e densa della città tradizionale indiana.
Negli anni ’70 l’architettura indiana assunse definitivamente un carattere proprio, complesso, policromo, polimaterico, stratificato, integrato con ambiente e tradizione, accurato dal punto di vista della circolazione dell’aria e dell’illuminazione naturale, il tutto in contrapposizione con la monotonia poco funzionale del moderno importato.
L’architetto del terzo mondo non disponeva di tecnologia avanzata, ma la grande disponibilità di manodopera e materiali a basso costo permetteva soluzioni impensabili in occidente. Le Sale Espositive per il commercio a Nuova Delhi di Raj Rewal erano versioni in cemento armato a basso contenuto tecnologico di strutture in acciaio high tech, rese possibili da un largo uso di manodopera.
In America centro-meridionale l’architetto uruguaiano Dieste era un altro sostenitore dell’architettura derivata da materiali, tecniche e possibilità locali, con forme plastiche e genuine. L’architettura messicana si caricò di un vernacolo fatto di policromaticità, sobrietà e rilassamento; Logorreta individuò nel “muro” forte e policromo l’elemento ricorrente, tipico, della cultura messicana.
In Turchia l’architetto Eldem cercò uno stie moderno propriamente turco, fondendo standardizzazione in cemento ed elementi propri dell’uso locale, come aggetti e strutture lignee, come fece in Iraq l’architetto Chadirji.
In altri paesi, invece, l’industrializzazione era molto meno presente, e il vernacolo locale molto più forte, favorito dalla natura prevalentemente rurale di questi stati. Il Centro Medico di Ravereau, in Mali, era la trasformazione di forme tipiche locali, e fondeva le proprietà tecniche occidentali con l’abilità artigianale locale. Bawa in Sri Lanka si adattò alle caratteristiche tropicali dell’isola, sintetizzando influenze orientali ed occidentali.
Nel 1949, dopo la Rivoluzione, la Cina intraprese un processo di autodefinizione culturale tra l’influenza sovietica, il proprio percorso di industrializzazione e la gloriosa tradizione. Le influenze del classicismo sovietico si mischiarono spesso ad un nazionalismo crescente, o a rievocazioni tradizionali, e la crescente influenza del Partito Comunista cinese diede sempre maggiore importanza alla funzione sociale rispetto alla qualità formale.
Spesso il tentativo di fondere monumentalità e tradizione è sfociato nel kitsch, come per i concorsi per la Regia Biblioteca a Tehran e l’Aeroporto di Dharan in Arabia Saudita, in cui gli architetti occidentali hanno dimostrato grandi difficoltà a cogliere lo spirito dei clienti. Altre volte sono stati i clienti a richiedere all’architetto occidentale un’opera che rispecchiasse le ultime novità occidentali. In entrambi i casi il “locale” è stato trascurato, e i sostenitori dell’identità locale attaccati come nemici del “progresso”.
Uno degli elementi della crisi che investì l’architettura dei paesi meno sviluppati fu appunto la mancanza di un linguaggio adatto sia a incarichi moderni che a incarichi tradizionali.
Nel ’73, con la crisi petroliera, i paesi esportatori di petrolio incrementarono le loro entrate, “acquistando” tecnologie e conoscenze dall’occidente. Ne conseguì un boom costruttivo, parallelo alla stasi della produzione occidentale, ma non fu del tutto positivo: i “nuovi ricchi” non badavano alle raffinatezze della produzione occidentale, e gli architetti occidentali, tesi al guadagno economico, ignoravano costumi e tradizioni locali. Tutto era “importato”, e anche quando vennero fatti tentativi di espressione “locale” questi erano soltanto manierismi di facciata.
Intanto in tutto il mondo musulmano prendeva piede un “revival Islamico”, in contrasto al freddo materialismo modernizzante occidentale. Cercarono di eliminare i tratti occidentali dalla loro architettura, il tutto intriso di un forte dogmatismo religioso.
Lo sguardo rivolto al passato non portava necessariamente al regresso architettonico, come ci ha dimostrato Utzon nell’edificio per l’Assemblea Nazionale del Kuwait (’72). Raro esempio di espressione monumentale, era un’ottima sintesi tra riferimenti locali, generici tipi tradizionali e senso moderno dello spazio.
L’ossessione della rappresentazione culturale, centrale negli anni ’70, correva il rischio di ignorare qualità e autenticità architettonica, e quest’accettazione indiscriminata di iconografie tradizionali portò spesso al kitsch. Un moderno superficiale e un banale tradizionalismo erano in realtà da fuggire allo stesso modo.






CAPITOLO 32
Pluralismo negli anni settanta
Negli anni ’70 si sviluppò il fenomeno chiamato “postmoderno”, basato su un evidente riuso del passato. Fu un’epoca di pluralismo, dove si affiancarono decine di correnti di pensiero e di cosiddette scuole, di cui molte rimasero soltanto sul piano teorico. Si creò una vera “lotta” per la supremazia, in cui ogni corrente voleva affermare le superiorità delle proprie idee sulle altre, facendo affidamento anche sui mezzi della stampa e delle università. La convinzione comune era che “l’architettura moderna era morta”, e che una nuova generazione “postmoderna” stesse nascendo. In realtà la continuità col Movimento Moderno era ben maggiore di quanto loro volessero lasciar intendere. Gli oppositori si appropriarono della denominazione di “moderni”, ma ciascuna delle due fazioni era in realtà una interpretazione semplicistica e monolitica dell’architettura moderna. Entrambi si preoccupavano troppo degli aspetti stilistici, quando in realtà la continuità andava cercata sul piano delle idee generatrici e dei principi generali.
La violenta reazione contro tutto ciò che veniva denominato “moderno” assunse varie forme, ma il bersaglio preferito fu l’urban revival altamente distruttivo caratteristico degli anni ’60. Si rimproverava di ignorare i bisogni umani, di non integrarsi con il contesto, di mancare di identità, di essere strumento dell’oppressione di classe. Il relativismo della controcultura dei tardi anni ’60 criticava il determinismo sociologico caro all’ala funzionalista del Movimento Moderno, e il filone revisionista della storia dell’arte insidiava la legenda dell’inevitabilità dello sviluppo moderno. La morte dei maestri del moderno sicuramente non migliorò la situazione, e col calo dl fervore progressista il Movimento Moderno entrò in un vero stato di crisi (identificata dagli oppositori nella crisi della società dei consumi).
In risposta in molti casi si tornò indietro, convinti che fosse l’unica via di uscita, riesaminando forme anteriori. Persino i “postmoderni” fecero uso di frammentazione, collage e planarità, come nella migliore tradizione anni ’20. Come spesso accade, gli storici del tempo si dimostrarono troppo intrisi degli interessi della corrente per essere obiettivi: in realtà non erano innovazioni rivoluzionarie, e i debiti col passato sono ora evidenti.
Nessuna etichetta stilistica può raggruppare la grande varietà di edifici nati negli anni ’70, che andarono dall’ high tech all’arcaico. Architetti come Utzon, Kahn, Scarpa e Lasdun produssero opere al di là di ogni moda, ma non per questo “anacronistiche”, mentre Johnson si trasformò di volta in volta per stare al passo con le tendenze, e ciò lo privò della giusta profondità. Stirling cambiò stile, interessandosi a contesti e preesistenze, Gehry diede vita al principio dell’assemblaggio cubista, Ando, in Giappone, combinò riduttivismo e tradizione giapponese, ed emersero giovani architetti come Graves e Isozaki.
Gli anni ’70 mancarono completamente di uniformità, ma si possono esaminare le diverse tipologie sviluppate.
Sul tema della residenza si partì dalla critica alla Unitè, con l’intenzione di dare maggiore identità e contestualità. Nacque la “progettazione partecipata”, nel tentativo di migliorare la comunicazione tra architetto e cliente (Byker Wall di Erskine del Team X). Il Byker Wall era stato progettato con la continua intermediazione tra architetto ed utenza, ma, nonostante fosse un prodotto pregevole sotto tutti gli aspetti, era tutt’altro che una forma nata solo per mano degli abitanti di Newcastle.
Altro modo di rispondere alla Unitè era rifugiarsi nel vernacolo, in una convinzione che l’Unitè fosse architettura elitaria, e così, in Europa, spioventi e cornicioni diventarono simboli di rispettabilità politica e di “misura d’uomo”.
Il Quartiere Gallaratese di Rossi a Milano era in contrasto sia col Byker Wall che col vernacolare: la complessità del Byker sostituite da scarna e ripetitiva semplicità, la sua forma sinuosa e pittoresca da un’ossessiva linearità, al posto delle nicchie una monotona galleria che percorreva tutto il piano terra dell’edificio. Rossi proponeva un’architettura basata su schemi “base”, antecedenti alla caotica situazione generata dall’industrializzazione, mescolando questi tipi storici a seconda dei bisogni, in un linguaggio fatto di geometrie semplici. La sua opera è stata definita “neorazionalista”, a causa anche delle similitudini con il razionalismo italiano degli anni ’30.
Siza ristrutturò, in Portogallo, il Quartiere di Quinta de Malagueira. Cubi intonacati di bianco, scavati da terrazze e ombre, che si adeguavano perfettamente ad un paesaggio ed un clima specifico, tra città e campagna. Erano unità residenziali basse ad alta densità, vicine al vernacolo portoghese. Era convinto che l’architettura non inventasse nulla, ma si rifacesse continuamente a modelli del passato.
Sul tema degli edifici per uffici, invece, la norma consisteva nelle scatole di vetro verticali e in quelle, suburbane, orizzontali, e si cercò, allora, di arricchire queste scarne formule con giardini, atri e balconi.
La lussuosa Ford Foundation a New York, di Roche e Dinkeloo, oltre ad arricchire l’edificio come sopra descritto, cercò anche di aprirlo visualmente verso la strada.
Il Willis Faber Dumas Building a Ipswich, di Foster, non era una critica alla tecnologia, era anzi un’esaltazione del meccanismo di precisione. La pianta libera era estremizzata, per uno spazio di lavoro continuo ed articolato dinamicamente, e vetro e finiture in acciaio cromato contribuivano all’effetto generale. Riprendeva lo spazio di Mies van der Rohe, le fantasie cristalline degli anni ’20 e i grattacieli minimalisti americani degli anni ’60, ma questa esaltazione tecnologica aveva perso, ormai, la forza dell’utopia presente, invece, negli antenati degli anni ’20.
L’edificio per le Assicurazioni Centraal Beheer in Olanda, di Hertzberger, era invece all’opposto, su una posizione di ferma critica alla tecnocrazia. Anziché celebrare lo spazio di lavoro aperto e continuo, ne esaltava il territorio privato del singolo lavoratore; se il primo si sviluppava verso l’interno da un involucro uniforme, questo era assemblato dall’interno verso l’esterno, sulla base di piccole unità standardizzate su scala umana. Era fatto di stretti vicoli tortuosi articolati su vari livelli, in cemento armato grezzo che lasciava all’individuo la possibilità di personalizzarsi il luogo di lavoro, arredandolo a piacere.
La Banca Europea per gli Investimenti di Lasdun, in Lussemburgo, era dominante nell’immagine, ma su scala umana nell’organizzazione. Era un edificio fortemente orizzontale e su livelli sovrapposti (Wright, Dom-ino), che si contrapponeva decisamente alla banalità della scatola di vetro.
Anche la produzione di grattacieli risultò particolarmente varia.
I due enormi prismi del World Trade Center (Torri Gemelle) di Yamasaki (1969) erano l’estremizzazione del minimalismo dell’oggetto nella piazza, e rappresentarono il punto finale di un percorso.
Presero piede nuove concezioni, partendo dalla suddivisione del grattacielo in parti, e dall’attenzione rivolta al basamento (spesso come atrio aperto sulla strada) e al coronamento (sede di impianti di manutenzione e di grande importanza simbolica).
Il Quartier Generale della Citicorp di Stubbins era un revival dell’International Style in versione High Tech, con le sue superfici riflettenti e la serie ininterrotta di finestre a nastro.
Un’altra via consisteva nella “decorazione” della scatola, come fece Johnson nell’American Telephone and Telegraph. Partendo dalla divisione tripartita, riconducibile ai grattacieli degli anni ’20 (basamento, fusto e sommità), enfatizzò l’ingresso con un arco, l’atrio con un colonnato classico gigante e il coronamento con un frontone spezzato al centro da un buco circolare.
I musei furono altrettanto vari.
Il Centre Pompidou di Parigi, progettato da Renzo Piano e Rogers (‘71-‘77), era un centro culturale a funzione mista, e l’intenzione fu di creare un’istituzione popolare, più che un palazzo di cultura. Un imponente e funzionale hangar sostenuto da un telaio megastrutturale in tubi d’acciaio, con prospetti interamente vetrati e spazi interni flessibili. Un lungo tubo di vetro conteneva una scala mobile esterna, fungendo contemporaneamente da decorazione, da simbolo di apertura sociale e da richiamo agli archigram.
Il contrasto del Pompidou col Kimbell Art Museum di Kahn, con la sua gravitas e la sua moderazione, era massimo.
Nel Musèe de la Prèhistoire di Simounet si esaltava la fluidità spaziale, invece della macchina.
Il Museo Prefetturale di Arte Moderna di Isozaki utilizzò un linguaggio di semplici geometrie e di alta qualità di dettagli, tra astrazione e riferimenti.
Verso la fine degli anni ’70 l’architettura moderna fu accusata della mancanza di un “immaginario riconoscibile”, richiamando gli architetti dal piano della ricerca formale a quello delle immagini facilmente leggibili.
Il cosiddetto “postmoderno”, invece, diceva di combinare funzionalismo, forme semplici e verità strutturale, ma era difficile capire cosa in realtà proponessero di nuovo. L’architettura divenne sempre più un “sistema di segni” facilmente leggibili, e ciò rivalutò enormemente l’eclettismo.
Come il “New Brutalism”, il “postmoderno” era un vago cumulo di aspirazioni e rifiuti, più che un programma e uno stile ben definito. Lo stato d’animo postmoderno (di più non era) fu uno delle tante tendenze revisioniste degli anni ’70, tutte a favore di un arricchimento estetico e simbolico, ma non venne fatta differenza tra una banale semplicità ed una più intensa purificazione formale. Tutto il moderno era rifiutato, senza distinzioni. Un intero filone letterario lottò per la destabilizzazione delle idee del Movimento Moderno, attaccandone il funzionalismo (anche se non lo era), il contrasto con la storia (nonostante il forte attaccamento alla tradizione), l’utopismo (ma non era solo dell’anteguerra?).
L’eclettismo di Moore divenne un modello postmoderno, e la sua Piazza d’Italia, una fontana tra curvi schermi colorati composti da colonne classiche, capitelli, trabeazioni ed archi, era, più che una rivisitazione classica, un allestimento da Luna Park.
Il progetto, mai realizzato, di Graves (Ex N.Y. Five) per il Fargo-Moorhead Cultural Centre, era ricco di metafore naturaliste e citazioni storiche, oltre che di simbolismi derivati dalla sua posizione a cavallo di un fiume tra due stati.
Questo nuovo tradizionalismo era privo di una vera ricerca di rigore, e ciò portò, nella maggior parte dei casi, ad eclettismi un po’ kitsch. Il tema dell’immaginario era l’unico a cui si desse particolare attenzione, e venivano derisi attenzione sociale e necessità strutturale. Queste nuove tendenze erano ormai il simbolo del consumismo, e non a caso trovarono il terreno più fertile negli Stati Uniti.
Nonostante tutti i loro propositi, questo nuovo eclettismo non fu, agli occhi del pubblico, più facilmente comprensibile del moderno, anzi, il gran numero di citazioni richiedeva un gioco intellettuale di alto livello. Altro problema di questo “eclettismo radicale” fu la difficile, e spesso sottovalutata, fattibilità costruttiva e strutturale.
Ma il postmoderno non fu solo americano: nel 1980 la Biennale di Venezia propose la Strada Novissima, carica di riferimenti classici; sempre nel 1980 si “giocò” riproponendo il concorso per il Chicago Tribune del ’22, un’occasione di esercizio di revival.
Tra le varie nuove tendenze era forte l’uso dell’assemblaggio, del collage, della frammentazione (Gehry, Hollein).
Anche la Neue Staatsgalerie di Stirling (77-84) a Stoccarda si affidava alla frammentazione, riprendendo schemi neoclassici e allusioni storiche. Fondeva high tech e classicismo, monumentalità e democrazia, moderno e antico, ricco di ornamenti colorati. Stirling prendeva ispirazione dalle piazze romane e dal presunto carattere “collagistico” della Villa di Adriano. Rifletteva i temi in voga nel periodo: contesto, classicismo, collage, policromia, ornamento, riferimenti postmoderni, ma in realtà era basata su una disciplina progettuale moderna, “manieristica” nei confronti dei grandi del moderno.
Per quanto riguarda la città, il postmoderno era interessato ai modelli preindustriali, antidoti per gli effetti dello sviluppo economico, ed era animato da un grande rispetto per il contesto esistente. L’architettura moderna fu colpevolizzata del fenomeno mondiale di distruzione dei centri storici per costruire grattacieli e strade, e si reagì con la tendenza alla “conservazione globale” di tutto ciò sia vecchio. Altra conseguenza fu l’ossessione per le “vedute d’insieme” delle strade, che distolse troppo, però, l’attenzione dai singoli edifici. Venivano ora esaltate le “strade corridoio” tanto temute da Le Corbusier.
Collage City, saggio di Rowe e Koetter, si basava sul collage, in contrasto al determinismo moderno, ed enfatizzava gli spazi più che gli “edifici-oggetto”. Aveva una vena ironica nei confronti delle utopie del moderno, ma in realtà rispecchiava un sentimento diffuso che tendeva a storcere il naso di fonte a qualsiasi dimostrazione di positività ed entusiasmo. Il collage era una tecnica per “usare le cose e non prestare loro fede”, senza correre il rischio, così, di aderire a qualsiasi utopismo di qualsiasi epoca.
Il sentimento generale era di essere alla fine di un ciclo, ma nulla aveva ancora preso il posto del moderno. Alcuni pensavano che rimanesse ormai solo il manierismo, ma in realtà le manifestazioni di buona architettura, tutte evoluzioni del solito moderno, c’erano, come ad esempio la Tomba Brion di Scarpa. Ospitava diverse tombe familiari, carica di atmosfere antiche, e più che un edificio era un paesaggio. Le “rovine” nell’acqua accentuavano il senso di erosione del tempo, e la Cappella Funeraria, in un malinconico stagno circondato da cipressi, sembrava una moderna isola dei morti, in piena sintonia col paesaggio veneto, fatto di canali, isole e lagune. Il visitatore veniva coinvolto in un percorso rituale. La frammentazione è sfruttata per esplorare le questioni della fede e dell’immortalità, in un’atmosfera generale di sospensione e di riflessione.
Altro esempio di grande architettura è la Chiesa di Bagsvaerd di Utzon, composta di tre spazi principali: atrio, sala comunitaria centrale e giardino di servizio con uffici. All’esterno l’edificio era regolare e geometrico, ma all’interno il soffitto era formato da bianche superfici curve in cemento, come onde, che modulavano splendidamente la luce. Gli effetti di luce e i materiali disadorni rendevano perfettamente l’idea di una “casa d’incontro” religiosa, e allo stesso tempo richiamava una casa, una fattoria, una sala, una chiesa. La forma nasceva direttamente da un mezzo strutturale adeguato alle idee.






CAPITOLO 33
Architettura moderna e memoria: nuove percezioni del passato
Non bisognerebbe mai scrivere la storia del passato recente, per il rischio di essere parziali, mentre non è così per il passato, visto che si ritiene che la vera forma della storia emerga, prima o poi, da sola.
Ormai non si può più parlare di un ristretto numero di centri cosmopoliti occidentali da cui partono le idee guida per tutto il mondo, ma, già dagli anni ’40, paesi come Finlandia, Giappone e Brasile seppero farsi valere negli equilibri internazionali. Negli ultimi anni paesi come Spagna, Portogallo, Messico ed India hanno trovato un proprio carattere.
L’architettura degli ultimi 20 anni non può essere ascritta d un’unica ideologia, né descritta attraverso temi riduttivi come “high tech”, “regionalismo”, “neorazionalismo”, “classicismo”, “contestualismo” o “minimalismo”. Come sempre le opere chiave si rifiutano di rispettare qualsiasi movimento.
Il postmoderno si è dimostrato fenomeno effimero e relativamente localizzato, e l’immagine caricaturale che ha dato dell’architettura moderna ha distorto la prospettiva storica. La breve moda del revivalismo ha soltanto cambiato gli abiti formali all’architettura, ma il moderno ha invece alterato la vera e propria anatomia spaziale della progettazione. Gli anni ’80, nonostante le convinzioni di neoavanguardisti e tradizionalisti, sono passati lungo processi di evoluzione e rivalutazione, più che di rottura e rivoluzione. Non è imitazione, ma adattamento di principi base precedenti a nuove intenzioni.
La megalopoli diventò il modello urbano predominante, la globalizzazione indebolì ulteriormente le tradizioni locali, la gestione elettronica delle informazioni cambiò tipologie e necessità.
Come reazione alla città dell’informazione in molti cercarono identità regionale, integrità strutturale, legami con tradizioni e valori locali, fini morali, poeticità.
Le certezze si dissolvevano: i determinismi di inizio secolo erano scomparsi da tempo, l’idealismo utopico era stato screditato e tutte le ideologie basate sul progresso erano morte.
L’architetto fu sempre più in posizione marginale nella definizione dell’ambiente urbano, e l’interesse per il collage e il frammentato superavano quello per il contesto urbano.
Si era rafforzato un ossessivo interesse per il passato, sia tra i neomoderni, sia tra i postmoderni, sia tra i tradizionalisti, rispecchiando un crescente bisogno di identità e base storica. Ci si poteva rapportare al mondo classico in vari modi: citazioni integre, utilizzo degli schemi di ordine, stili stravaganti e manieristi. I classicisti postmoderni (Graves) appartenevano a quest’ultima categoria, senza un ordine o una disciplina sottostante, e la loro superficialità ebbe modo di rivelarsi, negli anni ’80, anche in grandi commissioni. Grandi prefabbricati con inconsuete colonne, che non riuscirono mai a trasmettere valori più profondi dell’architettura classica.
Nei primi anni ’80 ci fu un boom, in USA, nella costruzione di edifici per uffici, e la formula tripartita divenne la moda del periodo. Apparivano serie di archi, colonne, sommità gradinate e coronamenti decorativi, ed erano altrettanto banali dei prismi standardizzati di vetro che cercavano di abbellire. Questa decorazione storica, tanto amata nell’America di Reagan, forniva un veloce stile d’alta classe e conservatore, ma in realtà privo di contenuti e di coordinazione (archi e pilastri che non sostengono nulla). Negli anni ’80 alcuni tentativi di riferirsi al mondo classico più direttamente si intersecarono con programmi culturali e politici, spesso dal tono reazionario. In Inghilterra l’ondata neoclassica corrispondeva ad un crescente conservatorismo politico, con la nuova destra alla ricerca di un mezzo che sostituisse il moderno del “welfare state”. Figure come quella di Terry vennero portate sotto i riflettori, nonostante il suo classicismo monotono, incaricati di rivalutare la “gloria nazionale” avvilita dalle intrusioni di un internazionalismo “socialista”. Terry si considerava “classico”, e prese le distanze anche dal postmoderno, che considerava peggio del moderno, in quanto “opera di Satana” perché fatto addirittura con ironia. Era un’arte accademica che si rifiutava di affrontare i problemi del presente (come diceva Scott nel lontano 1914…).
In Italia e Germania nel dopoguerra e in Spagna dopo la caduta di Franco un riferimento diretto a opere classiche sarebbe stato impensabile, ma il substrato classico entrò comunque in contatto col moderno. I neorazionalisti italiani, come Rossi e Grassi, si basavano su una vena di valori classici; Rossi ridusse il classico a elementari figure geometriche, su piante simmetriche dal gusto classico; Grassi riconfigurò il classico in un linguaggio di rigide forme rettangolari (portici della Casa dello Studente di Chieti). Il neorazionalismo evitava sia il vuoto del funzionalismo, sia la superficialità del tradizionalismo, evocando la storia con un’architettura moderna fortemente astratta. Purtroppo anche il neorazionalismo si ridusse, in Europa, ad una serie di cliché da imitare pedissequamente.
Evoluzioni regionali nel neorazionalismo si diffusero in tutta Europa, sotto la spinta di quello italiano, meritevole di aver dato forma ad aspirazioni comuni. Un gruppo di architetti svizzeri del Canton Ticino, Snozzi, Galletti, Vacchini e Botta, elaborò un linguaggio strutturale e geometrico, ma intriso della poeticità del luogo. Botta sviluppò uno stile proprio, fatto di una grande attenzione al paesaggio circostante, e alla natura, legato alla sua terra. La Casa Rotonda era una casa unifamiliare in calcestruzzo (ricoperta di mattoni), un solido monumento cilindrico tagliato in due da una fenditura attraverso la quale penetrava la luce. Il lucernario triangolare ricordava un frontone o la forma di un tetto a spiovente, e le finestre erano fatte in modo da catturare la luce diversamente a seconda del periodo dell’anno, come a ricordare il ciclo delle stagioni e la presenza della natura. Le viste erano ritagliate unicamente nel paesaggio incontaminato, e la casa rievoca un osservatorio o una torre di ritiro spirituale. Botta voleva creare un’architettura in sintonia col proprio tempo e con la natura, e respingeva la superficialità del postmoderno.
Il Canton Ticino si sviluppò rapidamente in questo periodo, abbandonando la vita rurale per una struttura urbana moderna, ma sempre inserita in un contesto naturale e tradizionale. Galletti cercò di creare dei “monumenti” che facessero da punti fissi, da confini dello sviluppo economico e da “promemoria” della tipologia del paesaggio svizzero. Fuse vecchio e nuovo, natura e urbanistica, creando elementi stabilizzatori nella emergente e disordinata massa extraurbana.
Vacchini desiderò urbanizzare le disordinate aree periferiche, conferendo loro un contenuto civico. Introdusse l’idea dell’ossatura in acciaio e calcestruzzo nella tradizione elvetica, tra il moderno di Terragni e gli aspetti locali. La sua Scuola di Montagnola sembrava un foro romano all’aperto, con mura di cinta e cortile interno, chiuso su tre lati e aperto sul panorama montano. Includeva le tre cose che un edificio può rappresentare: un limite creato nel paesaggio, una porta verso un mondo diverso, un posto in cui sentirsi a proprio agio.
L’architettura ticinese si differenziava dallo scadente classicismo postmoderno, grazie alla sua ricerca del ritmo, alla coerenza fra parti e tutto, all’attenzione ai materiali, all’artigianalità locale, all’attenzione per il contesto.
Negli anni ’80 si ravvivò l’interesse per l’antichità classica, e in particolare per la “rovina”. L’italiano Venezia si interessò a tutto ciò, distinguendo rovine “reali e metaforiche”. La rovina ci lascia intendere l’idea strutturale antica, il processo costruttivo, e Venezia fu particolarmente ispirato dal territorio siciliano. Il Museo a Gibellina, di una geometricità astratta, si basava su una forte struttura a telaio, che faceva grande affidamento su luci e ombre. Il Piccolo Teatro all’aperto di Salemi era una stanza all’aperto, su un terreno brullo, delimitata da muri, come un pozzo rettangolare all’aria aperta. I materiali grezzi e locali e i pezzi di colonne spezzate accentuarono ancora di più l’immagine del teatro greco.
Il Museo Nazionale di Arte Romana progettato da Moneo in Spagna univa rovine reali e metaforiche. Posto lungo due antiche strade romane, era di fronte ad un teatro e ad un anfiteatro, circondato tutt’intorno dalle rovine della vecchia cittadina. L’edificio si componeva di una serie di muri ricoperti di mattoni romani, in cui si intagliavano archi sormontati da lucernari industriali e tetti a tegole. Il risultato era un incrocio tra una fabbrica di inizio secolo ed una struttura classica, basato fortemente sulle analogie con l’ingegneria romana, presente tutt’intorno. Era puro eclettismo, ma non banale: si adattava perfettamente all’ambiente circostante, e non solo, arricchito da riferimenti al mondo islamico della moschea di Cordoba e alla tradizionale architettura spagnola.
Altro esempio di perfetta armonia tra vecchio e nuovo in Spagna è il Velodromo di Barcellona, di Bonell e Rius. Posto su un pendio, era semplice e rigoroso, con una struttura onesta e strettamente legata alla forma, con materiali gestiti razionalmente. Questa funzionalità era correlata ad accorgimenti di proporzione e geometrie che lo associavano ad anfiteatri e arene per corride,. Lo definirono classico nella forma e nella posizione, moderno nel razionalismo, nella semplicità e nella coerenza tra struttura, forma e materiali.
Il Palazzo dei Congressi e delle Esposizioni a Salamanca di Baldeweg esprimeva il dilemma della monumentalità moderna in un contesto democratico post-franchista. L’iconografia dell’edificio più che sostenere l’autorità la rovesciava, così come la sua cupola non era tradizionale ma sospesa e aperta, fonte dell’illuminazione. Era un palazzo moderno nello spazio, nella struttura e nella posizione sociale, ma era anche monumentale.
Negli anni ’80 si ebbero molteplici dimostrazioni inerenti alla trasformazione del passato, e alcune delle migliori furono eclettiche nel migliore senso della parola, sintetizzando principi e tipologie da diversi periodi, senza tralasciare l’eredità moderna. “Nulla di vecchio è mai rinato, ma neppure scompare mai completamente. E tutto ciò che è sempre stato emerge in una forma nuova” diceva Alvar Aalto.






CAPITOLO 34
Universale e locale: paesaggio, clima e cultura
L’architettura moderna è sempre stata legata alle culture locali, coinvolta, in alcuni casi, addirittura in progetti di identità nazionale. La storiografia ha sempre guardato il Movimento Moderno da un punto di vista “di parte”, chiaramente occidentale, ma, nonostante le principali tappe del moderno siano avvenute in Europa e Stati Uniti, non va sottovalutato l’apporto di Messico, Giappone, Brasile, Palestina, Sudafrica, degni esempi di un moderno adattato a clima e tradizione.
Nel dopoguerra nell’architettura moderna agli ideali progressisti furono integrati rapidamente natura e regionalismi, e si affermarono architetti come Barragàn, Tange, Niemeyer ed Eldem, tutti a cavallo tra influenza internazionale e interpretazione della propria società.
Con gli anni ’70 le culture locali non occidentali vennero rivalutate, e fu permesso un uso maggiore del passato. Ciò portò all’incentivazione, in tutto il mondo meno sviluppato, di un moderno fuso con le immagini nazionali provenienti dal passato, come hanno fatto Bawa, Balkrishna Doshi, Dieste e de Leòn. Questo sforzo non era assolutamente ristretto alla sola ricerca di identità, ma era intrinseca nell’opera di grandi architetti come Wright, Le Corbusier, Aalto e Kahn prima, e di Utzon, Van Eyck e Coderch dopo. Creazioni come la prairie house di Wright, i complessi urbani di Aalto e le tarde opere di Le Corbusier e Kahn hanno avuto il merito di individuare i miti delle diverse società, fondendo locale e universalità, e per questo divennero eterna fonte di influenza.
Negli ultimi anni la standardizzazione globale e il crescente pluralismo di identità (non più corrispondenti ai confini nazionali, come Catalogna e Ticino) ha creato una situazione più confusa, mentre la base rurale tipica di molti paesi è stata spazzata via dalla crescente industrializzazione, con seri danni alle tradizioni vernacolari.
Il classicismo riemerso negli anni ’80, spesso legato ai regionalismi, è sintomo di questa preoccupazione per la distruzione delle radici, oltre che da una crisi generale del moderno e una voglia di ricominciare daccapo. Era un “regionalismo critico” (Frampton) che si discostava dal postmoderno (solo un’altra faccia della crisi), anche dai regionalismi nazionalistici anni ’30; si proponeva, invece, di recuperare e salvaguardare le antiche tradizioni minacciate dalla globalizzazione, come un romanticismo ottocentesco spogliato, però, del nazionalismo (Barragàn, Coderch, Botta, Siza, Ando).
Negli anni ’80 sorsero parecchi edifici capaci di rispondere perfettamente a clima, luogo e memoria, senza ignorare cambiamenti sociali e tecnologici; alcuni nascevano nel contrasto tra mondo urbano e rurale nei paesi in via di sviluppo, carichi anche della questione dell’identità, altri in angoli sperduti del mondo industrializzato, dove l’architettura indigena era ancora visibile, ma le culture natie seriamente minacciate.
La Ramada House di Chafee (1980), in Arizona, combinava spazio e struttura moderni con metodi antichi di sopravvivenza nel deserto, fortemente moderna nell’anima, ma perfettamente integrata con paesaggio e tradizione (ricoveri nomadi e abitazioni locali).
Erskine, invece, ricercò forme adatte alle condizioni climatiche dell’estrema Scandinavia, in un regionalismo “sub-artico”. Elaborò accorgimenti adatti a proteggere dalla neve e dalle bufere, a sfruttare la luce, a consentire la vita sociale in spazi chiusi per i mesi invernali. Doveva molto al “funzionalismo poetico” di Aalto e ai cicli naturali.
Fehn, per le stesse problematiche, sviluppò un’architettura essenziale e minimalista, fatta di piani, spesso seminterrata, facendo uso anche di calcestruzzo, legno, vetro e acciaio. La sua Galleria d’Arte (mai costruita) per Verdens End (fine del mondo) si inseriva nelle fenditure della costa rocciosa, affacciato sull’immensità dell’oceano e del cielo. Il suo Museo Norvegese dei Ghiacci ricordava, appunto, un relitto, o una lastra di pietra, incastonata nel ghiacciaio.
Quando il regionalismo si diffuse in Europa, spesso si limitò a imitazione populista o kitsch vernacolare, ma in alcune regioni si ebbero sviluppi di buon livello, come per il Canton Ticino di Botta e colleghi.
Lo stesso avvenne in Catalogna, dove sorse un moderno con accenti mediterranei (Lapena, Torres, Llinas, Ferrater), sulla scia di Gaudì e Coderch.
In Australia l’architettura domestica cercò di salvare le tradizioni morenti tramite un linguaggio nuovo, incastonato nel paesaggio culturale e naturale. La Palm House di Leplastrier, inserita in un tratto di foresta pluviale, ricordava un rifugio primitivo realizzato con materiali industriali. Murcutt rispose alle esigenze climatiche con esili strutture metalliche, ricoperte di lamiere, che ricordavano le capanne dei pastori e i rifugi degli aborigeni. Diede particolare attenzione alla ventilazione e alla luce naturale, che richiamava spesso il sole tra le foglie della foresta. Trasse ispirazione dallo studio delle foglie, che in Australia, anziché seguire il sole, cercavano di mostrargli meno superficie possibile.
In Giappone l’architetto Ando riuscì, utilizzando strumenti moderni, a ripristinare l’unità tra casa e natura che era presente nell’architettura giapponese prima dell’industrializzazione. Contrapponeva un minimalismo visivo alla confusione della megalopoli moderna, per una intimità che riportava al contatto con la natura, con sé stessi e con la tradizione.
Nei paesi che uscivano dall’occupazione coloniale, invece, ebbe più importanza la ricerca di identità e il recupero delle tradizioni locali. Si predilessero forme simboliche radicate nel passato alle forme internazionali, e il risultato fu, a volte, una superficiale storicità (simile al postmoderno occidentale), e, altre volte, espressioni moderne delle tradizioni locali. Bisognava fondere vecchio e nuovo, e scavare nella storia alla ricerca di un punto di riferimento: ogni generazione sceglie il passato dal quale desidera attingere.
La ricerca di identità presupponeva un linguaggio comprensibile, e, nel 1980, Bawa, progettando il Parlamento dello Sri Lanka, si rapportò al problema di fornire un simbolo democratico nazionale a uno stato post-coloniale ricco di caste, religioni e culture. Lo costruì su un’isola raggiunta da una cerimoniosa strada rialzata, ed evocava un tempio orientale ed allo stesso tempo un villaggio. Mescolava materiali industriali e artigianali, e rispondeva perfettamente alle aspettative di una società alla ricerca di un’immagine di sé stessa.
Purtroppo questa formula “tradizionale” non andava bene sempre, a causa della rapida urbanizzazione, e, per il Ministero degli Affari Esteri dell’Arabia Saudita l’architetto svedese Larsen elaborò una fusione tra semplicità moderna, allusioni regionali e riferimenti islamici, e risolse il ruolo di “porta della nazione” nei confronti dei diplomatici stranieri in modo che riflettesse i rigidi valori morali del paese e il ruolo di primo piano dell’Arabia Saudita tra i paesi islamici. L’imponente struttura ricordava una fortezza tradizionale, ma includeva ogni lusso tecnologico, con un soffitto sospeso sulla sala principale. Era un’opera decisamente eclettica, vicina al neorazionalismo italiano, con alla base la casa araba, fatta di muri che escludevano il calore e gli sguardi indiscreti, e di giardini e fontane. L’edificio era la perfetta espressione di un cauto equilibrio tra occidentalizzazione e tradizionalismo.
Altre tipologie di edifici, come i grattacieli, sono viste come “internazionali”, ma ci sono stati anche dei tentativi di “regionalizzarli”. La Banca Nazionale del Commercio, in Arabia Saudita, di Bunshaft, fondeva la tipologia internazionale con i principi relativi ai climi caldi e alle tempeste di sabbia. Era a pianta triangolare, ricolto, come la prua di una nave, verso il mare. Riprendeva i principi di ventilazione naturale tradizionali.
In paesi come India e Messico l’architettura moderna aveva già una propria tradizione, e fu possibile, quindi, sviluppare temi precedenti.
Il moderno del Messico era di grandi proporzioni, di un’astratta monumentalità, abbastanza legato al passato.
Logorreta continuava a esprimere il suo linguaggio di ampi volumi, pareti colorate e aree cintate, traendo ispirazione da Barragàn.
De Leòn, commissionando molte opere pubbliche, fu caratterizzato da un linguaggio chiaramente monumentale e retorico. Ispirato al tardo Le Corbusier, era molto legato al passato precolombiano (Maya) della sua terra, che cercava di fondere con la cultura occidentale. La sua Corte Suprema, a Città del Messico, incarnava la monumentalità dell’edificio pubblico imponente ma aperto e accogliente. Discendente della Corte Suprema di Chandigarh, aveva la geometria ripetitiva di Rossi. L’edificio raccoglieva elementi universalizzanti, come portico, piattaforma e sala ipostila.
Anche Salmona, in Colombia, si ispirava a Le Corbusier, ma basandosi sulle costruzioni indigene in mattoni. La concezione dello spazio era araba, e ciò è spiegato dal fatto che la prima colonizzazione colombiana fu proprio quella proveniente dal sud della Spagna.
In India moderno e antico, regionale e internazionale si fondevano a perfezione, grazie soprattutto alla direzione fatta intraprendere loro dalle opere di Le Corbusier e Kahn, e al nuovo e ravvivato interesse per la propria cultura del passato.
Correa, allontanatosi lentamente dall’influenza dei due maestri, elaborò un linguaggio nuovo, ricco di tradizionali terrazze e piattaforme, cortili e aria aperta, balconi e aggetti, ventilazione naturale e riparo dal sole. La struttura, semplice e in calcestruzzo, era tipicamente moderna. Le sue piante ricordavano i mandala, spesso legati alle forme tradizionali indiane. Correa sosteneva che le forme che generavano l’architettura erano cultura (immortale e costante), aspirazioni (variabili e dinamiche), clima (immutabile e fonte di tutto) e tecnologia (cambia col tempo, e fa cambiare l’architettura).
In India anche l’urbanistica generava grande interesse, soprattutto per risolvere il problema dell’urbanizzazione di massa. Il complesso residenziale Asian Games Housing di Rewal era basato sull’aggregazione di edifici in corti e zone cintate, con portali tra le diverse aree. Gli elementi erano pochi e standardizzati, ma la loro collocazione e modifica creava una grande varietà. Tutta l’architettura di Rewal era fatta di giardini e cortili, portali e passaggi, terrazzi e livelli diversi, rievocando gli schemi del passato senza imitarli superficialmente.
Il problema dell’urbanizzazione selvaggia, però, aveva raggiunto ormai proporzioni talmente grandi che nessun piano architettonico avrebbe potuto nulla. Doshi e Correa cercarono di risolvere il problema, individuando, nell’abusivismo urbano, un nuovo vernacolo. La loro urbanistica riprendeva l’utopismo di Le Corbusier, ma adattandolo profondamente alla tradizione indiana.
Lo studio di Doshi, Sangath, era il manifesto di una nuova architettura indiana, moderna ma radicata nelle tradizioni e nel clima, riferendosi ad “elementi costanti dell’architettura indiana: la piazza del villaggio, il bazar e il cortile”. Il profilo era in piena sintonia col paesaggio (basse volte parallele) e in rapporto con l’uomo ( modulor), mentre la pianta era quasi labirintica, come nei vecchi templi indiani.

Questo interesse degli anni ’80 verso il carattere proprio dei luoghi era la reazione alla perdita di radici provocata dalla industrializzazione globalizzata, ma le strategie adottate non erano nuove: la fusione tra idee architettoniche internazionali e locali era presente nel mondo già da decenni.






CAPITOLO 35
Tecnologia, astrazione e idee di natura
L’architettura del tardo XX secolo è stata caratterizzata da pluralismo culturale e varietà geografica, ma ciò non significa che non ci siano schemi più ampi e linee di sviluppo comuni.

HIGH TECH
Una corrente appartenente al ramo “moderno” è quella high tech, comprendente Foster, Rogers e Piano (gli ultimi due progettisti del Centre Pompidou). Condividevano una dedizione alla poetica della struttura, e nascevano dall’ingegneria del XIX secolo.
Il Lloyds Building di Rogers era quasi romantico, nella sua esaltazione della tecnica, mentre le opere dell’ex socio Piano erano più funzionaliste e razionaliste (la forma derivava solamente da struttura e funzione). Foster era a metà strada: idealizzava la tecnologia a mezzo per fondere natura e uomo. La sua Hong Kong e Shangai Bank era in contrasto con la solita tipologia del palazzo alto: anziché sviluppato attorno ad un cuore centrale, era aperto, con un atrio verticale in mezzo e tutti i sistemi sugli spigoli o addirittura esterni all’edificio (+ stabile ai monsoni). Il corpo era sollevato su sostegni per lasciare libera la strada, e una lente convogliava i raggi del sole all’interno dell’edificio. La Menil Collection di Piano era alta tecnologia senza esibizionismo tecnocratico, e allo stesso tempo alto artigianato. Una sottile struttura metallica sosteneva delle “foglie” di ferro-cemento, che filtravano la luce, ispirate al Kimbell Art Museum di Kahn. La bassa struttura a misura d’uomo, con balconi e verande, si adattava perfettamente all’ambiente texano.
Il movimento High Tech si è confrontato col tema della tecnologia, tra utopismo e materialità, e, al fianco del postmoderno, conobbe il successo commerciale, dopo aver concentrando l’attenzione del pubblico sullo styling anziché sulla struttura e sulla funzionalità (consumismo).

DECOSTRUTTIVISMO
Con l’espansione della città diffusa, che aveva ormai ingoiato la campagna, le tipologie tradizionali passarono in secondo piano, e, tra l’esaurirsi del postmoderno e del neorazionalismo, si sviluppò una nuova “moda”, fatta di astrattismo e minimalismo, frammentazione e dinamicità, espressione della perdita di radici e della dissoluzione del tardo XX secolo (filosofia della “decostruzione”).
Figura seminale fu l’americano Frank Gehry. La sua opera prendeva molto dall’immediatezza della California e dai contatti con gli artisti locali, ma andava, in modo del tutto universale, oltre il moderno, verso una concezione dl mondo fatta di confusione e sradicatezza. Rispondeva all’inquietante megalopoli non con il rifugio, né con la tradizione, ma con una frammentazione confusa, un assemblaggio quasi forzato. I suoi edifici erano ricchi di tensioni visive, piani non ortogonali, volumi inclinati, materiali assemblati senza ordine, casualità e geometrie spezzate. La sua opera, per quanto personale e priva di manifesti programmatici, trovò un clima di incertezza diffusa pronto ad accoglierla.
Altro filone sul tema dell’astrazione e della frammentazione fu quello dei “neo-moderni” Meier e Eisenman (ex NY five). Lo stile di Meier si basava su strutture spezzate, rampe intrecciate e luminosità irregolare, ma si esaurì presto, come dimostra la sua opera tarda per la Sede di Canal Plus (’91), semplice e in pieno stile Le Corbusier. Eisenman cercò prima di rivalutare il moderno sulla East Coast americana (dove era stato da tempo abbandonato), poi sviluppò un linguaggio fatto di griglie e geometrie slegate dal territorio e senza un’apparente giustificazione funzionale, per un vocabolario anti-classico nella struttura e ricercatamente casuale nei riferimenti (luogo e tradizione non avevano più significato).
Il Parc de la Villette di Parigi, di Tschumi, era invece l’esempio di un altro ramo neomoderno, basato sulla parodia delle vecchie forme utopiche, in questo caso il meccanicismo costruttivista degli anni ’20. Come voleva Mitterand, rifiutava ogni concezione romantica della natura, per un nuovo paesaggio del XXI secolo. Il parco era strutturato su linee, assi e confini, con un astrattismo che arrivava ad evocare, con dei ricorrenti cubi rossi, gli stand di propaganda sovietica anni ’20. Questi cubi erano come irridenti giocattoli giganti, arbitrari nella forma, disposti casualmente per il parco.
Questo ambiente diffuso, vicino alla filosofia della “decostruzione”, ironizzava sulle utopie del passato, incapaci di fornire veramente rapporti profondi tra forma e funzione che promettevano, ma non era in grado di dar forma a ideali propri: come il collage, essi “utilizzavano le cose senza prestar loro fede”.
L’olandese Koolhaas elaborò un linguaggio fatto di sospensione, illusione, trasparenza e leggerezza, senza gusto tecnocratico, era anzi dubbioso nei confronti dell’industrializzazione, ed esprimeva questa sua critica con sottili ironie evocative.
In realtà questo “decostruttivismo” aveva confini ben poco chiari: gli autori più noti erano tutti estremamente diversi fra loro, ed ognuno spaziava in questi ampi confini per soddisfare i propri propositi, diversi da quelli degli altri.
L’architettura moderna in Giappone degli anni ’80 e ’90 rivelava differenti modalità di reazione alla rapida trasformazione tecnologica dell’ambiente. Maki si rifugiò in audaci soluzioni strutturali e alto artigianato locale di acciaio, vetro, plastica e calcestruzzo, espressione di una società in equilibrio tra dedizione tecnologica e rispetto per la tradizione.
Ando riaffermò il legame con la natura, con edifici quasi minimalisti, fatti per completare ed esaltare lo sfondo paesaggistico.
Anche in Francia l’architettura moderna degli anni ’80 combinò posizioni spesso anche contrastanti, influenzata, nel complesso, da un rinnovato interesse per il significato della città, per le opere seminali del moderno e dalla spinta promotrice nel settore pubblico ed istituzionale del governo socialista (a differenza dei “privatizzati” Stati Uniti e Inghilterra). I grand projet di Mitterand ridisegnarono la capitale, spesso caratterizzati da geometrie secche, piani trasparenti, dettagli meccanicisti e forme derivate dal primo moderno e dal costruttivismo sovietico. La Citè de la Musique di de Portzamparc era fortemente frammentaria, e creava un’ideale portale per il Parc de la Villette. L’Insitut du Monde Arabe di Nouvel combinava le geometrie preesistenti sulla Senna con due corpi, uno curvo e uno trasparente, intorno ad un cortile, in uno stile elegante e teatralmente high tech (macchinari a vista, acciaio, elettronica). La Grande Arche de la Defense, di Von Spreckelsen, quasi un parallelo dell’Arco di Trionfo, sembrava orientarsi verso la Torre Eiffel (monumento del centenario della rivoluzione), il monumento dell’età dell’informazione elettronica collegato a quello dell’età del vapore e dell’acciaio. L’arco simboleggiava una porta tra microchip, con una struttura tensostatica che stava a simboleggiare un flusso di energia.
Nonostante questo fervore a Parigi, gli edifici più interessanti furono realizzati nelle province, come il Musèe de l’Arles Antique di Ciriani. A pianta triangolare, sviluppava il tema della promenade di Le Corbusier, per mezzo di rampe tra pilotis. Il Museo del Centro Archeologico Europeo di Faloci è anch’esso astratto, ma attento al contesto rurale. Rendeva l’idea delle diverse stratificazioni temporali, e metteva in contatto con le vicine rovine romane e celtiche.
In Finlandia l’architettura moderna continuò a riferirsi ad uno stato sociale industrializzato, con un costante dialogo col paesaggio circostante. La monumentalità classica era del tutto estranea, e il modello istituzionale continuò ad essere quello elaborato da Aalto. Il moderno, carico qui di significati i identità nazionale, era ancora forte, e non conobbe la crisi che afflisse invece quello europeo in genere. Negli anni ’80 ci fu una ricerca in reazione alla standardizzazione, e anche qui i punti di vista furono diversi.
Reima e Pietila si basarono su analogie naturali, Gullichsen credeva nella reinterpretazione del miglior moderno (un vero eclettismo moderno), Heikkenen e Komonen mescolarono l’astrazione proveniente dal continente con le caratteristiche geografiche e la Natura in sé: un edificio riprendeva l’arcobaleno nella sua vetrata a riflessi varianti, un altro, al circolo polare artico, aveva un grande 8 per terra a rappresentare il percorso annuale del sole a mezzogiorno.
Leiviska, invece, era di un moderno non tecnologico, ma puramente tradizionale, con pareti in mattoni e soffitti di legno. I suoi edifici religiosi incarnavano anche una particolare sensibilità per la forza spirituale della natura e dell’uso della luce.
Il Padiglione finlandese per l’Esposizione Mondiale di Siviglia del 1992 fu progettato da un gruppo di giovani architetti, chiamati MONARK. Un volume in acciaio lucido affiancato da un elemento curvo di onnipresente legno, un contrasto tra materiali industriali e naturali che creava una sorta di cratere, uno spazio dai poteri rigeneranti.
Il termine astrazione fu spesso, negli anni ’80, sinonimo di vuoto formalismo, ma, in realtà, molti architetti lo utilizzarono per creare opere di ottimo livello. L’americano Holl resistette a postmoderno e decostruttivismo, per impegnarsi poi in un’astrazione vicina alla natura e ai luoghi, con una stretta corrispondenza tra forma e concetto.
Gli svizzeri Herzog e de Meuron cercarono un legame poetico tra forma, struttura, idea e contesto, ma senza ricorrere a scontati riferimenti ambientali. La loro astrazione, basata su semplici forme moderne, era evocativa di mondo classico, naturale e tradizionale, ma in modo non evidente. Il loro panteismo e naturalismo era rilevabile solo a livello strutturale, mai analogico o figurativo.
Questa architettura svizzera era la risposta al kitsch e al finto neomoderno consumistico, a altrettanto accadde in tutto il mondo, sfociando spesso anche nel minimalismo.
L’architettura del tardo XX secolo in Spagna riuscì ad evitare immediati tradizionalismi e superficiali neomoderni, per un’architettura aperta alle sperimentazioni e indirizzata, per lo più, alla città. Era un moderno saldo e radicato, forte di predecessori come Sert, de la Sota, Coderch e de Oiza. L’ high tech fu quasi del tutto estraneo qui. L’interesse per l’urbanistica si attivò contro l’azione distruttiva dello sviluppo industriale, spesso in direzioni astratte, razionalistiche e minimaliste. Rispondeva alle esigenze regionali senza essere sfacciatamente regionalista.
Risentì dell’influenza del portoghese Siza, astratto ma legato a loco e paesaggio.
I molteplici moderni della fine del XX secolo furono raramente inseriti in progetti sociali di grande scala, e quindi poterono poco per salvare la città e la campagna dalla dissoluzione causata dall’industrializzazione. Forse proprio questa era una spinta ispiratrice, perché l’architettura moderna trovò terreno fertile proprio lì dove lo scontro tra interessi pubblici e privati era più duro, soprattutto nelle democrazie sociali. Le diverse problematiche locali continuarono a suggerire soluzioni “regionaliste”, ma allo stesso tempo un sentimento comune e universalizzante accomunatagli architetti di tutto il mondo, abitanti di un pianeta diviso ma uguale, colpito da sconvolgimenti come il crollo del comunismo, la crisi ecologica e i conflitti religiosi. Questo periodo non suggeriva più le ottimistiche ed utopistiche percezioni del “primo periodo eroico”, ma erano più realistiche e realizzabili, spesso orientati alla creazione di microcosmi in opposizione al ritmo del mondo.
Nonostante le convinzioni e le sensazioni di cambiamento, in realtà l’architettura era in una fase ancora un po’ “passiva”, visto che tutto nasceva, ancora adesso, dalle innovazioni della prima metà del secolo, e la continuità era ben più forte e durevole di quanto si pensasse.






CAPITOLO 36
Conclusione: modernità, tradizione, autenticità
Con la prima architettura moderna si diffuse la convinzione che finalmente si era raggiunto un genuino stile moderno, soluzione a un problema vecchio di un secolo. Sicuramente lo trattarono troppo “monoliticamente” e ne sottovalutarono i legami col passato, ma ebbero ragione a sottolinearne il carattere epico e pionieristico. Le sue implicazioni non si sono tutt’oggi ancora esaurite, anzi continua a dare vita a nuove interpretazioni. E’ stata una grande trasformazione mondiale, universalizzante, rivitalizzante per l’architettura stessa. Fuse idealismo e progresso, scienza e storia, città e natura, anche se fallendo in molti sforzi utopici, sconfitto da industrializzazione e globalizzazione e partecipe della dissoluzione provocata dal progresso.
I temi base dell’architettura moderna raggiunsero la chiarezza tale da generare le regole del movimento intorno agli anni ’20, periodo di straordinaria intensità creativa. Questi momenti d’oro, nella storia dell’architettura, sono quasi casuali, e nascono da coincidenze di talento, committenza, fortuna e contesto culturale. La generazione che maturò dopo la seconda guerra comprendeva elementi del calibro di Le Corbusier, Gropius, Mies van der Rohe, generazione che aveva ereditato l’ossessione della definizione di un linguaggio moderno dai predecessori Wright, Mackintosh, Behrens e Perret, ma erano animati anche da un universale progressismo sociale, spesso sfociato in utopismo.
Questa breve coincidenza di condizioni favorevoli fu in grado di generare nuove basi formali, spaziali, strutturali e simboliche, che sarebbero rimaste invariate (solamente ricombinate e reinterpretate) fino ai giorni nostri.
La generazione che ereditò la scena fin dagli anni ’30 (Aalto, Barragàn, Terragni, Niemeyer, Lubetkin, ecc…) assorbì i principi del periodo “eroico” estendendone gli insegnamenti, e nemmeno la guerra fu in grado di cambiarli. Più tardi le idee espresse negli anni ’20 ispirarono la sperimentazione di artisti come il Team X, Kahn, Van Eyck, Tange, Utzon e Lasdun, e anche i primi scialbi grattacieli eredi dei progetti degli anni ’20. Lo stesso postmoderno era in realtà un’altra espressione del moderno, solo un “cambio d’abiti”, mentre i maestri del moderno, come Wright e Le Corbusier, erano stati in grado di rivoluzionare i linguaggi in modo permanente, offrendo una base di lavoro a geni come a imbecilli: ormai è la tradizione dominante del nostro tempo. In realtà è una tradizione molto sfaccettata e dinamica, ricca di personalità e regionalismi, e il talento del singolo sta nel reinterpretate in modo personale e adeguato al contesto gli insegnamenti del passato. Quando sarà inadeguato alle nuove necessità, lo stile corrente verrà anche scartato, così come è successo con la rivoluzione industriale e la nascita del Movimento Moderno, ma l’architettura moderna è, in realtà, molto più adeguata al nostro contesto di quanto possa sembrare, tanto da non permettere una sperimentazione che non ne tenga conto come base da cui partire.
I più grandi esempi di architettura moderna hanno una profondità che li imparenta con le più grandi opere del passato, come la Robie House, la Ville Savoye, il Padiglione di Barcellona, il Centro Civico di Saynatsalo, il Kimbell Art Museum, la Chiesa di Bagsvaerd e la Sala Congressi di Salamanca, opere per cui sarebbe riduttivo inscriverle strettamente nel movimento moderno.
Dalla seconda metà del settecento e il primo ventennio dell’ottocento (Galilei e Newton) abbiamo una diffusione del pensiero scientifico. Le macchine contribuirono a questo e nacque la rivoluzione industriale. Chi prestava il proprio lavoro, gli operai, ricchi solo di prole, veniva definito proletario, le cui condizioni di vita erano malsane. Da qua nacque tra il 1815 e il 1848 il socialismo. Con l’industrializzazione arrivarono anche nuove idee ottimistiche. Le tenebre nelle quali l’uomo si dibatteva sarebbero state rischiarate dalla luce della ragione; da ciò il termine di Illuminismo, caratterizzante il diciottesimo secolo. Motto dell’illuminismo: abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant). Le idee dell’illuminismo erano fiducia nel progresso, creazione di una società giusta, uguaglianza di tutti gli uomini, tolleranza politica e religiosa, internazionalismo della cultura. I sovrani andarono incontro alle esigenze dei sudditi senza rinunciare al proprio potere assoluto.
Boullè fu l’architetto che tra gli anni settanta e novanta del settecento ruppe con il barocco e il rococò. Nacque a Parigi nel 1728. Affida la sua architettura alle figure geometriche semplici esaltando la sfera. Si riferisce a soggetti classici (egitto, oriente) per prendere in prestito forme note. Evita le decorazioni; l’unico motivo decorativo sono le ombre forti e profonde.
Nel mezzo del neoclassicismo apparve un veneto, Piranesi (1720-1778), dell’opinione che i romani non dovessero nulla ai greci, ai quali erano anzi superiori. Come Boullè rendeva la solennità delle forme semplici per mezzo di scenari grandiosi entro i quali l’uomo appariva.
Il neoclassicismo è la logica conseguenza sulle arti del pensiero illuminista. Assieme al rifiuto degli eccessi del barocco e del rococò guardava all’arte dell’antichità classica, specie alla grecia. Nacque intorno alla fine dell’ottocento; comunica un desiderio di ritorno all’antico. Il movimento ebbe come sede privilegiata Roma, fonte inesauribile d’ispirazione classica. L’unica via per diventare grandi era l’imitazione degli antichi. Ma l’imitazione è una cosa diversa dalla copia; imitare significa ispirarsi, il copiare prevede un’opera identica all’originale.
Il neoclassicismo rifiuta l’ornamento barocco: l’architettura deve essere espressione della sua funzione.
Nel congresso di Vienna (1815) si ebbe la definitiva restaurazione dell’Ancient regime.
Il Romanticismo fu un complesso movimento diffusosi in europa tra la fine del settecento e i primi decenni dell’ottocento. L’ideologia romantica è il prodotto di una società in grave crisi economica e sociale, con problemi sia dalla crescente industrializzazione sia dalla restaurazione politica. La borghesia, preoccupata dal ristabilirsi del predominio aristocratico, e gli intellettuali, che intuivano l’impossibilità storica di un ritorno al passato, divennero i punti di riferimento di un’opposizione che mirava a sostituire le monarchie assolute con monarchie costituzionali. Intanto cresceva il malessere negli strati più bassi della popolazione e nacquero moti di rivolta. I fini del congresso di Vienna furono di richiudere politicamente e culturalmente ogni stato all’interno dei propri confini prerivoluzionari; questo fece si che venissero meno anche gli ideali di universalità della cultura illuminista e dell’arte neoclassica. Il concetto di popolo che esalta il romanticismo è quello legato all’idea di nazione, ovvero individui legati fra loro da vincoli indissolubili. Se noi siamo quello che siamo lo dobbiamo soprattutto all’ambiente in cui abbiamo vissuto e nel quale siamo cresciuti. Il nostro presente è profondamente intriso nel nostro passato, ma non passato remoto, astratto e indifferenziato al quale faceva riferimento il neoclassicismo, ma il nostro passato più prossimo, più vicino, più vero. Prima in germania, poi in francia, Inghilterra e italia, il romanticismo si contrappone con il neoclassicismo e con tutta la cultura del razionalismo illuminista. Quest’ultimo fa riferimento ad un passato ideale (antichità greco-romana), il movimento romantico cerca le proprie radici nel più vicino medioevo. La fede, il sentimento, l’irrazionalità che il secolo dei lumi aveva condannato e bandito riaffiorano ora in mille forme. Sul piano politico abbiamo una compattazione nazionalistica e la formazione dei grandi stati nazionali. Sul piano architettonico il neoclassicismo lascerà il passo allo storicismo e all’eclettismo, una tendenza ad ispirarsi a fonti artistiche anche di epoche diverse operando una scelta degli elementi ritenuti migliori.
Neoclassicismo e romanticismo sono due fasi di uno stesso processo storico; sembrando contrapposte sono in realtà connesse sul piano artistico e culturale. Il neoclassicismo si fa promotore del ritorno all’ordine, ispirandosi a modelli classici; il romanticismo esalta la fantasia, la sensibilità personale e la malinconia, rifiutando tutto ciò che si poteva ricollegare con il razionalismo illuminista, base del neoclassicismo. Tuttavia entrambi sono caratterizzati da un timore del presente e dal rifiuto dei suoi aspetti più veri e concreti. Si ha una costante ricerca di forme espressive in gradi di far evadere dall’insoddisfazione di un oggi in rapida evoluzione. Neoclassicismo, greco-romani; romanticismo, medioevo.
Tra il 1855 e il 1867 nasce il fenomeno dei macchiaioli che avrà influssi fino al nostro secolo. La macchia in opposizione alla forma.
La forte industrializzazione intorno alla metà del diciannovesimo secolo è la causa e l’effetto del momento di maggior sviluppo tecnologico che l’umanità avesse mai conosciuto. La produzione dei materiali da costruzione conobbe un nuovo impulso grazie ai nuovi processi di fusione ad altissime temperature, il coke, gli impianti siderurgici e le travi e altri elementi di ferro di dimensioni e resistenza tali da poter essere utilizzati in campo edilizio. Le ghise, l’acciaio e il vetro rivoluzionano sia il modo di costruire che le tipologie degli edifici. Elementi come archi e volte diventano obsoleti; in crisi anche la figura dell’architetto, abituato a progettare secondo le regole della tradizione, che si trova a dover fare i conti con materiali che non conosce. Intorno alla metà del secolo emerge una nuova figura professionale, l’ingegnere. La sua preparazione è più tecnica che artistica, studia la ghisa e l’acciaio per mezzo di calcoli matematici. Gli ingegneri diventano così gli unici in grado di intendere e interpretare le leggi interne della materia. L’architettura del ferro ebbe modo di esprimersi nelle grandi strutture come ponti, viadotti, stazioni ferroviarie e padiglioni espositivi. Questi ultimi in occasione delle esposizioni universali diedero gli esiti più straordinari a partire dal 1851. Era necessario allestire in tempi relativamente brevi padiglioni tanto ampi da poter contenere i materiali delle mostre. Le strutture in ferro e vetro potevano rispondere a tali esigenze. La prima esposizione universale si tenne nel 1851 a londra. Per celebrare quest’evento si ebbe un concorso internazionale per la costruzione di un padiglione da collocare al centro di una delle zone più verdi della capitale, tra hide park e kenningston garden. Tra i 245 progetti vinse paxton, un costruttore di serre che realizzò una faraonica struttura in ghisa e vetro, che con oltre 77000 metri quadrati di superficie sarebbe stato lo spazio più vasto mai coperto da una costruzione. L’impresa, impensabile senza utilizzare le nuove tecnologie, fu portata a termine in pochi mesi tra lo stupore generale. Il Palazzo di cristallo è composto da una navata centrale gradinata lunga oltre mezzo chilometro, una grande volta a botte in ghisa e vetro, appositamente costruita per non abbattere alcuni alberi secolari del parco. L’opera fu resa possibile dal fatto che i diversi elementi strutturali, avendo forme geometriche sempre ricorrenti, poterono essere realizzati in serie commissionandoli a varie fonderie. Dopo l’esposizione l’edificio fu smontato e rimontato a sydenham, alla periferia di londra; nel 1937 fu distrutto da uno spaventoso incendio. Nel giro di un anno fu comunque smontato e rimontato due volte, simbolo di maneggevolezza e riutilizzabilità , punto di forza di ogni successiva struttura in ferro. Per le altre esposizioni si realizzarono padiglioni sempre più giganteschi, strutture più snelle ed economiche e forme più ardite ed esteticamente valide. Le esposizioni si susseguono fino ad arrivare addirittura a tre in un solo anno. Nel 1889, in occasione del primo centenario della rivoluzione, Parigi ospita la sua terza esposizione universale. Fu allestita negli spazi erbosi del campo di marte ed era composta di tre diverse strutture: il palazzo, una massiccia costruzione ad u, la galleria delle macchine e la torre eiffel. La galleria delle macchine fu progettata da dutert che si avvalse di tre ingegneri per il calcolo delle strutture, inaugurando la collaborazione professionale. Presenta soluzioni tecniche più ardite del palazzo di cristallo. Il vastissimo ambiente (48300 metri quadrati) è coperto da una serie di enormi arconi a campata unica, cioè senza pilastri o altri appoggi intermedi, ovvero l’arco a tre cerniere (suolo e vertice). Per ingentilire la struttura usa elementi decorativi in lamiera sagomata e lastre di maiolica dipinte. La costruzione simbolo è la torre di 300 metri d’altezza che per l’epoca è la costrizione più alta della terra; la sagoma serviva a contrastare l’azione del vento. Per la prima volta in architettura è la natura a determinare le forme più idonee. Si regge su quattro piloni reticolari per scaricare l’enorme peso. L’essenzialità della struttura e la precisa motivazione funzionale rende superfluo ogni intervento decorativo. Chiusasi l’esposizione la torre non verrà smontata. In italia la rivoluzione industriale arriva tardivamente per la volontà di uniformarsi a una linea di tendenza che sta andando in tutte le altre capitali europee. Gli architetti italiani però sono tutti di formazione accademica e quindi anche nell’usare ferro e ghise non riescono ad abbandonare il decorativismo che invece di migliorare l’aspetto finisce per appesantire le strutture. Tra le architetture in ferro italiane appare a parte la galleria di vittorio Emanuele 2 di milano realizzata da mengoni tra il 1865 e il 1878. egli in realtà vinse il concorso del 1861 per il totale rifacimento di piazza del duomo. La galleria fu pensata come una unica navata intersecata al centro da una più corta. I quattro bracci erano ricoperti con volte di ghisa e vetro per arrivare ad un ottagono centrale.
Attorno agli anni trenta dell’ottocento con viollet-le-duc cominciò ad affermarsi una nuova concezione del restauro, in stile; il nuovo non doveva distinguersi dall’esistente.
Nel 1870 in Francia si proclamò la terza repubblica, favorendo l’ascesa di una borghesia moderata e conservatrice. Parigi consolida il proprio aspetto borghese e festoso arricchendosi di teatri, musei, ristoranti, sale da ballo, casinò e soprattutto caffè. Ovunque erano novità e progresso: dalle imponenti stazioni ferroviarie in acciaio e vetro fino ai primi grandi magazzini con all’interno avveniristici ascensori a vapore. Senza Parigi l’impressionismo non sarebbe potuto esistere, e senza l’impressionismo non sarebbe nata la belle epoque, periodo tra la fine dell’ottocento e l’inizio della prima guerra mondiale, e fa riferimento al benessere economico e alla vita spensierata che caratterizzava la classe borghese del tempo. Forte sensibilità verso il progresso tecnico e scientifico. L’impressionismo non è organizzato ne preordinato e si costituisce piuttosto per aggregazione spontanea; giovani artisti che avevano una gran voglia di fare iniziarono a riunirsi al cafè guerbois. Il movimento impressionista è privo di una base culturale omogenea perché i vari aderenti provenivano da esperienze artistiche e da realtà sociali fra le più disparate. Nella pittura abbiamo il diverso modo di porsi con la realtà esterna, tutto ciò che percepiamo con i nostri occhi continua al di la del nostro campo visivo; nei loro dipinti vi è la quasi totale abolizione della prospettiva geometrica. Ciò che più conta è l’impressione che un determinato stimolo esterno suscita nell’artista; si tendono ad abolire i forti contrasti chiaroscuri e a dissolvere il colore locale. Gli impressionisti cercano di rendere il senso della mobilità delle cose. A questo ha contribuito non poco l’invenzione della fotografia. Come data precisa d’inizio del movimento impressionista abbiamo il 15 aprile 1874.
Le tendenze post-impressionistiche sono quegli orientamenti artistici che si sviluppano in francia nell’ultimo ventennio dell’ottocento e che ebbero ripercussioni su tutta l’europa e che furono fondamentali per la nascita dell’arte del novecento. Alla base vi era la conquista impressionistica della natura. Caratteristiche comuni ai post-impressionisti furono il rifiuto della semplice impressione visiva e la tendenza a cercare la solidità dell’immagine, la sicurezza del contorno, la certezza della libertà del colore.
Gli ultimi decenni dell’ottocento vedono il pieno sviluppo della seconda rivoluzione industriale che condurrà il vecchio continente verso il traguardo del nuovo secolo. Dopo la formazione degli stati nazionali l’europa vive un periodo di relativa stabilità politica; sono gli anni della cosiddetta belle epoche, con benessere economico prodotto dell’espansionismo capitalista. La maggior parte dei capitali è nelle mani di pochi e la modesta borghesia impiegatizia si deve accontentare solo delle briciole dei grandi proventi industriali. Il proletariato vive ancora in condizioni estremamente disagiate e precarie. Si otterrà una pace sociale che in cambio di modeste concessioni, consente di proseguire nella politica di espansionismo industriale e di colonizzazione. Si aprono così nuovi orizzonti economici fornendo materie prime e forza lavoro a costi concorrenziali. I paesi che non intraprendono vaste colonizzazioni nei paesi extraeuropei o che, come l’italia, colonizzano poco, rimangono quindi tagliate fuori dai mercati internazionali, costretti ad importare a prezzi alti. Il conflitto d’interessi anglo-tedesco, il contrasto austro-russo, la forte contrapposizione franco-tedesca sono alcune delle motivazioni che porteranno alla guerra a cui farà seguito il totale ridisegno di tutti gli equilibri politici ed economici d’europa.
Molte speranze erano riposte nella scienza per alleviare il duro lavoro dell’uomo a seguito della rivoluzione industriale. Tuttavia molte attività artigiane morirono per la concorrenza spietata dell’industria; le città si erano riempite di contadini urbanizzatisi per necessità. Ma l’operaio fu costretto ad abbandonare le proprie radici; il lavoro che gli veniva concesso era una massacrante fatica quotidiana senza ne un salario equo ne un’attività gratificante. Il lavoro era ripetitivo ed alienante. La grande esposizione del 1851 mostrava, accanto a pezzi altamente decorativi e costosi, una svilita produzione industriale di oggetti d’uso comune, rivelando le negatività della produzione in serie legata al basso costo e svincolata dall’arte. Si sentiva la necessità di un cambiamento radicale che riconsiderasse gli scopi stessi del lavoro operaio e la qualità dei manufatti industriali. Fu morris il primo ad occuparsi esclusivamente di arti decorative, le cosiddette arti minori. Riteneva che bisognasse restituire al lavoro operaio quella spiritualità e quel sentimento che erano stati eliminati dall’uso delle macchine; l’operaio, nel realizzare cose utili doveva farle anche belle. Tuttavia la produzione di morris, essendo di qualità, si rivolgeva ad una ristretta cerchia di persone, escludendo proprio quelle masse operaie che voleva beneficiare. Fondò così la “arts and craft exhibition society”, un’associazione di arti e mestieri che si prefiggeva di conciliare la produzione industriale con l’arte. Lo scopo era di consentire ai meno abbienti di acquistare oggetti d’uso comune di buona qualità e a basso prezzo.
Il decorativismo era il presupposto immediato dell’art nouveau. Gli oggetti sfornati dall’industria, tutti rigorosamente uguali e sempre rispondenti a precisi standard di finitura, perdono qualsiasi personalità; al loro minor costo si è dovuto sacrificare tutta una serie di raffinatezze lavorative e di riguardi estetici. La quantità ha sopraffatto la qualità. Dare dignità artistica al prodotto industriale significa rispondere a due importanti esigenze; la prima di ordine economico (l’innalzamento del livello estetico dei prodotti porta all’apertura di un mercato della media e piccola borghesia), la seconda è di porre le basi per un’arte diversa e moderna, in linea con il progresso ma al tempo stesso capace di recuperare quei valori ideali e fantastici. L’art nouveau è la risposta che la cultura europea, stanca dello storicismo eclettico, da al disagio del proprio tempo. Il termine indica i contenuti rivoluzionari che si vogliono esprimere. È così che l’art noouveau diventa in breve l’arte della belle epoque. In ogni paese d’europa l’art nouveau si sviluppa in modo diverso, al fine di meglio interpretare quel desiderio di novità che è insito nel suo stesso nome. E anche i nomi, naturalmente, cambiano. Art nouveau è quello francese e deriva dall’insegna di un negozio di arredamento d’avanguardia a Parigi;in italia prende il nome di liberty, da una ditta di arredamenti moderni, in germania jugendstil, in austria sezession, in belgio stile horta e in spagna modernismo. Nessun campo è stato immune all’art nouveau; il campo tessile, la moda, la ceramica e i vetri, la grafica. Victor Horta è il maggiore esponente dell’art nouveau in belgio. Nei suoi edifici c’è sempre la corrispondenza interno-esterno e funzione-forma, abolendo ogni riferimento di tipo storicistico. Usa molto il vetro, smaterializzando le pareti inondando di luce gli interni. A seconda dei vari paesi in cui si sviluppò , l’architettura art nouveau assume forme e soluzioni costruttive diverse. La sua costante sta nell’uso nuovo e funzionale del ferro e delle ghise. Sono le strutture stesse a diventare decorazione, attingendo spesso al fantasioso mondo vegetale e animale. Horta reinvesta la ringhiera usando il metallo in modo assolutamente anticonvenzionale ispirandosi al mondo vegetale.
L’ambiente viennese di fine secolo è per molti versi la vera e propria culla della cultura e del gusto art nouveau con architetti come Olbich, Wagner e Loos. Due particolari avvenimenti condizionano gli ultimi decenni del secolo: la creazione della kunstgewerbeschule e il sorgere della sezession. I corsi della kunstgewerbeschule nascono per unire ai consueti strumenti per la formazione artistica anche un bagaglio di nuove conoscenze tecniche relative all’uso dei materiali, alle loro caratteristiche e al loro impiego industriale. Artisti e artigiani lavorano fianco a fianco. A Vienna tra il 1898 e il 1899 viene costruito il palazzo della secessione di olbrich, allievo di Wagner. Partendo da una pianta quadrata da origine ad un semplice contenitore dalle pareti lisce e quasi disadorne, ad eccezione di un fregio floreale sotto il cornicione, porte e finestre si aprono con tagli netti e decisi, senza le cornici, le modanature o i timpani quali ci aveva abituato l’architettura eclettica. La grande invenzione decorativa è costituita da un’ampia cupola in rame dalle forma quasi sferica, traforata a motivi floreali e rilucente di lamine d’oro, contrasta con la chiara massa muraria e consente una diffusa illuminazione dall’alto dell’interno destinato ad uno spazio espositivo che non è ingombro di muri o elementi strutturali fissi e può dunque essere modificato. Mai edificio fu più consono alla sua funzione; divenne nuovo punto di riferimento per l’architettura moderna, divenuta ormai insofferente all’eclettismo fino ad allora dilagante. Loos combattè in ogni modo il concetto di decorazione in architettura. I tempi sono ormai maturi per l’avvento di una nuova architettura e totalmente funzionale, nella quale ogni decorazione sia definitivamente bandita in funzione della qualità prima che ogni architettura deve soddisfare: il benessere di chi vi abita. Nella casa per la famiglia steiner la semplicità geometrica, la funzionalità delle sue aperture, solo dove servono, la rinuncia a ogni estetismo in nome della semplicità e della comodità d’uso, già preludono il razionalismo.
L’espressionismo è una ben definita tendenza dell’avanguardia artistica del nostro secolo tra il 1905 e il 1925 nell’europa centro-settentrionale e soprattutto in germania. Come l’impressionismo rappresentava un moto dall’esterno verso l’interno, era cioè la realtà oggettiva a imprimersi nella coscienza dell’artista, l’espressionismo costituisce il moto inverso, dall’interno all’esterno: dall’anima interna dell’artista direttamente nella realtà.
La necessità di conquistare nuovi mercati e di ridisegnare i confini europei crea le premesse per la prima guerra mondiale, detta la grande guerra (1914-1918), che sancirà il definitivo termine della belle epoque e il primo affacciarsi sulla scena internazionale della nascente potenza degli stati uniti. Si aprirono nuovi orizzonti di ricerca, da quella scientifica con einstein a quella filosofica con bergson, che considera come slancio vitale l’impulso a creare spontaneamente forme e situazioni sempre nuove e imprevedibili. Anche il settore dell’arte si apre a un universo di ricerche e sperimentazioni mai tentate prima. Picasso e braque furono i fondatori del cubismo, il cui significato può riassumersi in “la pittura è dunque un equivalente della natura”. I pittori cubisti non cercano di compiacere il nostro occhio imitando la realtà ne, come facevano gli impressionisti, tentando di interpretare le suggestioni. Essi si sforzano di costruire una realtà nuova e diversa. Se la riproduzione prospettica di un qualsiasi oggetto può apparirci senza dubbio verosimile la verità di quell’oggetto è quanto mai lontana e diversa. Contrasto tra Vero-verosimile. La realtà che percepiamo attraverso il senso della vista è spesso diversa dalla realtà vera. I bambini sono involontariamente cubisti. La realtà cubista comprende anche il fattore tempo; per poter assumere punti di vista diversi occorre muoversi e per muoversi occorre tempo. Il nome del movimento deriva dall’uso cubista di scomporre la realtà in piani e volumi elementari (cubi). La data di inizio del cubismo si fa risalire al 1907. il periodi di massimo splendore inizia nel 1909. è il momento del cosiddetto cubismo analitico, scomporre i semplici oggetti dell’esperienza quotidiana secondo i principali piani che li compongono. Tra il 1912 e il 1913 è la fase del cubismo sintetico, dove appare l’equivalenza tra pittura e natura; l’artista cerca di creare forme che non hanno più alcun rapporto con quelle già note. Lo scoppio della prima guerra mondiale mette bruscamente fine alla grande stagione del cubismo. Esso, assieme al rinascimento, rappresenta uno dei momenti di svolta storica di tutta l’arte occidentale. Il cubismo è il figlio più vero del nostro secolo, perché ha aperto la strada a tutte le altre avanguardie artistiche.
Il manifesto del futurismo di marinetti appare per la prima volta a Parigi nel 1909. nasce così il futurismo che terminerà nel 1944. si assiste alla nascita di una nuova estetica della macchina e al tema futurista della velocità e della sua bellezza. Apparirono fenomeni di rinnovamento coincidenti con l’art nouveau, lo jugendstil e il liberty. L’italia di inizio secolo vive con ritardo una propria piccola rivoluzione industriale. Artefice principale dell’evoluzione dell’italia nei primi quindici anni del secolo è giolitti; da qua il periodo prende il nome di età giolittiana. Il futurismo, rispetto a tutte le altre proposte dell’avanguardia internazionale (come ad esempio il quasi contemporaneo cubismo o il dada o il surrealismo) è caratterizzato da una visione estetica che abbraccia l’intero modo di concepire la vita. Tra gli espedienti più originali abbiamo le serate futuriste. Elementi chiave sono il rifiuto della tradizione, privilegiare l’immagine del movimento. Il poeta futurista utilizza nuove immagini e inedite analogie; molto importante fu la rivoluzione tipografica mediante l’impiego contemporaneo di caratteri con forme e dimensioni diverse. Sul piano politico il futurismo apparve solo tra il 1918 e 1920; comincia con la fondazione di un partito politico futurista, culmina con un’alleanza con i fasci di combattimento di mussolini nel 1920 e si conclude quando nel 1920 marinetti scioglie questa alleanza per riportare il futurismo nei confini artistici. Mussolini diventa presidente del consiglio nel 1922 e dal 1924 instaura un regime totalitario che termina con la seconda guerra mondiale.
Sant’elia nasce a como nel 1888. lavora prima come disegnatore nell’ufficio tecnico del comune. Dal 1909 al 1911 inizia l’attività di architetto. Nel 1912 diventa professore di disegno architettonico a bologna. Nel 1941 aderisce al movimento futurista. L’anno dopo si arruola e muore in battaglia nel 1916. l’originale contributo di sant’elia al futurismo è costituito da molti schizzi e disegni, con la necessità di dare forma leggibile a un’architettura vicina alle proprie aspirazioni e che ha come scenario la metropoli moderna proiettata nel futuro. Nel 1914 vengono presentati i disegni al pubblico ad una mostra. Tre delle sedici tavole della mostra erano sul tema della centrale elettrica, simbolo della tecnologia moderna, risultato della potenza della macchina, cattedrale del futuro. La centrale elettrica possedeva uno straordinario monumentalismo espresso dai possenti volumi proiettati verso l’alto, la scomparsa di ogni accenno di decorazione e l’assenza quasi totale di aperture; sono presenti condotte forzate per introdurre dinamicità nell’immagine. L’espressione di monumentalità viene accentuata dalla prospettiva dei disegni dal basso verso l’alto. Si propone come immagine di una nuova civiltà industriale. Cinque tavole di un’altra mostra avevano come titola la città nuova; complessi architettonici dalle dimensioni gigantesche con complesse strutture tecnologiche. Invece della singola opera architettonica o del piano urbanistico generale tratta di una dimensione progettuale intermedia; appare un forte senso tridimensionale e sempre monumentalismo. Pareti gradinate e torri per gli ascensori esprimono una intensa e dinamica spinta ascensionale. Progetto anche un sistema di integrazione dei trasporti, con piste d’atterraggio collegate ad una sottostante stazione ferroviaria. È l’ideologia metropolitana che anima l’estetica futurista; condanna l’architettura ispirata allo storicismo e all’eclettismo.
Lo spirito giocoso era comune a tutta l’esperienza futurista. Nasce l’ambientazione; non più solo opere d’arte ma un’aggregazione di oggetti, arredi e decorazioni che insieme trasformano uno spazio in un0opera d’arte totale. Questo non costituisce una novità assoluta, era gia apparso nello jugendstil; ma mentre in quel caso si fa riferimento a un’idea dell’arte come valore assoluto, ora le finalità sono del tutto diverse. Per il futurismo l’arte non è più fine a se stessa e non ha come obiettivo la pura esperienza estetica. Diventa uno strumento per affermare una diversa concezione della vita e un suo rinnovamento con trasformazione culturale verso la modernità.
Tra le due guerre mondiali il futurismo sviluppa appieno la tendenza innata a estendere la propria visione a tutte le pratiche artistiche e comunicative. L’arte meccanica costituisce dunque uno dei principali indirizzi di sviluppo del futurismo tra le due guerre.
Tra le fiamme del primo conflitto mondiale la svizzera, da sempre neutrale, rimane un’isola apparentemente felice, dove si rifugiano intellettuali e artisti da tutta europa. Nel 1916 nasce il dada, un movimento che è un nonsenso per definizione. Il dada è il tutto e il nulla, è gioco e paradosso, è libertà di essere dada o no, è arte e negazione dell’arte. L’esperienza dada è il gusto per il paradosso e il gioco dei nonsensi. L’ambiziosa scommessa del dada è riscattare l’umanità dalla follia che l’ha portata alla guerra, e per fare ciò è necessario azzerare tutte le ideologie e i valori; vuole essere un’arte nuova. Il dada è un modo di essere e di sentire, è rifiuto totale del passato attraverso il rifugio nella follia innocua del nonsenso e dell’ironia. Dada non è un movimento, è una tendenza, e come tale si dissolve in pochi anni. Muore dunque intorno al 1922. è una forma nella quale ciascuno può leggere, se vuole, qualunque cosa.
Rietweld aderisce alle idee di de stijl per poi avvicinarsi al razionalismo. Mondrian fu suo maestro e artista neoplastico.
All’indomani della prima guerra mondiale l’europa, orribilmente devastata doveva ricostruire se stessa e quel sistema di valori e di punti di riferimento indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo di una società civile. Quest’opera non poteva non coinvolgere anche le arti e in special modo l’architettura, più concretamente legata alle esigenze di vita e di quotidianità della gente. L’ultima importante esperienza architettonica prebellica era stata l’art nouveau. Partita dalle ottime premesse di olbich e horta e Wagner l’art nouveau si è però incagliata in nuovo e vuoto accademismo. All’iniziale liberazione dalle ormai inutili forme della tradizione storicistica si era sostituita la meccanica riproduzione di forme sinuose e floreali; quando le forme sono slegate dalla funzione non hanno senso. Se prevale la logica decorativa, costruire in art nouveau non è indice di maggiore modernità che costruirne uno in stile neogotico. Loos era contro l’ornamento fine a se stesso, definito da lui addirittura un delitto. L’esperienza razionalista europea degli anni venti riparte da loos e da quei gruppi d’avanguardia che soprattutto in germania usavano moderni materiali da costruzione e nuove tecnologie ad essi connesse. Tra queste esperienze di anteguerra aveva assunto particolare significato quella del deutcher werkbund. Fondato a monaco da muthesius nel 1907 diventa subito uno straordinario laboratorio di idee per sanare la storica frattura esistente tra arte, artigianato e industria. Nell’ambito del werkbund maturano alcune delle personalità artistiche più significative dell’architettura razionalista. Fra tutti spicca behrens che rivoluziona ogni precedente regola edilizia tenendo conto fin dalla progettazione delle esigenze e dell’ottimizzazione dei costi. Uno dei suoi lavori più impegnativi fu la fabbrica di turbine della aeg del 1909 a berlino. Behrens cerca di dare a un manufatto industriale la solenne imponenza di un tempio; per la prima volta l’architettura si interessa all’aspetto di una fabbrica; si interessa di aspetti prima mai neanche presi in considerazione. Nei due lati corti abbiamo un massiccio frontone a profilo spezzato creando un gigantesco gioco di incastri fra materiali diversi; a concludere vi è una immensa vetrata e un timpano che disegnano una specie di fungo o la testa di una enorme vite. La forma ha sia esigenze funzionali che decorative e simboliche. Si ha così una corrispondenza tra forma e funzione caratteristico del deutcher werkbund. Elementi comuni al razionalismo saranno comunque la sempre più perfetta identificazione tra forma e funzione, l’utilizzo tra forma e funzione, l’utilizzo di volumi semplici e netti, la preponderanza della linea e degli angoli retti, labolizione di ogni decorazione e lo studio della standardizzazione, cioè l’impiego di elementi prefabbricati di dimensioni sempre uguali o comunque fra loro multiple. Abbiamo così un’architettura veramente nuova e democratica, per rompere ogni continuità anche formale con il recente passato.
Il bauhaus è il più alto e significativo momento di sviluppo del razionalismo tedesco. Fondato nel 1919 a weimar da gropius è la fondamentale e insostituibile palestra intellettuale. Un po’ scuola, un po’ bottega artistica, un po’ laboratorio artigiano è il simbolo della rinascita umana e morale della germania tra la sconfitta della prima guerra mondiale e il devastante avvento della dittatura nazista. Il bauhaus si proponeva di sviluppare ulteriormente le esperienze del deutcher werkbund. Il bauhaus è prima di tutto una scuola pubblica dove allievi e docenti studiano, vivono e lavorano assieme. L’ideologia era basata sul socialismo. È una officina di idee prima che di opere, dalla pittura alla scultura, dalla grafica all’architettura, dall’urbanistica all’industrial design. All’interno della scuola gropius e gli altri insegnanti seguono i propri allievi in tutte le fasi creative: dalla progettazione alla sperimentazione fino alla realizzazione in officina; dal bauhaus arrivarono alcuni oggetti diventati punti di riferimento del gusto contemporaneo. Molti dei primi allievi del bauhaus sono a loro volta diventati maestri, come breuer. Il successo del bauhaus richiama a weimar studenti e intellettuali da ogni parte della germania e d’europa e indispettì così i gretti ambienti accademici locali al punto che gropius fu costretto nel 1924 a trasferire l’istituto a dessau. Il trasferimento del bauhaus significò anche la possibilità per gropius di progettare e arredare la nuova sede. Fu una delle prime e più perfette architetture razionaliste, con grande equilibrio compositivo, studio delle funzioni, grande abilità tecnica e coerenza nell’uso dei materiali. La struttura è articolata in due volumi a forma di parallelepipedo. In uno vi sono le aule per le lezioni teoriche, nell’altro vi sono i laboratori per le esercitazioni pratiche. Un lungo corpo sospeso su pilastri in calcestruzzo armato collega i due settori. Sotto questo ponte coperto passa la strada di accesso al bauhaus. La palazzina a cinque piani è quella dove ci sono le camere e i servizi per gli studenti interni. La planimetria assume la forma di due L incastrate fra loro e i prospetti denunciano le funzioni. Le pareti del settore dei laboratori sono grandi vetrate. Per le aule e le amministrazioni abbiamo finestre e nastro. La palazzina dell’ostello ha finestre e portafinestre a L. Gli unici materiali visibili sono il vetro, che individua i vuoti, il ferro, che incornicia i vuoti, e l’intonaco bianco, per i pieni; questo richiama la bicromia brunelleschiana; gli intenti di gropius erano di semplificare e geometrizzare la propria architettura fino a renderla pura funzione. Non esistono cornici o altri elementi decorativi non direttamente necessari alla struttura. Gropius applica anche qui, come già in alcune precedenti applicazioni progettuali, l’angolo di vetro. Con l’impiego del calcestruzzo armato i solai dei vari piani sono delle grandi piastre libere rette da poche pilastri. Le pareti diventano puri setti divisori; questo modo di costruire si definisce a pianta libera; questo permette la costruzione di incredibili scatole trasparenti. La presenza delle vetrate continue dal punto di visto dell’uso permette ampie superfici vetrate che consentono una migliore illuminazione. Dal punto di vista ideologico poi il vetro e il cristallo sono simboli espressionisti di chiarezza di pensiero e di pulizia morale. La stagione di dessau è per il bauhaus quella più proficua e culturalmente intensa. Nel 1928 gropius cede la direzione a meyer. Quattro anni dopo però la situazione politica diventa definitivamente incompatibile con la sperimentazione e la democrazia del bauhaus. La scuola viene quindi chiusa. Nel 1933 il regime nazista, appena al potere, decreta la fine senza appello del bauhaus. Con esso muoiono le speranze democratiche e si gettano le basi per il terzo reich di hitler. Questo bolla come degenerata l’esperienza razionalista, disperdendone i prodotti e perseguitandone gli artefici. I migliori intellettuali tedeschi devono così abbandonare il loro paese lasciandolo in mano di artisti mediocri e servili ai voleri del regime. È così che l’architettura tedesca, senza dubbio la più avanzata del dopoguerra, sarà ricacciata verso l’assurdo e vacuo monumentalismo classicheggiante negli edifici pubblici e nella banalità della tradizione pseudotirolese delle casette con il tetto spiovente e i gerani sui balconi nelle costruzioni private. Gropius, van der rohe e altri sono costretti a fuggire. Molti si rifugeranno in Inghilterra, in unione sovietica ma la maggioranza negli stati uniti e costruiranno edifici e grattacieli.
Jeanneret, le corbusier, nasce nel 1887 in svizzera, ma la sua vera patria fu la francia. Dal 1906 al 1914 vagabondò per tutto il vecchio continente, partecipò ad un’esposizione del deutcher werkbund e a berlino frequentò per un breve periodo, assieme a gropius e van der rohe, lo studio di behrens. Nel 1907 visita anche l’italia. In questo modo jeanneret, che non ha mai compiuto studi architettonici regolari, apprende dal vero e nel modo più diretto le grandi lezione del passato; diventa così un attento osservatore-architetto. Dal 1917 si stabilisce a Parigi e l’anno successivo da vita al purismo, movimento pittorico, che partendo dalle posizioni dei cubisti ne semplifica alcuni aspetti introducendo le forme pure. Dal 1922 apre uno studio di architettura. Muore nel 1965.
Tra il 1929 e il 1931 costruisce la ville savoye a poissy, in francia. Composta da due soli piani, ha pianta quadrata e si regge su pilotis (tradotto, palafitte). Dal basso si nota un portico, il garage, i servizi da lavanderia e l’appartamento per l’autista. Le pareti non hanno funzione portante, sono solo i pilotis che reggono i solai. Dal grande soggiorno rettangolare si accede ad una terrazza ad L, invisibile da fuori perché chiusa dalle pareti bianche delle facciate. Un’altra rampa porta alla copertura piana dove compare il solarium, protetto da un muro sagomato. La costruzione appare come un assemblaggio di volumi geometrici puri. La logica progettuale di le corbusier sta proprio in questo suo creare gli ambienti dall’interno, plasmandoli sulle esigenze di che dovrà in seguito fruirne, senza interessarsi più di tanto dei rapporti con l’esterno. Ciò non significa però indifferenza a tali rapporti: un’architettura non può essere in contrasto con l’ambiente. Villa savoye è il miglior prototipo dei cinque punti di una nuova architettura: i pilotis, il tetto giardino, la pianta libera, le finestre a nastro e la facciata libera. I pilastri sono arretrati rispetto alle facciate che possono assumere sempre nuove configurazioni. In questo modo la casa può assumere il ruolo di macchina per abitare. Le teorie di le corbusier trovano applicazione anche nella progettazione di grandi complessi di abitazione e di intere città. Nel 1947 elabora il modulor, sulla base delle proporzioni umane, che individua una serie di multipli e sottomultipli geometrici in base ai quali dimensionare le costruzioni. Tra il 1946 e il 1952 nell’ambito dei programmi di ricostruzione postbellica francese realizza anche l’unite d’abitation, immaginando la concentrazione di un altissimo livello di alloggi all’interno di un unico blocco polifunzionale, a Marsiglia. Fu l’edificio per civile abitazione più grande mai costruito, composto da ben 17 piani, è percorso al suo interno da 7 strade coperte che servono 337 appartamenti per un numero massimo di 1500 abitanti. Quasi tutte le celle abitative sono del tipo duplex, su due diversi livelli accessibili mediante una scala interna; ciò consente di creare spazi più liberi e mossi. L’unitè mostra però tutti i limiti di un’operazione ancora troppo intellettuale per il grande pubblico, molti abitanti si trovarono infatti a disagio per le ampie superfici vetrate e ciascuno cercò di ridurle in vari modi. Rimane perciò una sorta di gigantesco laboratorio sperimentale; l’esperienza però si colloca in una scala progettuale a cavallo tra quella architettonica e quella urbanistica. Pensare un insieme di più unitè significa immaginare delle vere e proprie città. Grande risonanza ebbero i piani urbanistici di le corbusier per dare vita a città piu vivibili. Un esempio per tutti è costituito da chandigarh, capitale della regione indiana del punjab. Si può individuare un tessuto a maglie regolari diviso in veri settori dotati di scuole, attrezzature sportive, verde pubblico e strade commerciali oltre ad abitazioni per un totale di abitanti per settore che varia dai 1000 ai 20000. realizzato dal 1951 sa riproporre alcuni aspetti della cultura urbana del luogo, fatta da case basse, vie strette e cortili affacciati verso l’interno per proteggere dalle temperature tropicali. L’architettura di le corbusier è capace di farsi anche monumentale nella cappella di notre dam du haut a ronchamp realizzata tra il 1950 e il 1955. è in calcestruzzo armato, composta da un’unica navata a forma irregolare. Tre piccole cappelle indipendenti sono ricavate in altrettante piegature dei tre rubusti setti murari. Le tre cappelle terminano in altrettanti campanili di forma semicilindrica, la copertura è realizzata con una gettata di calcestruzzo modellata come se si trattasse di una gran vela rovesciata. Per aumentare il senso di leggerezza la copertura non poggia direttamente sulle pareti ma su corti piastrini affogati nella muratura; osservando il soffitto dall’interno si percepisce una lama di luce che penetra tra i muri; la luce entra all’interno anche da decine di aperture dalle più disparate forme creando suggestivi effetti di luce anche grazie al contrasto tra il bianco calcinato dell’intonaco e il grigio sporco del cemento. La morbida sinuosità non contraddice il rigore razionalista; le forme continuano ad essere lo specchio fedele delle funzioni che si svolgono al loro interno. La chiesa non ha una facciata privilegiata e dunque è un qualcosa da scoprire girandole intorno, vivendole nei suoi percorsi.
L’architettura che va sviluppandosi fra il 1700 e il 1800 negli immensi territori americani non ha alcun riscontro in europa. A partire dai primi anni del novecento una vertiginosa crescita economica porta gli stati uniti, all’indomani del primo conflitto mondiale, a sostituire la gran Bretagna nel ruolo di paese più ricco e industrializzato. Per tutto l’ottocento negli stati uniti si erano continuati ad utilizzare gli stili europei, in particolare gli stili neoclassici e neopalladiani. L’edilizia residenziale si sviluppa in orizzontale fuori dai centri urbani; le case non superano i due piani e utilizzano il legno. In città invece nasce una nuova tipologia edilizia, il grattacielo. Esso è la risposta al vertiginoso aumento dei prezzi dei terreni nelle aree centrali. Lo sviluppo verticale è possibile dall’uso combinato di nuovi materiali come il cemento armato e il vetro e soprattutto l’acciaio. All’inizio del 1900 in europa si diffonde l’art nouveau e in america l’architettura raggiunge la sua individualità. Gli architetti europei che visitano gli stati uniti ne restano profondamente influenzati. Wright fu il più grande architetto della storia americana. Nasce nel 1869 e muore nel 1959. nel 1897, non ancora ventenne lavora nello studio di sullivan. Studia approfonditamente i materiali e le proprietà applicative. Sua è la teoria sull’architettura organica; l’architettura deve essere pensata e realizzata seguendo i suggerimenti naturali biologici che scaturiscono dall’attenta osservazione della realtà. Nel 1905 wright è in giappone dove trova conferme alle sue teorie secondo le quali l’architettura non deve essere un contenitore cupo e indifferenziato, ma un ambiente vivo. Nelle praire house recupera molti elementi della tradizione dei pionieri. Esse presuppongono un’agiata committenza borghese. Contrariamente ai razionalisti francesi e a le corbusier, wright non sembra essere particolarmente sensibile alla problematica sociale. La robie house del 1909 è composta da tre piani sfalsati. È organizzata intorno ad un grande camino centrale come avveniva nelle semplici case dei pionieri. Il focolare rappresenta il vero e proprio cuore pulsante della casa. In questo caso il camino incorpora anche il blocco scala. Crea un suggestivo incastro di volumi sfalsati. Il programma delle praire house è in aperta controtendenza con i programmi di edilizia intensiva dei razionalisti europei. La casa è infatti pensata come un organismo che cresce intorno al singolo uomo o al massimo al suo nucleo familiare. La casa sulla cascata in Pennsylvania del 1936 è immersa nella natura, all’interno di un bosco su di uno spuntone di roccia. È realizzata con amore quasi artigianale, utilizzando i semplici materiali del luogo, soprattutto pietra e legno. Le tecnologie impiegate sono avanzatissime; la struttura non si presenta come un corpo estraneo, ma al contrario mette in evidenza una serie di piani che si intersecano e si accavallano nello spazio. Gli spazi interni sono estremamente liberi; il centro è l’enorme soggiorno vetrato; il soggiorno è ricco di rientranze e sporgenze millimetricamente determinate dalla preesistenza di un albero che non si voleva abbattere o dalla necessità di affacciarsi sul torrente con una certa angolazione. Il pavimento e della medesima pietra dello sperone di roccia esterno. I pilastri portanti sono rivestiti in pietra del luogo. L’edificio non ha un fronte o un retro. L’acqua che scroscia nella cascata genera un fruscio che penetra nel soggiorno. Nelle camere al piano superiore, essendo gli affacci opportunamente arretrati, la voce dell’acqua giunge assai attutita. L’ultima opera di wright è uno dei capolavori indiscussi del maestro, il solomon guggenheim museum a new york di fronte a central park tra il 1943 e il 1959. per il progetto wright si ispirò ad una conchiglia; la spirale rappresenta un percorso pressoché infinito. È costruito attorno ad una grande rampa elicoidale fino a sbocciare in un’ampia e luminosa cupola vetrata. È un modo nuovo e rivoluzionario di essere un museo; l’itinerario d’arte si percepisce solo percorrendolo. Si prova un’impressione di estremo riposo, simile a quella prodotta da un’onda calma, sottolineato dalla penetrazione luminosa. Rappresenta il testamento artistico e umano di wright.
In italia lo sviluppo industriale arriva molto tardivamente. Il gusto corrente è ancora dominato dall’eclettismo storicistico. Nonostante la vittoria militare, la prima guerra mondiale lascia l’italia in una situazione di prostrazione economica e di crisi sociale senza precedenti. Solo miseria e disoccupazione. Il malcontento generale culmina con l’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920. la svalutazione della lira, l’incapacità della classe politica di esprimere un governo giusto e autorevole creano le premesse per l’ascesa del fascismo. Strumentalizzando la protesta operaia e facendo leva sui timori della piccola e media borghesia mussolini organizza il 28 ottobre 1922 la marcia su roma. Da ciò ebbe il via libera per diventare capo del governo instaurando di fatto una dittatura personale. Il razionalismo che incominciava a diffondersi in italia si sviluppava già all’interno della dittatura fascista. Il nazismo tedesco, una volta conquistato il potere, si dimostrerà fin dall’inizio fieramente avverso a qualsiasi tipo di architettura razionalista: essa avrebbe potuto far tornare alla mente la democrazia. In italia invece, poiché il razionalismo aveva avuto uno sviluppo quasi parallelo a quello del fascismo, lo si identificò spesso con il fascismo stesso, diventandone, entro certi limiti, addirittura l’espressione artistica prediletta. Da qua cambiamenti e rifiuto di tradizioni; dietro al modernismo di facciata si andavano pericolosamente affacciando i veri intenti repressivi e dittatoriali del regime. Il panorama culturale dell’architettura italiana tra le due guerre è in effetti estremamente complesso e contraddittorio. Si va dal ridisegno di intere aree urbane, alla costruzione di nuovi edifici pubblici e di monumenti, fino alla fondazione di nuove città. Alcune di queste opere sono di grande rilievo, altre sono poco più che di propaganda, altre sono scempi. Inizialmente, comunque, il razionalismo sembra trionfare incontrastato. Ovunque apparivano edifici dai volumi netti con coperture piane e finestre rigorosamente prive di timpani e cornici, sulla falsariga del bauhaus. Il più attento razionalista italiano è terragni (1904-1943); richiamato alle armi nel 1939 e inviato sul fronte russo, riuscì a tornare nel 1943 profondamente segnato tanto da suicidarsi. Sua è la casa del fascio, costruita tra il 1932 e il 1936 a como. Pianta perfettamente quadrata e altezza esatta metà del lato; è quindi mezzo cubo le cui facciate hanno varie aperture quadrate in rigoroso rapporto proporzionale tra loro; sembra alludere simbolicamente a quel formale ritorno all’ordine di cui il fascismo si era fatto promotore. In realtà contrasta clamorosamente con l’asimmetria con la quale le quattro facciate sono composte: una diversa dall’altra in relazione alle diverse funzioni cui devono rispondere. Con il consolidarsi del regime anche l’architettura muta. Dalla purezza geometrica a un sempre maggior monumentalismo. I semplici intonaci lasciano il posto al marmo e al travertino, le proporzioni sono gigantesche e l’iniziale chiarezza viene sacrificata alla scenograficità dell’insieme. Il massimo ideologo di questo monumentalismo fu piacentini (1881-1960). Suo è il monumentale palazzo di giustizia di milano (1939-1940). Il rivestimento marmoreo, l’esagerata dilatazione delle finestre, le retoriche scritte in rilievo, i due altissimi setti di muro all’ingresso, quasi a suggerire le colonne di un tempio classico; sono infatti in contraddizione con il linguaggio razionalista; si riallaccia addirittura all’antica tradizione classica.
Michelucci nasce nel 1891 e muore nel 1990; rappresenta una delle presenze più significative del razionalismo degli anni trenta e del neorealismo (periodo del dopoguerra nel quale cultura e arte italiana vogliono riscoprire la realtà del proprio paese, liberi dal fascismo) degli anni cinquanta e sessanta. Si forma all’accademia delle belle arti di Firenze e partecipa al concorso del 1932 per la costruzione della stazione di santa maria novella di Firenze. I razionalisti sostenevano il progetto di michelacci. Ha forma semplice e squadrata, generata direttamente dalle unzioni che deve svolgere. Dalla gerarchia delle funzioni deriva l’organizzazione degli spazi. Anche nella scelta dei materiali michelucci si dimostra attento: le strutture in calcestruzzo armato e il rivestimento esterno n pietra forte. Negli anni cinquanta partecipa alla ricostruzione delle parti di Firenze che i nazisti avevano minato. In particolare la chiesa di san giovanni battista dei primissimi anni settanta. Appaiono citazioni colte da wright e da le corbusier. Le architettura michelucciane vogliono essere soprattutto organismi viventi, non asettici contenitori.
La seconda guerra mondiale lascia dietro di se un mondo sconvolto e allibito. Ai milioni di soldati morti in combattimento si aggiungono i milioni di civili periti e gli altri milioni di innocenti eliminati nei campi di sterminio nazisti. Dal cuore sale alto un unico grido: pace, giustizia sociale e libertà. Si attuano ovunque grandiosi programmi di ricostruzione. Grazie al poderoso contributo statunitense, i tempi della ripresa europea vengono accelerati al massimo grazie al piano marshall (1948-1952). In questo l’america investe enormi capitali e ha almeno due obiettivi: uno economico, per disporre di nuovi mercati internazionali, un altro politico, per confermare la supremazia mondiale degli stati uniti. Nasce anche la nato e in oriente viene stipulato i patto di Varsavia, dando origine alla contrapposizione politica dei due grandi blocchi, quello filostatunitense e quello filosovietico. Dai conflitti economici e politici nasce la guerra fredda, una tensione politica tra stati uniti e unione sovietica per giustificare il riarmo nucleare. L’arte del dopoguerra assume così forme e linee evolutive assolutamente diversificate e imprevedibili. L’america diventa un punto di riferimento per tutte le nuove avanguardie; nella società statunitense vengono incarnati valori di libertà e democrazia. Gli artisti, liberati, estendono le loro ricerche in ogni direzione e i risultati sono spesso caotici e contradditori. Questo è il riflesso di una nuova società occidentale basata sul consumismo. Abbiamo una evoluzione tecnologica, una diffusione dei mezzi di comunicazione. L’arte contemporanea è sensibilissima agli andamenti delle mode e dei mercati.




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