Sintesi tratta dal libro di testo "L’architettura moderna dal 900" di William J.R. Curtis
Testo di riferimento del corso di DESIGN E COMUNICAZIONE VISIVA tenuto al Politecnico di Torino.
CAPITOLI 1-36
1-Le tendenze formative dell’architettura moderna
2-Industrializzazione e città: il grattacielo come tipo e simbolo
3-La ricerca di forme nuove e il problema dell’ornamento
4-Razionalismo, tradizione ingegneristica e cemento armato
5-Ideali Arts and Crafts in Gran Bretagna e Stati Uniti
6-Risposte alla meccanizzazione: il Deutscher Werkbund e il Futurismo
7-Il sistema architettonico di Frank Lloyd Wright
8-Miti nazionali e trasformazioni del classico
9-Cubismo, De Stijl e nuove concezioni spaziali
10-La ricerca di Le Corbusier della forma ideale
11-Walter Gropius, l’Espressionismo tedesco e il Bauhaus
12-Architettura e rivoluzione in Russia
13-Grattacielo e periferia: gli Stati Uniti tra le due guerre
14-La comunità ideale: alternative alla città industriale
15-L'international style, il talento individuale e il mito del funzionalismo
16-L'immagine e l'idea della villa savoye di Le Corbusier a Poissy
17-La continuità di tradizioni più antiche
18-Natura e macchina: Mies van der Rohe, Wright e LeCorbusier negli anni ’30
19-La diffusione dell’architettura moderna in Gran Bretagna e in Scandinavia
20-Critiche dei regimi totalitari al Movimento Moderno
21-Internazionale, nazionale, regionale: la diversità di una nuova tradizione
22-Architettura moderna negli Stati Uniti: immigrazione e consolidamento
23-Forma e significato nelle tarde opere di Le Corbusier
24-L’Unitè d’Habitation a Marsiglia come prototipo di residenza collettiva
25-Alvar Aalto e gli sviluppi scandinavi
26-Discontinuità e continuità nell’Europa degli anni cinquanta
27-Il processo di assimilazione: America Latina, Australia, Giappone
28-Su monumenti e monumentalità: Louis I. Kahn
29-Architettura e anti-architettura in Gran Bretagna
30-Estensione e critica negli anni ’60
31-Modernità, tradizione e identità nei paesi in via di sviluppo
32-Pluralismo negli anni settanta
33-Architettura moderna e memoria: nuove percezioni del passato
34-Universale e locale: paesaggio, clima e cultura
35-Tecnologia, astrazione e idee di natura
36-Conclusione: modernità, tradizione, autenticità
CAPITOLO 1
Le tendenze formative dell’architettura moderna
Correnti
di idee e prime cause della nascita dell’architettura moderna si
notano già verso il 1850 (‘moderna’ in opposizione agli stili
recuperati dal passato), ma il vero processo di sintesi avviene tra
la fine dell’800 e i primi del 900.
Cause:
idea
di progresso,
che presuppone la creazione di uno stile del proprio tempo,
autentico come lo erano quelli precedenti nelle loro epoche;
perdita
di fiducia (già
nel 700) nella
tradizione rinascimentale e
nell’idealismo dell’estetica rinascimentale, soppiantato da un
nuovo empirismo;
l’Antico
non è più
l’unico punto di riferimento;
rivoluzione
industriale:
nuove committenze (non + solo Chiesa, stato e aristocrazia, ma anche
ceto medio), nuove problematiche, nuovi metodi di costruzione, nuovi
materiali;
la
crescita della borghesia porta a nuove
istituzioni:
musei,
biblioteche,
teatri, palazzi
governativi,
banche, tribunali, casinò, fabbriche,
stazioni,
mercati, grandi
magazzini
e grattacieli;
nuovi
stili di vita
(dal contadino all’operaio, con condizioni di vita pessime ed
insalubri)
impegno
sociale
dell’architettura;
spesso
il punto di riferimento diventò la
natura
(Sullivan, Aalto, Wright, LeCorbusier);
la
tradizione
non fu abbandonata, ma si abbandonò l’adesione superficiale e
servile ad essa, spesso identificata con la scuole di Beaux Arts di
Parigi;
spinta
ispiratrice di Viollet-le-Duc,
Semper (identificò
4 elementi base dell’architettura)
e
Ruskin (la
natura è l’espressione dell’evidenza fisica della creazione e
delle leggi di Dio);
ECLETTISMO
Posizione
che mirava a fondere gli stili
del passato per sommarne le qualità.
Non
forniva regole automatiche per la composizione, e ciò portò ad
edifici a volte assurdi, a volte orribili, a volte ricchi e anche
interessanti.
PRIMITIVISMO
(1750
circa)
Posizione
che si basava sul mito delle origini, sul ritorno agli ‘inizi’.
L’archetipo era la capanna primitiva, esaltando la semplicità e
disprezzando l’artificialità; si tornava la vecchio presupposto di
imitazione
della natura.
RAZIONALISMO
Le
forme migliori erano radicate nelle esigenze
strutturali o funzionali
(Laugier); se si analizzano i problemi senza il filtro del passato,
si trova ad essi la soluzione migliore anche dal punto di vista
formale, oltre che funzionale. Una delle sue falle era il presupposto
che da una semplice analisi funzionale scaturissero delle forme.
Viollet-le-Duc
valorizzò, nel suo razionalismo, l’architettura medievale perché
‘onesta’, e sosteneva che l’eccellenza delle opere del passato
nasce dalla loro capacità di esprimere le ‘verità’
programmatiche e strutturali del loro tempo; non dobbiamo quindi
imitare gli aspetti esteriori del passato, ma la mentalità e i
principi.
CAPITOLO 2
Industrializzazione e città:
il
grattacielo come tipo e simbolo
La
maggior parte delle nuove tendenze prese vita tra il 1890 e il 1900,
tra le città di Vienna, Parigi, Glasgow, Bruxelles, Barcellona e
Chicago.
Le
pre-condizioni essenziali includevano:
meccanizzazione
della città;
nuovi
materiali (ferro, vetro e acciaio);
committenza
aperta alle sperimentazioni;
architetti
creativi;
Si
svilupparono così l’Art
Nuveau a
Bruxelles (legata alla nuova ricchezza industriale),
l’avanguardia
viennese
(in rottura col declinante sistema imperiale), le esperienze
radicate nell’identità locale di
Barcellona (Gaudì) e Glasgow e le nuove tendenze nordamericane
(determinate dall’assenza di una tradizione forte e radicata, sulla
scia del laissez-faire
economico).
La
città
nordamericana era
caratterizzata da urbanizzazione caotica, schemi rettilinei di strade
e oggetti singoli circondati da spazi (al contrario dell’uso
europeo di spazi circondati da edifici
piazze).
Nel
frattempo, a Parigi,
il barone Haussmann
(dal 1850) tagliava la città con ampi boulevard,
rendendo
la città più adatta alla sua conformazione capitalista, oltre che
dividendo il centro borghese dalle fatiscenti periferie operaie, che
così diventavano inoltre molto più facili da controllare
militarmente.
Altro
elemento importante fu la ferrovia,
che divise le città finite, demolì i confini tra città e campagna
e confinò gli scarti e i rifiuti industriali nelle solite povere
periferie.
La
nuova città abbatteva anche i vecchi schemi: ormai gli edifici
privati per il commercio, come banche, magazzini, depositi e
fabbriche, si innalzavano, simbolo
del capitalismo,
al di sopra anche dei vecchi edifici di importanza civica o
religiosa.
Non
se la cavavano bene, invece, i quartieri
poveri delle
periferie, quartieri standardizzati nel susseguirsi di piccole
finestre, ammassi di rifiuti, sporcizia e tonnellate di mattoni. Marx
ed Engels erano convinti che la soluzione a questa situazione di
degrado era possibile solo nella post-rivoluzione, mentre ci fu anche
chi propose di trasportare le città nella natura o la natura nelle
città, e ciò trova riscontro nei molti progetti di inizio 900 che
abbondavano di verde, spazi aperti e trasparenze. Da qui sorsero i
primi grandi edifici in ferro
e vetro,
che consentiva ampie luci, scomponeva le masse e apriva gli spazi,
suggerendo spesso analogie
col mondo naturale e con l’architettura gotica.
(Crystal
Palace di J.Paxton, ingegnere che trasferì la serra
all’architettura)
Queste
tendenze furono criticate da Ruskin (materialismo puro e morte
dell’artigianato) e Semper.
Mentre
si può affermare che le creazioni ingegneristiche spesso non
possedevano quei contenuti artistici propri dell’architettura, è
anche vero che ciò rese in molti casi superfluo
l’intervento
architettonico.
L’ascesa
delle strutture in ferro e vetro non rese però obsolete quelle in
mattoni con struttura portante di acciaio o ferro, che continuarono
ad esistere, sfruttando le proprietà isolanti, antincendio e
ornamentali dei rivestimenti in mattoni e quelle puramente
strutturali dell’acciaio e del ferro, che permisero la costruzione
dei grattacieli.
Il
grattacielo
si diffuse
inizialmente a Chicago tra il 1880 e il 1890, grazie anche alla
tabula
rasa
offerta dall’incendio che semidistrusse Chicago nel 1871. Il
grattacielo si estendeva in verticale,
concentrando gli spazi e riducendo i tempi, come piaceva al
capitalismo industriale.
RICHARDSON
In
America inizialmente si erano susseguite le stesse tendenze che
dominavano in Europa, ma anche qui andarono in crisi, anche perché
non supportate da un adeguato substrato di cultura e tradizione, e i
primi segni di indipendenza si ebbero con Richardson.
Amava le grandi masse in pietra e le ampie superfici, spesso tagliate
da archi, rifinite da torri e superfici ornamentali, fondendo così
motivi romantici e artigianali con il rigore e la solidità moderna,
senza disdegnare riferimenti classici e medievali (
romanico), in un eclettismo molto originale.
MAGAZZINI
MARSHALL (1885): tipico esempio dell’architettura di Richardson, è
un gigantesco magazzino caratterizzato da una pianta molto semplice e
gerarchica, una massa imponente e solida che all’interno mostrava
travi metalliche e ascensori, mentre all’esterno si presentava con
ampie superfici murarie di arenaria e granito, una massa monolitica
tagliata solo da una fila di archi a tutto sesto, fondendo romanico e
moderno;
SULLIVAN
AUDITORIUM
(1986): sorto a Chicago dalla collaborazione di Sullivan e dell’ing.
Adler, è caratterizzato da un’imponente massa sormontata da una
torre su un lato, trasposizione di un palazzo pubblico medievale (con
la sua immagine ‘civica’) in una struttura che incorporava un
teatro e un albergo con uffici. All’interno era molto moderno, con
predominanza del ferro e sistemi di ventilazione e riscaldamento.
Un
difetto degli architetti della Chicago
School fu
di aver sì prestato attenzione al grattacielo in sé, ma di aver
altresì tralasciato la forma della città
a grattacieli,
con le sue vie buie e cavernose.
Nel
1893 ci fu la Fiera
Mondiale di Chicago,
caratterizzata da opere classicheggianti, di chiara influenza
beaux-arts francese, testimone della forte influenza che lo stile
secondo Impero aveva sul pubblico mondiale.
La
Chicago di fine 800 era l’esempio della città capitalista, dominio
del vapore e dell’acciaio, sintesi di tecnologia e forma, che ebbe
però, grazie ad alcuni grandi architetti, punte di alta
architettura, che divenne modello per tutto il mondo.
CAPITOLO 3La ricerca di forme nuove e il problema dell’ornamento
C’è
chi sostiene le riforme stilistiche conseguenze di quelle strutturali
e tecniche, e chi invece che sostiene che tecniche e materiali siano
dipendenti dalle tendenze estetiche e formali; la verità è in
entrambe le posizioni.
Telaio
in ferro e acciaio suggeriscono alcune soluzioni, ma sono gli
architetti a indirizzarne la via lungo una direttrice principale che
possa portare alla nascita di una nuova architettura.
La
Chicago School ebbe un ruolo
predominante in questi cambiamenti, favorita anche da condizioni
economiche e culturali impossibili da riscontrare in Europa (Secondo
Nietzsche il bagaglio storico qui era troppo forte per permettere di
esprimere il potenziale interiore represso).
ART
NUVEAU
Offrì
il primo programma internazionale per un fondamentale rinnovamento, e
fu il primo stadio di architettura moderna in Europa.
Era
un totale rifiuto dello storicismo, ma non corrispondeva con un
totale rifiuto della tradizione, perché nessuno può appoggiarsi sul
nulla.
Era
una forte reazione tipicamente fiamminga contro il classicismo
beaux-arts, ed offriva, al posto del poderoso monumentalismo,
creazioni ariose e luminose che sfruttavano le proprietà di vetro e
metallo, traendo chiara ispirazione dalla natura.
La fase creativa durò dal 1893 al 1905.
Victor
HORTA, di
Bruxelles, fu rivoluzionario nella sua attività. Il suo Hotel Tassel
è sintesi di architettura e arti decorative, con strutture in ferro
a vista che richiamavano motivi floreali e forme vegetali, vetrate
colorate, ampie scalinate e lunghe prospettive interne. La Maison du
Peuple, quartier generale del partito socialista belga, presenta un
telaio in ferro a vista, che ispirò in seguito capannoni ferroviari
e costruzioni fieristiche.
Henry
VAN DE VELDE fu
altro importante esponente, e pose l’obiettivo che sarà dell’art
nuveau di creare edifici che siano ‘ opera d’arte totale ’,
dove ogni elemento è in piena armonia stilistica col tutto (Infatti
usava creare i mobili appositamente per gli edifici).Era socialista,
e sperava con la sua opera di rendere accessibile alle masse la
qualità formale.
L’Art
Nuveau si diffuse presto in altri settori, come il disegno
industriale, la grafica, l’artigianato e la moda, e le idee
portanti furono divulgate da riviste come the
studio.
Dominò le esposizioni di Parigi (1900) e Torino (1902), e l’art
nuveau o stile liberty divenne presto internazionale.
Hector
GUIMARD progettò
le forme del metrò di Parigi, i chiaro stile Liberty, come per
rendere piacevole un luogo buio e soffocante come la metropolitana
parigina.
ANTONI GAUDì
(1852-1926)
Antoni
Gaudì, architetto catalano, è in realtà solo vagamente affiliato
all’Art Nuveau. Lettore di Ruskin, in gioventù opponeva il
neo-gotico al dominante stile secondo impero, ma il suo stile divenne
ben presto molto originale. Il Palazzo Guell di
Barcellona presentava interni quasi ecclesiastici ed esterni
caratterizzati da strutture di ferro battuto ondulato e decorazioni
elaborate. Il suo scopo era la ricerca di un autentico stile
catalano, ed infatti fece largo uso di mattoni e
ceramiche, prodotti caratteristici della sua terra. Nelle sue opere
c’era un misto di echi medievali, tecniche regionali e allusioni
alla natura della Catalogna. La Sagrada Famiglia
(1884-/) è un misto dell’arte di Gaudì,
comprendente una base gotica, un evolversi di pura fantasia, ricco di
motivi floreali ed onirici, atmosfere surreali e influenze delle
costruzioni di fango africane. E’ un’opera ancora oggi
incompiuta, che indica nel suo svolgimento un’evoluzione continua,
simbolo stesso del popolo catalano, della ragione e dell’irrazionale,
del sacro e del materiale. Gaudì era razionalista negli studi delle
sue opere, ma al tempo stesso fortemente religioso, al punto di voler
rispecchiare nella materialità dell’architettura l’ordine
spirituale del creato, sfociando spesso nel simbolismo (ad es. la
parabola era il simbolo stesso del sacro).
Lo
stile tardo di Gaudì emerse nel Parco Guell
(1900-1914), con sedute dalle forme animali e rivestite di mosaici di
ceramica, grotte sotterranee da incubo, cupe foreste, strani e
inquietanti colonnati, riferimenti alla natura e all’arte gotica.
Gli
stili collegati all’art nuveau si diffusero presto in quasi tutta
l’Europa, ma incontrarono resistenza in Inghilterra.
In
Scozia, invece, l’art nuveau si incarnò nello stile originale di
Charles Mackintosh.
La sua School of Art di Glasgow (1897) andò oltre l’art nuveau,
verso una sobria forma fatta di semplici sequenze di masse e spazi,
pieni e vuoti, progetti lineari e dinamici ma non privi di allusioni
alla tradizione celtica e gaelica. Stranamente in Inghilterra fu
criticato, mentre ebbe successo nel continente.
A
Vienna suoi ammiratori erano Josef Olbrich e
Otto Wagner, aspri critici
sia dell’accademia classica che della nuova decadenza dell’art
nuveau. Otto Wagner sosteneva che l’architettura dovesse essere
realista, pura risposta tecnica alle nuove problematiche, espressione
diretta dei nuovi mezzi di costruzione. Il suo Ufficio Postale di
Vienna sostituisce i motivi floreali con la razionalità e la
solidità di travi e bulloni.
Non
a caso Vienna e, più tardi, Berlino e Parigi
divennero fieri oppositori dell’art nuveau,
spinti da ideali di semplicità, essenzialità e simmetria.
Gli
esponenti di questa nuova architettura viennese furono Adolf
Loos e Josef Hoffmann,
tesi verso una semplificazione lineare e volumetrica sempre più
drastica (cercare la bellezza nella sola FORMA, e non nell’ornamento,
simbolo della cultura decadente).
CAPITOLO 4Razionalismo, tradizione ingegneristica e cemento armato
critica
all’art nuveau:
L’art
nuveau apparve come rottura col passato, ma venne presto intesa come
creazione troppo soggettiva, superficiale, affondata dai desideri di
austerità e linearità e dal razionalismo, che chiedeva
giustificazioni funzionali alle scelte formali.
Lo
stesso Viollet-le-Duc venne inteso come simbolo del razionalismo, del
funzionalismo e della critica ai ‘ linguaggi morti ’ degli
architetti.
soluzione:
Il
rischio, ora, sembrava quello di cadere nel blando funzionalismo
materialista, accecati dalla capacità di ingegneri e razionalisti di
emanciparsi dal revivalismo. Alcuni grandi ingegneri (come Eiffel o
Roebling, col ponte di Brooklyn) non trascurarono l’aspetto
formale, cercando di dare dignità artistica all’arco, alla trave e
ai tralicci. Lo stesso Sullivan si rese conto che la funzione da sola
era sì in grado di suggerire soluzioni, ma non poteva, senza
l’apporto dell’intuito artistico, generare valori estetici.
Nacque il cemento armato, e si cominciò ad esplorarne le
potenzialità. Materiale ignifugo, flessibile, solido, versatile,
aprì presto nuovi orizzonti all’architettura (Chiesa di Montmartre
a Parigi).
Perret,
razionalista classicista animato da un forte spirito pratico, fu uno
dei primi a farne largo uso. Nei suoi appartamenti a Parigi ampliò
al massimo le finestre per sfruttare la vista sulla Senna e la Torre
Eiffel, creando così diversi rapporti di pieni e vuoti. Introdusse
scelte importanti, come il piano terra più alto degli altri e
visivamente distinto, dislocò le finestre su livelli diversi,
utilizzò riempimenti e rivestimenti ceramici; insomma rese il suo
edifico ARCHITETTURA, e non solo costruzione.
Nel
teatro sugli champs-élysèes
il suo classicismo si fece più forte, con richiami a cornici e
lesene.
Negli
Stati Uniti i maggiori pionieri del cemento armato furono Ransome
e Kahn,
individuando nuovi campi di applicazione nell’agricoltura e
nell’industria (tra cui per Henry Ford). Kahn esaltò i requisiti
di economicità, standardizzazione, luminosità, resistenza al fuoco
e flessibilità del cemento armato, pensando solo alla funzionalità
delle sue opere, che in seguito diventarono dei modelli per l’Europa.
In
Francia Maillart e Freyssinet
introdussero le sezioni paraboliche e circolari (ponti, hangar), a
dimostrare che non si potevano usare solo quelle ortogonali, anche se
la generazione successiva accantonò queste applicazioni, tesa nella
ricerca di planarità e orizzontalità, eleggendo predecessori
architetti come Wright e Perret.
Garnier
ci fornì il primo esempio di pianificazione
territoriale, con la sua Citè Industrielle,
modello della perfetta città moderna. Distinse aree residenziali,
industriali e ricreative, rette da imponenti assi stradali.
Sostenitore
dell’architettura in cemento armato di Perret fu Jeanneret, ovvero
Le Corbusier. Studiò
all’atelièr di Perret e assorbì le idee di Viollet-Le-Duc,
passando poi a Berlino, dove elaborò la convinzione dell’utilità
di tipi e norme nella società moderna. Progettò Dom-ino, una casa
kit di facile e rapido assemblaggio, in grado di ovviare a una rapida
ricostruzione della Francia devastata dalla prima guerra mondiale.
Era un progetto rivoluzionario, versatile nella struttura (basata su
uno scheletro di sostegno che dava massima libertà di composizione)
e nelle componenti standardizzate.
Gli
stili collegati all’art nuveau si diffusero presto in quasi tutta
l’Europa, ma incontrarono resistenza in Inghilterra.
In
Scozia, invece, l’art nuveau si incarnò nello stile originale di
Charles Mackintosh.
La sua School of Art di Glasgow (1897) andò oltre l’art nuveau,
verso una sobria forma fatta di semplici sequenze di masse e spazi,
pieni e vuoti, progetti lineari e dinamici ma non privi di allusioni
alla tradizione celtica e gaelica. Stranamente in Inghilterra fu
criticato, mentre ebbe successo nel continente.
A
Vienna suoi ammiratori erano Josef Olbrich e
Otto Wagner, aspri critici
sia dell’accademia classica che della nuova decadenza dell’art
nuveau. Otto Wagner sosteneva che l’architettura dovesse essere
realista, pura risposta tecnica alle nuove problematiche, espressione
diretta dei nuovi mezzi di costruzione. Il suo Ufficio Postale di
Vienna sostituisce i motivi floreali con la razionalità e la
solidità di travi e bulloni.
Non
a caso Vienna e, più tardi, Berlino e Parigi
divennero fieri oppositori dell’art nuveau,
spinti da ideali di semplicità, essenzialità e simmetria.
Gli
esponenti di questa nuova architettura viennese furono Adolf
Loos e Josef Hoffmann,
tesi verso una semplificazione lineare e volumetrica sempre più
drastica (cercare la bellezza nella sola FORMA, e non nell’ornamento,
simbolo della cultura decadente).
CAPITOLO 5
Ideali Arts and Crafts in Gran Bretagna e Stati Uniti
La
ricerca di semplicità propria del primo 900 ha le radici in alcune
posizioni intellettuali anteriori, tra cui il RAZIONALISMO e gli
ideali ARTS AND CRAFTS discendenti da Morris e Ruskin
in Inghilterra.
Ruskin
e Morris erano convinti che una vera architettura sarebbe nata
mediante l’espressione di virtù morali incorrotte tramite un
artigianato ispirato, disgustati dall’impatto della rivoluzione
industriale.
Voysey
diede vita ad edifici semplici e radicati nella
tradizione inglese, ricchi di grondaie, spioventi e giardini, poi
indicati come esempi di architettura moderna. Era un’architettura
che si basava su materiali e consuetudini locali, radicata
nell’artigianato e nella semplicità formale, quasi rurale.
Scott,
con Voysey, fornì l’archetipo dell’edilizia residenziale inglese
in tutta Europa. Scott integrò casa e giardino senza eccedere in
‘rusticità’.
Lutyens
disegnò edifici ricchi e ricercati, con giardini
ben progettati e forte utilizzo dei materiali del luogo, elevando la
casa rurale ad abitazione raffinata ed esotica, dando sempre grande
attenzione al cliente e al sito.
Tutti
questi architetti erano sì innovatori, ma anche, per certi aspetti,
tradizionalisti. Erano i creatori di microcosmi di valori
tradizionali e morali, familiari e naturali.
Questi
ideali passarono, verso il 1910, in Germania,
incarnati da Muthesius,
fervente ammiratore dei tipi inglesi. Cercò di importare in Germania
il gusto per il cottage e il giardino, come risposta alla forza
disgregatrice dell’industrializzazione. Il disegno industriale
tedesco crebbe sotto la spinta delle Arts and Crafts inglesi, mentre
in Inghilterra si tornava alle tendenze Beaux-Arts.
FRANK
LLOYD WRIGHT
In
America il catalizzatore della trasformazione fu
Frank Lloyd Wright, il
maggiore tra gli architetti influenzati dalle Arts and Crafts.
Impregnato delle idee di Morris, fu promotore del tradizionale
cottage ligneo, dell’abitazione monofamigliare rustica, emblema
dello spirito democratico americano, reazione alla città e al
grattacielo. Aiutato dalla totale mancanza di una lunga e coerente
tradizione nazionale si aprì alla sperimentazione, ma ciò lo rese
privo di una solida base, rintracciata vagamente in Richardson.
L’Ames
Gate Lodge è fortemente legata al loco, con un
grande uso di pietra locale, ma si apre anche a riferimenti ad
antiche tradizioni lontane, della Siria e della vecchia Francia.
Wright
costruì una mitologia intorno alla casetta familiare suburbana, una
mitologia fatta da riferimenti giapponesi, da citazioni coloniali, da
tradizione locale e da forte radicamento nella Natura.
Diede
vita alla Prairie School,
basata sulla “casa nella prateria”.
I
fratelli Greene furono
maestri del bungalow californiano, un’abitazione concepita in
apertura verso l’esterno, la natura. La loro Gamble
House di Pasadena era la piena esaltazione e
nobilitazione del bungalow californiano, nobile e ricco ma al tempo
stesso intimo e umano. Sorgeva su un terrazzo sollevato sui prati, e
si distingueva per i suoi spioventi, le trasparenti balconate e i
colori caldi del legno californiano. Il salotto, come anche nelle
opere di Wright, era simmetrico lungo l’asse del focolare, fulcro
della casa di campagna.
Altri
esponenti del movimento americano furono Gill e
Maybeck.
CAPITOLO 6
Risposte alla meccanizzazione:
il Deutscher Werkbund e il Futurismo
Diversamente
dai sentimenti nostalgici delle Arts and Crafts, nei primi anni del
900 sorsero dei movimenti che invece si ispiravano apertamente
all’idolo della meccanizzazione, come il Deutscher
Werkbund in Germania e il
Futurismo in Italia, oltre a
singoli elementi come Gropius, Behrens e Sant’Elia.
DEUTSCHER
WERKBUND
Il
Deutscher Werkbund fu fondato da Muthesius,
che si pose l’obiettivo di creare i collegamenti tra l’arte e
l’industria, tra l’artigianato (nasceva dalle Arts and Crafts) e
la produzione in serie. Era convinto di poter portare la kultur
tedesca in una posizione di supremazia nei
mercati e negli avvenimenti mondiali, e dava grandissima importanza
alla Forma, simbolo della stessa cultura tedesca.
Progettava
per la macchina, ed
era intriso dell’idealismo della filosofia tedesca, convinto che la
realizzazione di una grande cultura tedesca fosse già scritta nel
destino.
Behrens
è stato molto vicino all’opera di Muthesius, è
significativo il suo progetto per la società elettrica AEG,
comprensivo di progetti di lampade, mobilio, oggetti ed edifici. La
sua ricerca di una genuina arte tedesca lo portò ad un “richiamo
all’ordine” e alla linearità. Di influenze neoclassiche, anche
lui sentì l’ispirazione dell’idealismo di Schinkel.
Gropius
preferì gli spazi e le ampie vetrate alle masse
(tipiche di Behrens). La differenza tra l’architettura americana e
quella contemporanea di Gropius, e tedesca in genere, è che quella
teutonica non si limita a “trovare una sistemazione alle funzioni
del mondo moderno, ma anche a simbolizzare quel mondo”.
Gropius
e Meyer progettarono nel 1914 il padiglione
del Werkbund
per l’esposizione di Colonia, che riprendeva, per la grande sala
macchine, la classicità dei capannoni ferroviari, rifinita dalle
ampie scalinate vetrate che davano l’accesso al simmetrico
padiglione d’ingresso e al padiglione dei motori a gas Deutz. Il
rigore e l’assialità della pianta richiamano gli schemi
beaux-arts, ma gli sviluppi verticali erano invece assolutamente
originali e privi di riferimenti storici evidenti.
Si
era forse ispirato al precedente padiglione
dell’industria dell’acciaio di Bruno
Taut alla fiera di Lipsia del
1913: uno ziggurat sormontato da una sfera, tutto di acciaio (il
materiale che pubblicizzavano). Apparteneva all’ala ‘mistica’,
espressionista della Werkbund, come nel sempre suo padiglione
del vetro di Colonia (1914), un mausoleo
industriale rappresentato da una cupola multicolore e
multisfaccettata di vetro posta su un alto basamento. Sfruttava,
negli interni, variegati giochi cromatici e di luce, con la maestria
Art Nuveau, ma lo sguardo rivolto al futuro.
L’intento
di Taut e Gropius era, ognuno a modo suo, di sottolineare la capacità
poetica e il potenziale progressista dell’industrializzazione.
FUTURISMO
Fu
prima movimento poetico, poi pittorico, scultoreo e architettonico.
Il maggiore esponente dell’architettura futurista fu Sant’Elia
(con la sua Città Nuova). L’ideologia
futurista, di base anarchica, non aveva particolari affiliazioni
politiche, ma auspicava la rivoluzione, la velocità, il dinamismo,
l’aggressività e l’adulazione della macchina (
Marinetti). Era una visione intrisa di estetismo e simbolismo, che
attaccava la tradizione e il passato a favore della modernità e dei
suoi contenuti ‘artistici’ (il treno, l’auto da corsa). Si
riallacciavano alla filosofia di Bergson su tempo e flusso, sul ruolo
predominante del cambiamento.
Il manifesto futurista dell’architettura (che
non anticipò, però, una vera e propria architettura futurista),
scritto da Sant’Elia e Marinetti, parlava di una architettura
sradicata dalle continuità storiche e dalla tradizione, nuova,
moderna, che si avvalesse di nuovi materiali e nuove tecniche. Lo
stile era descritto leggero, agile, mobile, dinamico, fiero di
esporre la modernità, e non di nasconderla (ascensori non nascosti,
ma esibiti), libero da decorazioni tradizionali, lineare e a forme
pure, “brutta nella sua meccanica
semplicità”. Si predicava l’abolizione
del monumentale e del decorativo, ispirandosi solamente al proprio
genio, liberi da ogni tradizione.
I
contrasti tra il dinamismo e l’anarchia del futurismo e
l’organizzazione del Deutscher Werkbund è chiaro, ma entrambi i
movimenti poggiavano sulla convinzione che lo spirito del tempo fosse
legato alla meccanizzazione.
CAPITOLO 7
Il sistema architettonico di Frank Lloyd Wright
Gli
unici artisti, nella storia moderna, in grado di fondare, da soli e
al di fuori di ogni movimento, nuove concezioni architettoniche sono
stati Wright e LeCorbusier.
Wright
ruppe con l’eclettismo, trovando uno stile basato sulla
compenetrazioni di piani e volumi (che si trasformò poi
nell’International Style). Era uno stile rivolto al futuro, ma al
tempo stesso fortemente radicato nella tradizione americana e Art and
Crafts.
Il
suo punto di partenza era la condizione materiale e culturale del
Midwest americano, ma si spinse oltre, inglobando prima la totalità
della cultura americana, e poi il mondo intero, occidente e oriente
insieme.
Il
suo sogno era l’armonizzazione con la natura
e la rappresentazione della società umana.
Non
finì gli studi di architettura, e studiò in seguito da Sullivan, un
idealista che gli trasmise la convinzione che l’architetto del
midwest avesse la grande occasione di progettare libero da ogni
modello tradizionale o straniero, oltre che rappresentare la vera
“forma” della democrazia umana.
Wright
però non progettò grattacieli come il suo maestro, ma casette
unifamiliari. Nelle sue opere il focolare, come di tradizione, aveva
un ruolo dominante, in posizione centrale, quasi un simbolo sacro
della famiglia.
La
Winslow House era di
un’eleganza semplice e priva di fronzoli, con la facciata
principale simmetrica, costruita su due livelli rivestiti
diversamente e sormontata da un tetto fortemente orizzontale, ampio e
fornito di grondaie. All’interno il camino è centrale, e, come
usava spesso Wright, la camera da letto al piano superiore
corrisponde alla sala da pranzo nel piano inferiore. Era il risultato
dell’ordine assiale della tradizione classica, dell’architettura
di Sullivan (ruolo della Natura e struttura dell’edificio suddivisa
in basamento, parte mediana e sommità), della forte influenza del
sito e della natura presente (come l’albero che cresce e si adatta,
diviso in radice, tronco e rami) e della personalità del
committente.
La
casa di Wright era il rilassante rifugio rurale alla stressante vita
che i suoi committenti facevano a Chicago, e l’eleganza, la
linearità, l’attenzione ai particolari offrivano ai clienti un
rilassante mondo domestico.
Caratteristici
dell’opera di Wright erano il focolare, le vetrate colorate,
l’utilizzo di mattoni tipici del luogo, la spaziosità degli
interni e l’attenzione posta la comfort e al rilassamento. Le case
di Wright aiutarono la nuova borghesia americana a trovare la propria
identità.
Dalla
Winslow House Wright passò, nei primi del 900, al tipo da lui
ampiamente sviluppato della Prairie House,
dove l’uso dei materiali, l’integrazione con la natura,
l’unificazione degli arredi e degli impianti e i valori Arts and
Crafts assunsero un ruolo sempre più predominante, ma vennero
reinterpretate in modo da essere più vicine alla meccanizzazione e
alle nuove tecniche, considerando la macchina non come una
protagonista, ma come uno strumento
in grado di semplificare e migliorare il lavoro. Qui ebbe grande
importanza anche l’influenza che la cultura
orientale e giapponese in
particolare aveva su di lui, di cui ammirava le proporzioni, la
carpenteria, l’uso dei materiali umili, la collocazione nei
contesti naturali, la spiritualità. Wright ricercava un’espressione
che fosse in grado di esprimere all’esterno l’idea dei volumi
interni, restando sempre “a misura d’uomo”. La classica prairie
house di Wright era formata da lunghe e basse linee orizzontali
parallele al sito, ricca di tetti, verande, muretti, per una facciata
lineare e asimmetrica. Ampie finestre e pochi muri pieni, spazi
interni collegati fra loro e ruotanti intorno al focolare, arredi
incorporati e spazi interni ampi ed eleganti. La rotazione e
l’asimmetria si combinavano così in una struttura di piani
scorrevoli e sovrapposti, animati da un ritmo intenso.
La
Ward Willit House del 1902 è
arretrata rispetto alla strada, una bassa struttura di cui si
intravedo gli ampi tetti tra gli alberi. E’ divisa in quattro ali,
per snellirne la struttura, e, come spesso nelle sue opere, un
“percorso” si snoda dall’ingresso principale verso il
soggiorno, rialzato, ove dominano il camino e le finestre. Da qui si
passa poi nella sala da pranzo con vista sul giardino, fino all’ala
riservata alla cucina. Ogni più piccola parte è integrata col
tutto, dal mobilio alle inferriate, dalle finestre alle trame dei
mattoni.
Più
tardi Wright cercò di mettere insieme i principi della sua
architettura:
ridurre
il numero di parti al minimo e dare un’impressione generale di
unità;
associare
l’edificio col suo ambiente esterno, sottolineandone
l’orizzontalità ma lasciando libera la parte migliore del sito;
eliminare
la concezione delle stanze come scatole separate e dare a tutta la
casa proporzioni umane, adattando la struttura ai materiali del
luogo e all’uomo;
sollevare
il basamento al di sopra del terreno;
armonizzare
tutte le aperture con l’uomo e l’ambiente, senza ritagliare
buchi nei muri come in una scatola;
eliminare
per quanto possibile combinazioni di materiali differenti e non
usare decorazioni che non siano proprie dei materiali stessi. La
linearità è naturale perché lo è anche per le macchine che
tagliano i materiali;
incorporare
gli impianti idraulici, di aerazione, di illuminazione e di
riscaldamento nell’edificio
arch. organica;
incorporare
gli arredi con l’edificio, preferendo (per i motivi di prima)
linee rette e forme rettangolari
arch. organica;
eliminare
le decorazioni tutto curve ed efflorescenze;
La
Dana House (1904), per una
committenza molto ricca, occupava un intero lotto suburbano, e
comprendeva, oltre la casa principale, un’ala per la musica e i
resti del precedente edificio che andava a sostituire,come fosse un
tempio di famiglia, e ciò dimostra l’estrema varietà
dell’architettura di Wright. Wright utilizzò qui molto la volta e
l’arco, ora per rendere ambienti quasi sacrali, ora per conferire
un’aria istituzionale a quella che sarebbe potuta diventare il
centro di una piccola nuova cittadina del midwest.
La
Martin House (1904) era
anch’essa una residenza di gran lusso, completa di scuderia,
foresteria, pergolati, giardini, serre. Wright monumentizzò i suoi
moduli abituali, come tetti, pilastri e vasi da giardino, e il
risultato fu una struttura importante e lussuosa, ma fedele al suo
pensiero.
La
Coonley House (1908) era
un’altro esempio di unificazione di un'intera zona residenziale
benestante, nel pieno rispetto delle diverse esigenze. Wright
dimostrò così di saper creare strutture di grande dignità e
magnificenza senza perdere in coerenza.
Progettò
la piccola Glasner House su
un sito diverso dalle sue abitudini: un burrone boscoso. Wright così
rese la consueta orizzontalità col tetto, ma lasciò scendere le
forme dell’edificio a cascata, sfruttando i vari livelli del
burrone. Si entrava così dal piano più alto, scendendo poi nel
piano inferiore e addirittura in una sala da tè costruita su un
ponte.
ROBIE
HOUSE
La
Robie House (1910) fu tipico
esempio della Prairie House. Organizzata in due fasce distinte,
comprendeva un piano seminterrato con sala da biliardo e sala giochi
dei bambini, e un livello più alto con soggiorno e sala da pranzo,
due stanze unite in un’unica area separata solo dalla mensola del
camino. I rivestimenti interni nascondevano gli impianti e allo
stesso tempo aumentavano il senso di orizzontalità offerto
dall’edificio, ricco di piani prolungati (che oltre a proteggere le
finestre dalle intemperie fornivano un caldo senso di rifugio) che
mediavano interno ed esterno, creando l’antitesi della classica
architettura a “scatole chiuse”. Wright utilizzò qui mattoni in
cotto con fughe orizzontali scavate, in modo da aumentare
l’impressione di orizzontalità. La finestra piombata con forme
naturali, elemento tipico della sua architettura, questa volta era
decorata con disegni fortemente orizzontali e ripetizione di motivi
triangolari, che riprendevano i tetti e gli sbalzi. Nell’insieme
l’edificio rievocava romantiche silhouette, immagini “navali”,
richiamando gli elementi di Semper (piattaforma, focolare, tetto e
recinto), le falde geologiche (nel basamento di pietra) e
l’architettura orientale.
Wright
ricevette poi anche altri tipi di commissioni, e dovette adattarsi a
edifici come uffici (Larkin Building)
e luoghi sacri (Unity Temple),
entrambi risolti con forme pure, geometriche e lineari, e per lo
Unity Temple scelse il cemento, lasciandolo addirittura a vista
(fatto unico per un edificio religioso).
Costruì
per sé, in seguito al suo trasferimento nel Wiskonsin, Taliesin
(una casa sulla collina), celebrazione della vita
ideale in un ambiente naturale, finché un domestico impazzito non
sterminò la sua famiglia e bruciò Taliesin nel 1914, lasciandone i
segni nell’opera successiva di Wright.
CAPITOLO 8
Miti nazionali e trasformazioni del classico
Tutti
i più grandi architetti sono passati, in gioventù, da fasi
caratterizzate dalle due principali, e spesso contraddittorie,
correnti dell’epoca: una di tendenza regionalista,
l’altra di tendenza classicheggiante.
La
tendenza regionalista è
interessata al carattere, al clima e alla cultura dei luoghi
specifici, ai miti nazionali, sensibile alle politiche nazionaliste
di fine secolo, reazione all’omogeneità dell’industrializzazione
e contro il cosmopolitismo delle formule delle beaux-arts classiche.
Mondo rurale e mondo medievale venivano idealizzati (ma non imitati
ciecamente), sede della cultura autentica di ogni popolo. Gli ideali
Arts and Crafts erano esasperati, mentre la meccanizzazione era del
tutto esclusa. Era chiamato anche “romanticismo nazionale”, ed
era fortemente evocativo, soprattutto nelle silhouette e nelle
decorazioni, che potevano addirittura richiamare le gesta di eroi
nazionali.
Tra
il 1910 e il 1920, invece, in Europa ci fu un “ritorno all’ordine”
generale, caratterizzato dalla tendenza classicheggiante.
Rifiutava il soggettivismo, i campanilismi nazionali, gli ideali
espressionisti, in favore dei valori universali del passato classico.
Il classicismo beaux-arts continuò a dominare nel campo
dell’architettura pubblica, istituzionale e monumentale fin quasi
al 1950. Elementi caratterizzanti, oltre ad elementi tipicamente
classici (colonne, cupole frontoni, ecc…) e a facciate decorate,
l’uso di piante simmetriche dove gli assi principali
corrispondevano agli spazi più importanti, le ampie aree di
circolazione, spessi muri con nicchie e lesène, ricchi riferimenti
ad esempi classici di diversi periodi. Ma il classicismo diede anche
un impulso all’architettura moderna, soprattutto con quegli autori
che ad un classicismo sterile e “vecchio” preferirono una sempre
più radicale schematizzazione del classicismo, recuperandone la
purezza e l’essenzialità delle origini.
CAPITOLO 9
Cubismo, De Stijl e nuove concezioni spaziali
Dal
1915 in poi le manifestazioni dell’architettura mondiale che fino
ad allora avevano messo in evidenza una grandissima varietà
tenderanno a convergere sempre più, fino a coincidere, in alcuni
periodi, in un vero e proprio stile moderno, condiviso in tutto il
mondo occidentale. Questa sintesi fu favorita dagli approcci
razionalistici alla storia, dalle implicazioni filosofiche della
meccanizzazione, dal tentativo di non dimenticare la tradizione, dal
desiderio di onestà morale e semplicità, dall’aspirazione
all’universalità e all’internazionalismo, e grande importanza
ebbe anche l’influenza del cubismo e delle arti astratte,
utilizzando l’astrazione come mezzo di purificazione formale.
Il
Cubismo influenzò
l’architettura indirettamente, attraverso, cioè, la mediazione di
altre forme artistiche. Tra il 1907 e il 1912 Picasso e Braque
elaborano un linguaggio che fonde astrazione e frammenti di realtà
osservata, e queste forme furono assorbite, ad esempio, nel purismo e
nell’architettura di LeCorbusier, ma l’espansione di questa nuova
sensibilità in architettura in Germania e Russia necessitò, prima,
che il De Stijl ne preparasse
la strada.
DE
STIJL
Il
movimento De Stijl, fondato
nel 1917 in Olanda, riunì artisti di tutti i campi ispirati da uno
stile basato sull’enfasi dell’astratto e delle forme
rettangolari, concependo l’arte astratta come strumento di
rivelazione. I pittori più famosi furono Theo Van
Doesburg e Piet Mondrian,
ma furono lo stesso Van Doesburg e Gerrit Rietveld
a svilupparne le potenzialità in architettura. L’edificio veniva
considerato come una scultura astratta, un’entità artistica fatta
di colore, forma e piani intersecati. I colori caratteristici del De
Stijl erano nero, bianco
e colori primari, sistemati
in semplici geometrie rettangolari, elementi facilmente convertibili
nelle forme di un’architettura funzionale. Rompeva con gli schemi
assiali tipici del classicismo beaux-arts , creando equilibri
dinamici e asimmetrici tra forme e spazi. Era una concezione non del
tutto estranea a quella di Wright, ammirato da Berlage
(il padre dell’architettura moderna in Olanda),
che affermò infatti che in architettura decorazioni ed ornamenti
sono secondari, mentre i veri elementi essenziali sono lo spazio
e i rapporti tra i volumi.
Wright divenne così il principale ispiratore dell’architettura
moderna olandese, non solo del De Stijl, ma anche dei movimenti
espressionisti. Van Doesburg e Rietveld ammirarono, in particolare,
il carattere spaziale e il sistema di piani sospesi e intersecanti
dell’arte di Wright, e preferirono ignorarne il gusto decorativo ed
artigianale.
Opera
di grande importanza del primo De Stijl fu la Sedia
Rosso-Blu di Rietveld
(1917), che, influenzata dai mobili di Wright, tradusse in tre
dimensioni l’astrazione delle linee rette del De Stijl. Era un
prototipo fatto a mano che rappresentava l’arte delle macchine,
oggetto standardizzato e frutto di calcoli. Gli elementi parevano
fluttuare l’uno sull’altro, poggiando su linee infinite e piani
dello spazio astratto.
Il
primo edificio De Stijl è stato Casa Schroder,
progettata da Rietveld nel
1923. E’ caratterizzata da lisce forme rettangolari e brillanti
colori primari, da piani sospesi nello spazio sia in orizzontale che
in verticale. Non esiste un asse di simmetria, ma ogni elemento è in
relazione dinamica e asimmetrica con gli altri. Le ringhiere e i
montanti delle finestre sono neri, in netto contrasto con le
superfici grigie o bianche delle pareti, e, mentre i colori ricordano
la pittura De Stijl, gli elementi sconnessi tra loro e isolati nello
spazio rimandano all’elementarismo della sedia rosso-blu. L’interno
è in perfetta sintonia con l’esterno, e al piano superiore fu
introdotta per la prima volta la “pianta libera”, cioè la
possibilità di rimuovere le pareti divisorie creando un unico
spazio, e fu fatto ricorso anche ai primi, rivoluzionari, mobili ad
incasso. Casa Schroder è un’opera d’arte totale, in cui pittura,
scultura, architettura ed arti applicate si fondono insieme.
Per
i seguaci del De Stijl la nuova architettura, con i suoi piani lisci
e levigati, i nuovi materiali e la libertà da ogni impressionismo,
poteva addirittura superare, nella sua condizione di libertà
non-essenziale, la purezza del mondo classico (Oud).
CAPITOLO 10
La ricerca di LeCorbusier della forma ideale
Negli
anni venti la corrente architettonica chiamata “International
Style” ha creato forme che sembravano demolire i precedenti stili e
stabilire una nuova base comune. Era più di uno stile, più di una
rivoluzione tecnica e costruttiva: implicava nuove idee e sentimenti
utopici. Fu esemplare l’opera di LeCorbusier,
che mirò alla città ideale, alla filosofia della natura e alla
tradizione, investendo il tutto di un tono universale e
condivisibile.
LeCorbusier
(Charles
Eduard Jeanneret) nacque nel 1987 in Svizzera. In gioventù studiò
le forme naturali ed apprezzò il valore estetico delle forme
semplici, e si interessò di idealismo e spiritualità nel campo
artistico (geometria
mezzo per esprimere le più alte verità). Assimilò la versione
messianica e superomistica dell’artista predicata da Nietzsche, ed
evitò accuratamente insegnamenti di stampo beaux-arts. Era un
autodidatta che imparava facendo, viaggiando, osservando. Da giovane
aveva già lavorato per gente come Perret a Parigi e Behrens a
Berlino, imparando i pregi del cemento armato e del razionalismo
francese dall’uno (qui progettò la struttura Dom-ino), e il
controllo totale dei progetti dalla parte più grande alla più
piccola (qui probabilmente iniziò a pensare ai tipi, ai moduli)
dall’altro. Nei suoi viaggi visitò Italia, Grecia e Asia minore,
schizzandone le architettura per comprenderle più a fondo, e fu
colpito in particolar modo dal Partenone, che per lui assunse il
valore dell’inafferrabile
assoluto.
Disprezzò invece il barocco italiano e gli orrori
dell’800,
così come il neoclassicismo tipicamente accademico. La sua vera
“antichità” era il classico del Partenone, del Pantheon. Dopo il
viaggio in Italia acquisì la convinzione di non essere inferiori al
passato, ma, anzi, di poter creare un’architettura moderna, fatta
di solidi semplici, di ritmiche successioni, in grado di esprimere il
proprio tempo e, così, superare addirittura i livelli
dell’antichità.
Si
interessò al cemento armato, dando vita a Villa
Schwob, di
stampo classico nelle proporzioni e nelle simmetrie, rimandante a
Wright negli interni e chiaramente influenzata da Perret e Behrens
nell’uso del cemento armato, ma tutto ciò era valorizzato dalla
sua grande abilità compositiva.
Nel
1917 si trasferì a Parigi, ed entrò in contatto con i movimenti
post-cubisti e futuristi. Qui conobbe Ozenfant, che lo introdusse nel
mondo della pittura, da loro poi definita purista.
Era di impostazione cubista, ma rigettavano il mondo bizzarro e
frammentato di Picasso e Braque in favore di un preciso ordine
matematico (forse un richiamo all’ordine dopo il caos della
guerra). Rifiutarono il De Stijl perché non potevano accettare
un’arte non oggettiva. LeCorbusier cercava, nella sua pittura, le
idee degli oggetti, una ricerca platonica che anticipava la ricerca
dei tipi ideali. Per lui le
forme pure
e precise
erano le più adatte per l’età della macchina.
Nel
1920 intraprese definitivamente la strada dell’architettura,
cambiando il suo nome da Jeanneret in LeCorbusier. Fondò, con
Ozenfant, la rivista L’Esprit
Nuveau,
e scrisse un libro, Verso
un’architettura.
Non era una semplice difesa del funzionalismo, era infatti carico di
contenuti poetici, enfatizzati nell’artisticità della forma.
Ispirato dalla pittura purista e dal suo platonismo sostenne
l’esistenza di forme di base straordinariamente belle, trascendenti
tempo e stile, forme assolute e ideali, un linguaggio universale
dello spirito. Importanza basilare avevano le forme
pure,oggettivamente belle, e la luce, nel suo ruolo di elemento
indispensabile per rivelarne la bellezza.
Sottolineò
come l’arte antica sfruttasse tali forme pure (piramidi, templi
greci, pantheon, bagni romani), mentre l’architettura recente ne
fosse priva e vuota di contenuti. Apprezzò, invece, la rigida
funzionalità di automobili e aeroplani, l’armonia presente in
alcune opere ingegneristiche ed architettoniche quali silos per il
grano e fabbriche. Propose ardue similitudini fra antichi monumenti e
moderne automobili, sottolineando come basti identificare chiare
“forme-tipo” e relazionarle fra loro nel giusto modo per poter
ambire alla perfezione del sistema.
La
prima casa che, ispirandosi al modello dell’automobile, cercò di
sviluppare la sua nuova concezione fu la Maison
Citrohan
(1922). Era un prototipo, una scatola bianca su pilastri con tetto
piano e finestre di tipo industriale. L’edificio, in cemento,
mirava alla produzione in serie, ed era stato pensato componendo i
bisogni dell’uomo e dando una risposta soddisfacente ad ognuno di
essi. Il colore bianco era stato “rubato” dalle abitazioni
mediterranee che aveva visto durante i suoi viaggi.
Nel
1924 riuscì finalmente a convincere un imprenditore, Frugès, a
fargli realizzare un intero complesso residenziale sulla linea-guida
della Maison Citrohan. Sorse così uno stravagante quartiere dalle
tinte verdi, marroni e bianche, e sperimentò anche nuove tecniche
quali il getto di cemento.
Ma
la Francia del dopoguerra non permetteva grandi imprese costruttive,
e così LeCorbusier si dovette accontentare di soddisfare le esigenze
di una piccola parte alto-borghese della società. Nacquero così
parecchi esperimenti su piccola scala ricchi di spunti interessanti,
come l’utilizzo di elementi industriali (es. finestre) nelle
residenze, tetti piani e terrazze dal sapore mediterraneo,
“straniamento” generato da accostamenti e locazioni inusuali
delle stanze, allo scopo di abbandonare le vecchie abitudini.
La
Maison La
Roche / Jeanneret del
1923 è la fusione di due case, per due famiglie, in un edificio a L.
Si misurò qui con le richieste differenti di dei due committenti,
uno collezionista d’arte scapolo, l’altro (il fratello) appena
sposato. All’interno, in chiaro stile purista, l’arredamento è
di chiara estrazione industriale (lampadine a bulbo, sedie Thonet,
ecc…), e l’esterno tendeva allo stesso risultato, con ampie
vetrate in linea con le pareti bianche, verdi o marroni. La Maison La
Roche era percorribile lungo un percorso iterante adatto al suo uso
di Atelièr. L’edifico dava un senso generale di leggerezza, pareva
sospeso nel vuoto, ed era infatti sua convinzione che in futuro le
case sarebbero dovute essere sollevate di un piano per permettere lo
scorrimento delle automobili.
In
LeCorbusier architettura e urbanistica si fondono, animate dall’unica
visione della tecnologia come forza progressista in grado di
ristabilire un ordine naturale ed armonico. Il razionalismo fu per
lui un trampolino di lancio verso un’espressione lirica, con la
struttura sempre subordinata agli obiettivi formali.
La
Maison Cook
(1926)
nasceva su un lotto stretto fra altre case, e solo la facciata
sarebbe risultata visibile. La forma è quasi un cubo, e la simmetria
è rafforzata dalle fasce di finestre e dall’unico pilastro
centrale, ma all’interno di ciò tantissimi piccoli particolari
asimmetrici ne rendono più vario l’aspetto. All’interno i vari
ambienti sono incastrati come un puzzle nel cubo, la consueta
collocazione delle stanze è stravolta, e le pareti interne, spesso
curve, enfatizzano la “pianta libera”. E’ un’opera matura, e
scriverà in seguito di aver applicato con certezza le recenti
scoperte come la pianta libera, la facciata libera, le finestre a
nastro, il tetto giardino, i pilastri, le proporzioni, la base
sgombra da elementi, l’inconsueta collocazione degli ambienti
(stanze più importanti più in alto).
Identificò
le 5 “certezze recenti” come i 5
punti di una nuova architettura,
cioè pilotis, tetto giardino, pianta libera, facciata libera e
finestre a nastro.
Il
pilotis era
fondamentale: sollevava gli edifici lasciando lo spazio sotto
sgombro, e ciò invertiva la normale aspettativa del piano terra come
il più massiccio;
Il
tetto
giardino
era il mezzo principale per reintrodurre la natura nella città, e
fungeva anche da isolante;
La
pianta
libera
permetteva qualsiasi disposizione di stanze, pareti esterne o pareti
interne a seconda delle esigenze personali ed estetiche;
La
facciata
libera
consentiva qualunque tipo di apertura, finestra o riempimento,
secondo le esigenze di vista, clima e privatezza;
La
finestra a
nastro divenne
la sua soluzione prediletta alla facciata libera, visto che faceva
entrare più luce e rendeva un rilassante effetto di orizzontalità.
Nel
1926 poté progettare la Villa
Stein / de Monzie.
Si articolava su un ampio lotto stretto e lungo, un formale blocco
rettangolare, reso leggero dalle bande orizzontali di muro bianco e
dalle strisce vetrate. E’ imponente, effetto aumentato dal balcone
centrale stile “palazzo reale” e dal monumentale viale di
ingresso. L’esterno suggerisce, mediante vetrate e terrazzi, la
suddivisione interna, rendendo visibili le varie stratificazioni di
cui la villa è formata. Lungo il cammino professionale interno sono
esposti i pezzi della collezione d’arte degli Stein, percorso reso
rilassante dalla combinazione di griglie di pilotis e di superfici
curve. Le similitudine ingegneristiche e navali sono presenti
soprattutto sul tetto, dove un magazzino curvo e sporgente rende
l’idea del transatlantico, aiutato dalle balaustre di tipico gusto
navale. Era una villa moderna con un’armonia, un gusto e una quiete
classica.
LeCorbusier
nel 1927 aveva già prodotto un intero sistema architettonico basato
su “forme tipo” capaci di innumerevoli variazioni, un sistema
applicabile su tutte le case e per tutte le occasioni. Inizialmente
guidato dall’utopia dell’età della macchina, il nuovo sistema
fornì soluzioni valide al più vasto problema di una architettura
moderna.
CAPITOLO 11
Walter Gropius, l’Espressionismo tedesco e il Bauhaus
Nel
dopoguerra, crollato il sogno di Muthesius di una grande kultur
unificata, si venne a creare un periodo ambiguo, generato dal caos
economico e dalla polarizzazione politica sull’estrema destra e
sinistra. Gropius
si accorse
di questo bisogno di un nuovo ordine nell’arte, che generò negli
artisti e negli architetti il tentativo di redimere la società
attraverso l’arte, rivelandone le forme e i simbolismi.
Il
Bauhaus
nacque
dalla fusione di due istituzioni esistenti a Weimar: la vecchia
Accademia delle Belle Arti e la Scuola di Arti Applicate, era infatti
obiettivo di Gropius una fusione tra arte e artigianato. L’ideale
del Bauhaus era l’integrazione sociale e spirituale, in cui artisti
ed artigiani si sarebbero uniti per creare un simbolico edificio
collettivo del futuro. Gropius dava enorme importanza
all’artigianato, espressione più vera dei veri sentimenti del
popolo. Il suo radicamento nel movimento Arts and Crafts era chiaro
nel modo di educare gli allievi della Bauhaus, visti come apprendisti
in una corporazione dell’artigianato, educati all’uso delle più
varie tecniche artigianali così come allo studio della forma e del
colore (insegnavano qui pittori come Klee e Kandinsky). Era una
scuola molto eclettica, che spaziava in tutti i campi dell’arte, ma
solo dopo aver fatto “disimparare” all’allievo tradizioni e
abitudini accademiche. Negli insegnamenti di Itten, insegnante del
Vorkurs,
al “disimparare” faceva seguito un ritorno al primitivismo, con
riferimenti espressionisti e dadaisti.
In
questa Germania lacerata dall’inflazione, però, gli unici artisti
in grado di vendere le proprie opere parevano i ceramisti, tuttavia
nel 1920 Gropius ebbe l’incarico di progettare una casa in legno
per i Sommerfeld. Gropius si avvalse della collaborazione dei suoi
studenti per gli interni e l’arredo, tra cui Breuer.
L’edificio appariva ricercatamente ingenuo, medievaleggiante, ma il
largo uso del legno pare distante dai futuri lavori in acciaio della
Bauhaus.
Mendelsohn
rientrava
nel gruppo di artisti denominati come “espressionisti”, anche se
è piuttosto difficile delineare i confini di questa corrente o
semplificarla all’attitudine anti-razionale dei suoi sostenitori.
Nel
1920 poté progettare l’osservatorio dedicato ad Einstein
a Potsdam, e il risultato fu un edificio assiale, ricco di forme
curve e dinamiche, che si innalzava in una torre-telescopio. La
sinuosità e la plasticità dell’edificio cercavano di riflettere
le teorie Einsteniane di materia ed energia, infatti, per Mendelsohn,
i nuovi propulsori della società erano proprio industria e scienza.
Ludwig
Mies van der Rohe fu
un altro architetto tedesco definito “impressionista”, prima di
maturare su uno stile dalle forme rettilinee, basato
sull’accentuazione poetica di struttura e tecnologia. La sua torre
di vetro,
lavoro giovanile, è l’essenza del grattacielo, il palazzo alto
spoglio di ogni cosa, con la struttura a vista e l’etereo
rivestimento vitreo. Non è semplice minimalismo, ma la silhouette
romantica e i giochi di luci rendono questo edificio per uffici
simile ad una cattedrale gotica.
Dopo
le ardue sperimentazioni nel campo del vetro progettò un edificio
per uffici in cemento, questa
volta sviluppato su equilibri orizzontali e su piani sospesi. Ogni
piano sporgeva un po’ rispetto a quello sottostante, creando un
effetto ottico “espressionista”, quasi una rivisitazione
dell’entasi classica.
Nel
1923 fondò il gruppo G di
Berlino, in opposizione al formalismo e a sostegno di forme
strettamente legate alla praticità e alla costruzione (Nuova
Oggettività), esaltando materiali come vetro,
cemento e ferro.
Nel
frattempo l’economia tedesca mostrava segni di ripresa, mentre il
governo social-democratico della neonata Repubblica di Weimar si
dimostrò sostenitore del moderno: finalmente i progetti non
sarebbero più rimasti soltanto tali.
La
villa in mattoni del 1923
determinò la maturazione dell’opera di van der Rohe. Mai
realizzato, questo progetto prevedeva una pianta composta da linee di
varia lunghezza e spessore che sembravano estendersi all’infinito,
partendo dal cuore dell’edificio. Queste linee murarie si
interrompevano solo per lasciare spazio a vetrate a tutta altezza. In
futuro tutto il suo stile si baserà su questa smaterializzazione dei
piani, sul loro fluttuare e sulle piante centrifughe e in rotazione.
Riprese
l’irregolare rivestimento in mattoni anche per il
monumento a Rosa Luxemburg,
una massa di volumi rettangolari compenetranti.
Tra
il 1922 e il 1923 emerse definitivamente l’International Style.
Nella Bauhaus si manifestò un nuovo orientamento, basato sulle forme
base, semplici, su un ritorno di interesse per la forma. Per Gropius
bisognava entrare in rapporto con la macchina, sia acquisendone le
tecniche, sia ricercando uno stile adatto all’epoca della
meccanizzazione. Bisogna evitare sia la pura funzionalità, sia il
kitsch, e sintetizzare tutte le arti per la costruzione dell’opera
totale: l’edificio. Alla Bauhaus si mirava ad un’architettura
organica, chiara, logica, adatta al nuovo mondo delle macchine, al
passo con le nuove tecniche ed i nuovi materiali. Bisogna abbandonare
la vecchia simmetria assiale, in favore di un nuovo equilibrio
asimmetrico ma ritmico.
Nel
1925 però la Bauhaus dovette addirittura trasferirsi, in seguito
alle pesanti accuse rivolte loro dall’estrema destra pre-nazista.
Lasciata
quindi l’ostile Weimar, il movimento si trasferì a Dessau, dove,
anche grazie alle simpatie del sindaco, si presentò la grande
occasione di costruire un edificio, sede della scuola, che esprimesse
in sé tutti i valori e la filosofia stessa della Bauhaus. Gropius
intese l’edificio come insieme di parallelepipedi separati,
connessi tramite strutture intermedie di collegamento. Un ponte
collegava gli atelier artistici, passando sopra ad una strada, e i
diversi ritmi delle superfici vetrate rispecchiava esternamente la
suddivisione interna degli ambienti e delle luci. L’International
Style maturò nel Bauhaus, e il nuovo edificio inaugurò l’età
d’oro della scuola, che vantava insegnanti del calibro di Klee,
Kandinsky, Breuer. Si svilupparono progetti di sedie basati sul
tubolare d’acciaio, ideali per le nuove costruzioni standardizzate,
così come per i sistemi di illuminazione e per gli oggetti per la
casa.
Quando
però le committenze si fecero più numerose, il modo in cui la
Bauhaus e la Nuova Oggettività trasferirono “l’estetica della
fabbrica” e gli schemi residenziali di ispirazione inglese nella
casa tedesca non fece altro che aumentare i sospetti e le accuse nei
loro confronti, visti come animati da spirito anti-tedesco,
innaturale, meccanicistico, inumano, fino al bolscevismo e alla
sovversione. In effetti con la Nuova Oggettività la forma stava
perdendo tutta la sua importanza, troppo drasticamente per una
Germania dall’anima romantica e nazionalista.
Quando,
alla grande mostra del 1925, tutte le opere presentate dai grandi
dell’architettura mondiale (quali Mies van der Rohe, Gropius, Taut,
Oud, Stam, Bourgeois e LeCorbusier) sembrarono al pubblico tutte
uguali, nel loro ripetersi di bianchi volumi cubici, piante libere e
forme rettilinee, si gridò allo scandalo, al “complotto
internazionale comunista”. L’International Style venne apprezzato
solo da una piccolissima parte di pubblico.
Nel
1928 Gropius lasciò il Bauhaus nelle mani di Meyer, ancor più
radicale nel considerare l’architettura il risultato del prodotto
tra funzione ed economia, con il totale disprezzo del formalismo. Era
una concezione socialista-materialista più che capitalista. Modificò
il nome del dipartimento di “architettura” in “costruzione”,
ed incoraggiò l’uso del compensato per la creazione di mobili
economici. Le critiche aumentarono sempre di più, mentre Meyer fu
sostituito da Mies van der Rohe, ma nel 1933, con i nazisti al
potere, la scuola fu chiusa definitivamente, e i metodi e le menti
che avevano animato la Bauhaus si frammentarono emigrando in America.
CAPITOLO 12
Architettura e Rivoluzione in Russia
L’architettura
moderna è stata pervasa da molti e diversi modi di intendere la
propria ideologia, dal socialismo a-politico di Gropius, al marxismo
materialista di Meyer, agli utopismi di LeCorbusier e Rietveld.
L’architettura
sovietica degli anni venti era intrisa della convinzione
post-rivoluzionaria dell’architettura moderna per il nuovo ordine
sociale.
Tutto
ciò non era facile: bisognava tralasciare completamente le
tradizioni, cercare di immaginare i nuovi valori (ancora in fase
embrionale) da esprimere come caratteristici della nuova società,
non era chiaro nemmeno il ruolo dell’architettura, se conseguenza o
spirito guida del nuovo ordine.
La
precedente architettura in Russia era un eclettismo intriso di echi
europei, e questa diffusione di architettura moderna fu solo un
intermezzo prima del ritorno della vecchia architettura, sfruttata
durante la dittatura di Stalin.
La
Russia, priva di talenti, si ritrovò così in un periodo di intensa
sperimentazione formale almeno fino al 1924, quando la situazione
economica parve migliorare. Il bisogno di rompere col passato, la
carenza economica (e quindi l’impossibilità di mettere in pratica
i progetti) e la continua ricerca di un nuovo linguaggio potarono ad
un utopismo avventato privo di senso pratico. Le prima direttive a
questa nuova architettura si ebbero nel 1918 con l’abolizione della
proprietà privata. Si tenne d’occhio l’Europa, e fecero proprie
alcune idee futuriste, spogliate del loro carattere proto-fascista e
associate alle idee socialiste, e così il culto della macchina,
simbolo del progresso, divenne un importante riferimento della nuova
società (scelta curiosa, vista l’arretratezza tecnologica di cui
gravava la Russia).
Si
sviluppò un’iconografia che fondeva i piani fluttuanti dell’arte
astratta con citazioni della fabbrica e della meccanizzazione, anche
se ciò avveniva in modo più “teatrale” che naturale, vista
anche l’estrema arretratezza russa.
Nel
progetto per il monumento per la Terza Internazionale Tatlin
ha messo tre volumi (cubo, piramide e cilindro) sospesi all’interno
di due spirali strutturali intrecciate, ognuno contenente una sala
congressi dello stato. Le tre sale ruotavano a velocità differente
(mese, anno, giorno), in linea con l’importanza. Il monumento
sarebbe dovuto essere alto 400 m e verniciato di rosso. La spirale
aveva grande importanza nell’architettura russa, vista come emblema
dei tralicci ingegneristica, e poeticamente come forma legata al
terreno ma proiettata in una fuga dalla terra. L’intera opera era
un emblema dell’ideologia marxista, una società che aspirava al
più alto stato dell’utopia proletaria egalitaria.
Altre
manifestazioni d’avanguardia si riscontrarono al concorso per la
realizzazione del Palazzo del Lavoro
(1922-23), un complesso enorme e multifunzionale che non aveva
precedenti. I fratelli Vesnin
proposero un edificio formato da forme semplici collegate tra loro
con ponti e corridoi, un’ostentazione del cemento armato e degli
elementi strutturali, ma anche questo progetto non fu mai realizzato.
Tutta
l’architettura russa pareva ormai prigioniera di un utopico
tentativo di celebrazione tecnologica in uno stato privo di risorse e
arretrato tecnologicamente.
Dopo
questo periodo di sperimentazioni ed ipotesi proseguito fino al 1925
si entrò finalmente in una fase di realizzazioni.
Melnikov
progettò circoli ed edifici pubblici, creando dinamici volumi
scultorei (come tutti i membri dell’ASNOVA). In seguito l’ASNOVA
fu duramente criticata dall’OSA (unione architetti), rea di
mancanza di attenzione verso la praticità.
Opposto
al formalismo dell’ASNOVA era il puro funzionalismo, e l’OSA
cercò sempre di stare in mezzo a queste due tendenze, divagando
spesso, però, nel puritanesimo espressivo. Caratteristica opera è
il Narkomfin, residenza in
cui i classici schemi erano sovvertiti in favore di una suddivisione
interna tipicamente socialista, ricca di aree comuni e attenta agli
equilibri tra singolo, famiglia e società. Lo stile, qui come
nell’architettura russa per molti anni, doveva molto a LeCorbusier,
un basso blocco sopraelevato su pilotis con finestre a nastro e
tetto-giardino comune.
Nel
1927 fu offerto a LeCorbusier
il progetto per l’Unione Centrale delle Cooperative dei
Consumatori, e l’architetto dovette cercare di estendere il suo
stile per ville a un’edifico imponente e multifunzionale.
LeCorbusier superò qui i costruttivisti sul loro stesso terreno,
enfatizzando le zone di circolazione, sottolineando il dinamismo
dell’asimmetria dell’edificio.
Un
architetto che trascende la disputa formalista/funzionalista russa è
Ivan Leonidov, essendo
riuscito ad operare una sintesi tra forma e funzione. Nell’Istituto
Lenin di studi bibliotecari ha creato una similitudine con il
planetarium, costruendo una biblioteca cupolare in vetro, quasi una
mongolfiera trattenuta dai tiranti metallici.
Alla
fine degli anni 20, però, la divergenza tra popolo e architettura
moderna era sempre più evidente, inoltre gli organi dello stato
erano ormai convinti che l’architettura moderna non fosse più
adatta agli obiettivi dello stato, e fu soppiantata dal vecchio
eclettismo e classicismo russo.
Proprio
mentre l’architettura moderna in Germania era accusata di
bolscevismo, la stessa architettura in Russia era condannata come
borghese e capitalista, mentre da una parte Hitler e dall’altra
Stalin premevano sulla tradizione, sul nazionalismo e sull’autorità
statale.
Ultimo
atto dell’architettura moderna russa fu il concorso per il Palazzo
dei Soviet, per cui LeCorbusier
ci ha offerto uno dei suoi capolavori. I due
auditori erano disposti sullo stesso asse, forme derivate
dall’ottimizzazione acustica interna. Il tetto della sala
principale era sospeso mediante cavi d’acciaio che scendevano da un
arco parabolico. Con i suoi spazi in tensione dinamica, le struttura
trasparenti e le ampie aree assembleari, il progetto era l’immagine
di un meccanismo di vita collettiva, un monumento alla democrazia. Ma
il palazzo, tanto per cambiare, non fu mai realizzato, visto che si
impose il gusto ufficiale, capace di rifiutare LeCorbusier e Gropius
e di accettare un esagerato mausoleo neoclassico.
CAPITOLO 13
Grattacielo e periferia:
gli Stati Uniti tra le due guerre
L’edilizia
statunitense conobbe il suo boom tra la fine della prima guerra
mondiale e il crollo di Wall Street del 1929. Le città crebbero
vertiginosamente, sorsero ovunque grattacieli e le periferie si
estesero a vista d’occhio. Nessuno si accorse della crisi verso cui
stavano andando queste grandi città, e la politica del laissez-faire
prevaleva sulle quasi assenti aspirazioni riformiste ed utopistiche,
presenti solo nel campo dell’abitazione rurale e monofamigliare.
Gli
Usa erano in una specie di “letargo culturale” da qualche
decennio, prigionieri di una fase conservatrice che li portava a
vedere con sospetto il fervore artistico che viveva in Europa. Gli
architetti rimasero insensibili all’enorme potenziale tecnologico
americano, e l’ingegneria continuò ad essere vista solo come un
mezzo materiale.
L’America
si era riversata sulle Beaux-Arts perché questo classicismo così
adatto per la monumentalità e così facile da recepire era l’ideale
per uno stato che si stava avviando ad essere la prima potenza
mondiale.
Il
classicismo era l’ideale per rendere più eleganti le città
americane, e spesso si prendevano spunti dalla Roma imperiale e dalla
Parigi di Haussmann. Da un lato architetti americani e clienti
desideravano importare la cultura decorativa europea, dall’altro
l’avanguardia moderna europea vedeva nell’America la terra
promessa per la loro architettura. LeCorbusier, descrivendo un
grattacielo americano finemente decorato, esprimerà come sia bene
fidarsi degli ingegneri americani, e come sia bene invece non
ascoltare gli architetti americani.
Col
boom le industrie americane, cresciute enormemente, sentirono il
bisogno di essere presenti nelle città mediante imponenti
grattacieli, attenti, questa volta, anche all’importante aspetto
stilistico e d’immagine della società stessa. Mentre elle origini,
con Sullivan, si era cercato di dare al neonato grattacielo un nuovo
linguaggio, negli ultimi decenni la tendenza era stata di
“rivestirli” con gli stili più disparati, rubati all’Europa,
per dar loro una parvenza di civiltà. Crebbero, così, città
totalmente eclettiche, in cui si rasentava spesso il kitsch. Nel 1922
un concorso a Chicago offrì un lotto per quello che sarebbe dovuto
essere “uno degli edifici più belli al mondo”: i progetti
presentati erano tutti sulla linea dell’eclettismo, del remake o
dell’imitazione (Adolf Loos addirittura trasformò l’intero fusto
del grattacielo in una colonna dorica, e ci fu chi propose una
rivisitazione del campanile di Giotto), mentre i progetti europei
erano molto diversi, tutti sobri, privi di humour e cattivo gusto.
Taut propose un edifico che era una celebrazione del vetro e
dell’acciaio, Gropius si basò sul telaio rettangolare, in una
costruzione che partiva dalla Chicago School e si realizzava negli
ideali Bauhaus. La giuria, però, trovò i progetti europei troppo
“ingegneristica” e privi di gusto architettonico, e preferì
ripiegare su un progetto neo-gotico di Raymond Hood. Il secondo
arrivato, invece, era molto più interessante: un progetto del
finlandese Saarinen, lodato
dallo stesso Sullivan.
A
New York divenne simbolico il Chrysler Building
di Van Alen,
celebrazione del successo finanziario, l’edifico più alto del
mondo (260m) fino alla costruzione dell’Empire State Building. Si
ergeva su una base di 20 piani, un fusto intermedio grigio chiaro
sormontato da una raggiera d’acciaio inossidabile culminante in una
guglia. Le finestre accentuavano l’effetto di verticalità, che
terminava nella sommità tondeggiante, come a rappresentare i
movimenti degli ascensori. Era un edifico di grandissima eleganza,
sia internamente che esternamente, anche se la presenza del cliente
era ovunque: sculture a forma di tappi di radiatori, fregi di ruote,
stemmi della casa, aquile americane e “cimeli” all’interno del
palazzo.
Dopo
questo monumento del capitalismo, Sullivan affermò di disperare
ormai della possibilità di creare un’architettura americana,
sconfitta da questa “incivile” architettura capitalista.
LeCorbusier fu inorridito dai grattacieli di Manhattan, ma era
indubbio il loro potere simbolico ed estetico nel mondo della
finanza.
Dopo
la crisi del 1929 si costruirono meno grattacieli, ma si assistette
comunque alla costruzione dell’Empire State
Building nel 1931, una vera e propria città in
verticale, che aveva perso però l’eleganza del Chrysler Building.
I
progetti più innovativi non vennero però mai costruiti, come quelli
di Wright, che, nonostante la
sua avversione per la città, riconosceva il grattacielo nella città
moderna ideale. I suoi progetti prevedevano piani sostenuti da
pilastri, illuminazione per quanto possibile naturale, contatto con
l’esterno. Se per Sullivan il palazzo alto era l’espressione
della verticalità, per Wright era un insieme di piani orizzontali
compenetranti.
Wright,
dopo l’incendio di Taliesin del 1924, passò molto tempo in
Giappone, e al suo ritorno ricostruì Taliesin, il suo laboratorio
vivente.
Progettò
la Barnsdall House (Hollyhock
House), in California, un complesso contenente un teatro, studi,
alloggi per artisti. Wright la concepì come una serie di fasce
orizzontali, con terrazze e tetti piatti. Era una vera e propria
scultura paesaggistica su larga scala, con un fiume artificiale e il
teatro che faceva da monumento.
Uno
dei suoi allievi più promettenti fu l’austriaco Schindler,
che aveva assorbito pienamente l’insegnamento del maestro, la vita
a contatto con la natura, i riferimenti al sito e all’antichità
(soprattutto del posto), l’archetipo del “rifugio”, ma con un
occhio all’architettura moderna europea.
L’altro
allievo degno di memoria è il viennese Neutra,
più radicato nell’architettura moderna europea, ma allo stesso
modo intriso dell’organicismo di Wright, senza tralasciare la sua
visione di uno stile di vita profondamente naturale.
CAPITOLO 14
La comunità ideale:
alternative alla città industriale
La
ricerca di nuovi stili di vita si manifestò anche in progetti
idealistici, e a volte utopistici, per la ripianificazione della
città industriale. Questi
progetti erano destinati a rimanere tali, ma hanno avuto lo stesso
grande influenza sulle realizzazioni future.
Le
nuove città cercavano di liberarsi dalle “forme morte”, anche se
erano spesso assemblaggi di elementi urbani preesistenti, ricomposti
in modi nuovi, spesso con una vena nostalgica verso il passato.
I
problemi fondamentali furono affrontati da urbanisti quali Garnier,
Berlage, LeCorbusier
e Gropius, stimolati dalle
nuove problematiche emerse nella città industriale. La velocità
dell’immigrazione dalle campagne aveva determinato la nascita di
informi e malsane periferie, l’espansione selvaggia aveva reso i
trasporti insufficienti, e i nuovi ritmi economici avevano trovato
delle infrastrutture urbane inadeguate. L’armonia tra società e
natura era perduta, e doveva essere recuperata.
C’erano
modi diversi di criticare il degrado della società industriale:
Marx
ed Engels ne trovavano le
cause nel capitalismo, ed unica soluzione era la rivoluzione;
Socialisti
utopisti come Saint-Simon e Fourier auspicavano una irreale
cooperazione tra le classi in una società egalitaria;
Il
barone Haussmann tentò di
risolvere il problema isolando, per mezzo delle boulevard, i
quartieri operai dal centro borghese;
A
New York si era cercato di introdurre la natura nel centro con il
Central Park;
Sitte
fu il primo a sostenere l’importanza del tessuto urbano
preesistente, per evitare gli interventi proposti in tutta Europa
che prevedevano una “tabula rasa”;
Arturo
Soria y Marta sostenne i vantaggi della città lineare rispetto alla
città gerarchica nel mondo industriale, che necessita di facili
trasporti;
L’inglese
Howard propose il decentramento, il modello di città pluricentrali
e meglio gestibili, sintesi tra mondo rurale e mondo urbano, una
Garden City secondo gli insegnamenti di Morris e Ruskin;
Unwin
realizzò una zona urbana stile Garden City in pieno stile Arts and
Crafts in Inghilterra;
Garnier,
nella sua citè industrielle,
proponeva la città industriale ideale, l’organizzazione più
redditizia e i compromessi migliori, rispecchiando la sua ideologia
socialista e le sue utopie neoclassiche;
Berlage
realizzò l’estensione di Amsterdam in modo ammirevole, rendendola
in miglior esempio di architettura moderna in Europa. Portò ordine
dove non c’era mediante grandi viali alberati, tenendo le
abitazioni in stretto contatto con i giardini;
LeCorbusier
cercò di ridurre la città industriale ai suoi
rapporti principali, cercando una sintesi tra meccanizzazione,
ordine geometrico e natura. La “ville contemporaine”, progetto
per una città ideale di 3 milioni di abitanti, si strutturava su 3
livelli, il più elevato dei quali era l’aeroporto. I fulcri
politici,economici e sociali erano grattacieli, e il resto della
città era organizzato in modo razionalista e disciplinato, con le
classi sociali separate e il massimo apporto di spazi aperti (la
strada tradizionale era abolita: tutto era sollevato su pilotis,
lasciando liberi grandissimi spazi);
May
progettò a Francoforte un’area urbana
vastissima, ispirata vagamente alla Garden City. Era una città che
puntava tutto sulla funzionalità e sulla razionalità, sfruttando
al massimo la produzione in serie. E’ in questo contesto che è
stata progettata la “cucina di Francoforte”. Questo spirito
analitico, così attento alla compattezza e alla funzione, ebbe
grande influenza in tutta l’Europa, simbolo di un’economia
socialmente attenta, a differenza del brutale laissez-faire
americano;
Gropius
e Taut a
Berlino, ormai vicini alla Nuova Oggettività. Taut, abbandonati i
gusti espressionisti giovanili, cercava di infondere dignità e
gusto alle sue opere standardizzate e funzionali:
Oud,
in Olanda, realizzò straordinari interventi residenziali, ispirati
a Berlage. Riuscì a sintetizzare le scoperte De Stijl con la
funzionalità richiesta dalle abitazioni operaie, creando case a
schiera che non perdevano la loro identità di singoli edifici,
colorate, come anche gli arredamenti, come i quadri di Mondrian, di
un dinamismo asimmetrico che ne accentuava i ritmi;
A
Vienna il prototipo di grossi blocchi operai ad altissima densità
di Behrens prevalse sulle
proposte di periferie a bassa densità di Loos,
e si vennero a creare delle mastodontiche fortezze operaie, luogo di
aspri scontri sociali;
I
CIAM (congressi
internazionali di architettura moderna) nel 1928 sostennero il
bisogno di ricollocare l’architettura nel contesto economico e
sociologico del servizio all’umanità, riallacciando città e
campagne, e nel 1929 si concentrarono sul tema della
existenzminimum,
l’abitazione minima. Nel 1930 si discusse dell’altezza ideale
degli edifici, e nel 1933 si ritornò ai problemi generali della
città moderna, quali organizzazione, funzionalità, benessere,
pianificazione (su 4 temi: vivere, lavorare, ricrearsi e muoversi).
La cellula base è il nucleo abitativo, e va messa in relazione con
luoghi di lavoro e di ricreazione;
CAPITOLO 15
L’International Style, il talento individuale e il mito del
funzionalismo
Esaminando
gli edifici che sono sorti negli anni 20 in tutta Europa, si potevano
rintracciare elementi comuni,come finestre a nastro, tetti piani,
griglie strutturali, piani orizzontali aggettanti, ringhiere
metalliche, partizioni curve, volumetrie rettangolari con aperture
nettamente tagliate, piani sospesi e spazi compenetranti, attenzione
posta sul volume piuttosto che sulla massa, regolarità, assenza di
decorazione.
Questo
International
Style
permetteva di emulare i grandi stili del passato nella loro essenza
senza imitarne la superficie, finalmente si era trovato lo stile
dell’architettura moderna.
In
realtà i grandi autori erano tra loro differenti, e spesso avevano
voluto trasmettere ideali diversi, ma ciò non toglie che tutta
l’architettura moderna degli anni 20 poteva essere vista, in senso
ampio, come un’unica manifestazione mondiale. Era un linguaggio
condiviso che univa tutta l’Europa, anche se faticò sempre a
coinvolgere anche pubblico e committenza. Naturalmente ci furono
sempre divisioni, come tra funzionalisti e formalisti russi, tra
utopisti e materialisti, tra “Nuova Oggettività” (Meyer) e
qualsiasi poeticità o spiritualità. Anche negli interni le
differenze erano evidenti: dagli arredi spogli ed essenziali della
Nuova Oggettività, ai materiali raffinati di Mies van der Rohe, agli
oggetti tipicamente industriali prediletti da LeCorbusier (es. sedia
Thonet), oltre ai suoi stessi mobili basati su strutture in acciaio
tubolare (chaise longue).
Richard
Fuller
criticò
aspramente l’International Style, che gli sembrava, alla stregua
delle vecchie beaux-arts, solo un modo, falso e ingannatore, di
rivestire in maniera ricercatamente spoglia e semplice le stesse
strutture in acciaio sfruttate dagli architetti beaux-arts, senza una
sincera espressione di tecnica e funzione.
Un
capolavoro del movimento moderno, in grado anche di dimostrarci che
non è il tempo a definire forma e principi delle opere, è il
Padiglione
Tedesco a
Barcellona di Mies
van der Rohe
del 1929. Nacque come struttura temporanea con funzione celebrativa e
ambasciatoriale della nuova Germania della Repubblica di Weimar,
desiderosa di dimenticare il passato imperialista. Van der Rohe
sintetizzò tecnica e forma, classico e moderno, ed enfatizzò i
valori strutturali dell’architettura moderna in una pianta
centrifuga, liberando i muri da ruoli portanti ed esaltando i telai
strutturali, arricchiti da raffinati riempimenti (materiali costosi
invece del solito economico cemento). Gli interni furono arredati con
pesanti sedie in pelle e acciaio (mod. Barcelona), per creare un
ambiente regale, dove sarebbero stati ospitati i reali di Spagna. Una
statua di donna in una vasca conferiva al tutto il gusto classico che
van der Rohe ricercava, completato dai giochi di luce creati sui
pavimenti in pietra, sull’acqua e sull’acciaio.
CAPITOLO 16
L’immagine e l’idea della Villa Savoye di LeCorbusier a Poissy
E’
un’opera matura di LeCorbusier, difficilmente classificabile
all’interno del condiviso International Style, ma fortemente
personale e ricca di contenuti.
Ci
si arriva in auto, imboccando una misteriosa stradina tra gli alberi
che si affaccia su una radura, dove sorge la villa, ed è qui che il
visitatore la vede per la prima volta. Sembra una scatola bianca
sospesa su pilotis, immersa nel panorama; il viale d’accesso passa
sotto l’edificio, attraverso il basamento dipinto di verde, per poi
girare attorno all’edificio e sfociare sulla strada sull’altro
lato. La scatola principale del 1 piano è sormontata da volumi
curvi, e la facciata dà l’impressione di simmetria e radicatezza
nel terreno. La figura complessiva, la singola finestra a nastro e le
vetrate industriali del piano terra (dove alloggia la servitù) danno
una forte enfasi orizzontale, e il sistema di pilotis cilindrici,
leggermente arretrati rispetto la facciata, crea un senso generale di
leggerezza e sospensione.
La
visita dell’edificio ha un gusto cerimoniale, iniziando dall’arrivo
in auto attraverso il bosco, il passaggio sotto l’edificio,
l’ingresso vetrato e l’auto che, con l’autista, prosegue il
giro dell’edificio per parcheggiare. Si passa nell’ingresso,
dominato da curve superfici vetrate, e una rampa sale dritta verso i
piani superiori, mentre un’altra scala, a spirale, collega l’area
dei domestici ai piani alti. La rampa principale, in pianta
esattamente sull’asse, ha grande importanza nella promenade,
collegando i vari eventi e dando un carattere nobilitante all’ascesa.
Emersi al primo piano, il piano nobile
della casa, ci si ritrova negli ambienti più formali e pubblici, che
si aprono attorno al tetto terrazzato, una specie di stanza a cielo
aperto nascosta. Il camino del salone sfocia in una ciminiera di tipo
industriale. Se si prosegue lungo la rampa fino al secondo piano si
giunge in un ambiente dal gusto decisamente “nautico”, con
balaustre navali, ciminiere, cilindri (tra cui quello contenente il
finale della scala a spirale). LeCorbusier gioca molto sugli effetti
di trasparenze e sulle percezioni simultanee di più livelli, senza
tralasciare mai l’armonia di base e il controllo della proporzione
degli elementi. L’ultimo tratto della rampa ascende verso il
solarium (il volume curvo che si intravedeva dal basso) in cui è
ritagliata una finestra che offre un interessante effetto cromatico,
col quadrato di cielo azzurro contornato dalle pareti bianche.
Arrivati in cima si apre la vista ad un fantastico panorama, che
ribalta la percezione dell’inizio del “tour”, essendo ora
l’edificio a circondare il panorama, mentre all’arrivo nella
radura si vede il panorama circondare l’edificio.
Nella
Ville Savoye si mescolano diverse idee formali: una struttura
essenzialmente simmetrica, rafforzata dalla pianta quadrata e dalla
rampa centrale, che si combina con un interno strutturato
asimmetricamente e reso dinamico dalle curve, dall’asimmetria del
tetto e dal movimento rotatorio suscitato. LeCorbusier suggerisce la
similitudine con l’architettura araba, un’architettura fatta di
movimento e viste dinamiche, a differenza di quella barocca, ad
esempio. Considera Ville Savoye il perfezionamento della sua arte
(come lo era stato il Partenone in Grecia, nato da Paestum
Maison Citrohan), entusiasta della promenade
architettonica suscitata da un sistema rigido di travi e colonne. Il
pilotis stesso è emblema della concezione di LeCorbusier, al tempo
stesso forma naturalmente bella (idealismo) e forma essenziale e
naturale, priva di ogni decorazione, del sostegno in cemento
(razionalismo).
La
Ville Savoye è quindi una creazione senza tempo, semplice e
immediata, classica nelle idee e radicale nella concezione
architettonica.
CAPITOLO 17
La continuità di tradizioni più antiche
Inizialmente
(anni ‘30) il Movimento Moderno era in minoranza, sullo sfondo di
diverse tradizioni precedenti. In realtà non era una vera e propria
distinzione tra “moderni” e “tradizionalisti”, perché
abbiamo visto bene quanto debbano al passato e alla tradizione
architetti come Wright, LeCorbusier e Mies van der Rohe, ma non era
nemmeno un semplice cambio stilistico. Alla fine il Movimento Moderno
ebbe la meglio, e i suoi schemi furono adottati in tutto il mondo, e
le ragioni di ciò variano di luogo in luogo. Negli anni 30 le
posizioni tradizionaliste furono spesso usate dai regimi totalitari
per estromettere l’architettura moderna, e anche ciò contribuì ad
un rigetto generale successivo. Anche grandi artisti considerati
“anacronistici” vennero tralasciati, come Gaudì, impegnato fino
al 1926 nei suoi personali sviluppi Art Nuveau, o Wright, che terminò
la carriera con progetti esotici e romantici: la tendenza era di
accomunare sempre più uno stile a un momento e un momento ad uno
stile, tralasciando tutto il resto. Anche manifestazioni
rivoluzionarie, ma a sé stanti rispetto all’International Style,
vennero emarginate, come la Torre Einstein di Mendelsohn
(espressionista) e il Goetheanum di Steiner (il fondatore
dell’antroposofia). Nel Goetheanum mondo minerale e vegetale si
intrecciavano, assumendo toni cangianti alla luce. Nel centro di
questa costruzione poligonale c’era una astrazione di un albero,
simbolo delle teorie di Goethe sulle specie vegetali.
Altra
corrente derivata dall’Art Nuveau, e come tale rigettata, fu l’Art
Decò.
Era
una tendenza fortemente esotica e decorativa, in netto contrasto con
i principi dell’International Style, ed aveva un valore
architettonico decisamente scarso, anche se ha influenzato opere di
valore, come, ad esempio, il Chrysler Building di Van Alen a New
York. La procedura era, in genere, di mascherare un impianto assiale
beaux-arts con materiali moderni e superfici finemente decorate, con
forti contrasti cromatici e di texture. L’Art Decò era un modesto
ponte tra moderno e consumismo, di forte carattere “pubblicitario”.
Effettivamente
il Movimento Moderno si tenne sempre al confine, se non al di là di
esso, della comprensione del pubblico. I vari rifiuti nei concorsi
pubblici vanno spiegati anche con il comprensibile timore che il
pubblico non potesse apprezzare, spiazzato dalla lotta contro i
cliché, privato delle naturali associazioni a cui era abituato.
Tutto ciò risulta ancor più evidente nel campo delle abitazioni
private, dove la nuova architettura divenne proprietà culturale di
bohèmien
di
classe medio-alta, mentre il gusto dell’uomo comune era a suo agio
tra gli ideali Arts and Crafts.
Le
fredde costruzioni moderne, così simili a fabbriche, vennero
associate ovunque ad una ristretta cerchia di eruditi, così lontani
dal gusto comune, e ci vollero oltre due decenni per permetterne una
volgarizzazione e popolarizzazione.
Nella
maggior parte dei paesi europei, in America e in Russia la tradizione
preesistente da sconfiggere era l’eclettismo, capace, nonostante
tutto, di consentire un ampio spettro di significati. Queste forme
resistettero anche durante il momento migliore dell’architettura
moderna, quando, giustamente, venivano preferite a questa in campi in
cui era necessario sottolineare il rapporto col passato e con le
tradizioni.
Washington
sorse come una nuova Roma, a capo di un nuovo impero, monumento
neo-classico ricco di riferimenti presidenziali (Lincoln Memorial,
obelisco a Washington).
Anche
i grattacieli
di New York degli anni ’20 erano una chiara rielaborazione
beaux-arts, pur non presentando chiaramente le insegne del
classicismo.
Nelle
colonie
la “cultura ufficiale” si fuse spesso l’identità culturale
locale, dando vita in certi casi a falsi orientalisti piuttosto
ridicoli, in altri ad esempi di eclettismo in grado di rappresentare
adeguatamente luogo e popolazione, sia colonizzante che colonizzata
(ma senza mai perderne di vista le relazioni di subordinazione).
Altra
area in cui le soluzioni tradizionaliste furono sempre preferite a
quelle moderne fu la progettazione di chiese,
dove era indispensabile una certa aderenza all’immaginario
convenzionale.
CAPITOLO 18
Natura e macchina:
Mies van der Rohe, Wright e LeCorbusier negli anni
’30
Negli
anni ’30 l’architettura moderna era ormai abbastanza diffusa nel
mondo occidentale, ma la sua intensità creativa cominciò a cedere,
aiutata anche dalla depressione economica e dalla repressione dei
regimi totalitari. Emerse un accademismo moderno, in cui l’imitazione
formale non corrispondeva a nuovi contenuti. Il Moderno raggiunse
tutto il mondo, e sovente furono necessari dibattiti per verificarne
l’adeguatezza ad esprimere le tradizioni culturali nazionali.
Le
forme tipo caratteristiche del Moderno (pianta libera, elementi
orizzontali sospesi, pareti bianche, pilotis, spazio post-cubista…),
che imponevano limitazioni ma, al tempo stesso, aprivano nuove
direzioni, divennero negli anni ’30 oggetto di studio e di
sviluppo, e, mentre alcuni elementi diventarono patrimonio comune
(spesso oggetto di moda),
altri vennero abbandonati, come la parete intonacata di bianco con le
finestre a nastro, inadeguate alle nuove intenzioni. L’architettura
degli anni ’30 appariva più organica, con curve più complesse,
facciate elaborate, finiture e materiali meno “asettici”. C’era
un interesse più vivo verso la natura,
e le restrizioni dell’International Style sembrarono sempre meno
pertinenti, così come l’eccessiva planarità astratta degli
edifici.
Wright,
che non aveva mai abbandonato la Natura come riferimento, negli anni
’30 sperimentò nuove vie sul concetto di “origine naturale”;
LeCorbusier
cambiò
direzione, mediando le nuove tecnologie in vetro e acciaio e un
primitivismo rurale e surreale; Mies
van der Rohe
si assestò su progetti simmetrici per gli edifici pubblici e
asimmetrici per quelli privati, stabili e simbolici quelli pubblici,
informali quelli privati.
MIES VAN DER ROHE
Un
esempio del suo modo informale è casa
Tugendhat
(1930), sviluppata su un pendio, riservata sul lato della strada e
aperta e trasparente sul lato del panorama. Gli interni
rispecchiavano il lusso del Padiglione di Barcellona (una parete
divisoria curva in ebano creava uno spazio pranzo), fondendo
tranquillità classica e lussuoso macchinismo (intere parti delle
vetrate esposte al panorama potevano ritrarsi nel pavimento, aprendo
la casa alla natura).
WRIGHT
Dopo
l’avvento dei nazisti la Bauhaus fu chiusa, e Mies, che ne era
direttore, si trasferì, nel 1937, in America, dove fu accolto da un
Wright
incompreso, anziano e in problemi finanziari. Col New Deal Wright
rinacque, e si dedicò anche a progetti come casette unifamiliari
economiche e un utopico progetto di decentralizzazione (Broadacre
City).
Uno
dei suoi capolavori fu “Fallingwater” (la
casa sulla cascata)
del 1934-37, un ritiro in campagna al di sopra di una cascata.
L’edificio si ancorava alla roccia, così i suoi piani orizzontali
si libravano privi di peso e di supporto apparente al di sopra
dell’acqua. Le pareti erano quasi del tutto assenti, sostituite
dalle ampie finestre, dalle ampie sporgenze murarie e dai livelli
sovrapposti. Il camino era in grezza pietra locale, in netto
contrasto col calcestruzzo delle balconate. L’edificio sintetizzava
al meglio sia le idee architettoniche di Wright, sia l’estrema
integrazione tra architettura e Natura. Wright celebrava l’ossessione
americana della vita libera in mezzo alla natura, ed ebbe anche da
criticare il Movimento Moderno europeo, a cui molti lo accomunavano,
sostenendo che le case non dovrebbero assomigliare a scatole
splendenti, né essere un monumento alla macchina, ma dovrebbero
essere un terreno primordiale, complementare
al suo ambiente naturale.
In questo panteismo Wright rifletteva sulle origini
naturali
dell’uomo, e sulla sua integrazione nella natura.
Altra
grande opera del Wright maturo fu il Johnson
Wax Administration Center,
un grosso complesso per uffici commissionato da una società che
voleva dare un’immagine di grande famiglia sotto un benefico
patriarcato. Wright realizzò un luogo comunitario e solidale, senza
dimenticare i rapporti gerarchici. L’edificio era un grande
rettangolo senza finestre, in cui l’illuminazione era garantita da
un ampio lucernario. I piani superiori, sospesi verso l’interno, si
affacciavano sull’atrio. I piani più alti, posti in una
sovrastruttura a ziggurat, ospitavano la dirigenza, e un ponte
collegava lo stabile all’area di ricerca, completata da una torre
vetrata per il laboratorio. Gli esterni presentavano spesso spigoli
curvi ed aerodinamici, e l’effetto di aerodinamicità continuava
all’interno, nelle finiture e nell’illuminazione, con largo uso
di effetti di lucidità di vetro e metallo, che rimandavano alle cere
prodotte dall’industria. Wright odiava il modello classico delle
fabbriche, e riuscì qui a creare un luogo in cui vita e lavoro si
valorizzavano vicendevolmente, e il successo fu dimostrato dal fatto
che molti dipendenti decidevano di trattenersi in quell’oasi anche
dopo la fine dell’orario lavorativo.
Wright
elaborò anche una proposta teorica di città moderna ideale, nota
come Broadacre
City
(1935). Era il frutto delle sue riflessioni sul problema della
riconciliazione di uno stato ideale con la libertà individuale
all’interno di una società meccanizzata. Era una comunità
decentralizzata in cui l’abitazione unifamiliare e il piccolo
appezzamento di terreno costituivano le unità fondamentali. Wright
era convinto che la città centralizzata fosse ormai obsoleta,
abbattuta da invenzioni come il telefono e l’automobile, e che,
quindi, la meccanizzazione ci stesse portando al nostro vero destino:
una democrazia rurale di liberi individui. Era l’unico modo per
recuperare la “dignità” individuale, l’unico per liberarsi dal
“profitto” del capitalismo urbano. Le torri alte si ergevano qua
e là, disperse nella griglia cittadina, e, tra le “usonian”
(casette individuali che diventarono in seguito il modello di
migliaia di residenze economiche), sorgevano mercati, teatri e anche
una cattedrale (non in posizione centrale, ma laterale). Wright
infatti, come LeCorbusier, era convinto che la realizzazione della
sua Utopia rendesse obsoleta la religione tradizionale.
Nel
1937 costruì anche l’avamposto Taliesin
West nel
deserto dell’Arizona, dove trasferire la sua scuola nei mesi
d’inverno. Per questo edificio si rifece agli indiani d’America e
alle forme naturali del deserto.
LE CORBUSIER
Nel
1930 Le Corbusier, a 43 anni, era in un periodo di grande successo, a
differenza del 63enne Wright. Era arrivato il momento di rivedere un
po’ il proprio stile, per non cadere nell’imitazione di sé
stesso, e di porsi nuove problematiche, ed infatti in questo periodo
progettò in tutti i continenti e proseguì i suoi studi sulla città
ideale, sempre convinto del ruolo messianico dell’artista. Si
avvicinò molto alla natura e all’uomo primitivo, affascinato da
ciò che vide nei suoi viaggi, ma non significa che abbandonò del
tutto la sua ammirazione con la macchina, anzi, tentò di far
coincidere meccanico e naturale più armonicamente. Anche i suoi
quadri cambiarono soggetto: dalle nature morte di oggetti industriali
passò alla figura umana e agli oggetti naturali. Le sue linee si
ammorbidirono, curve e contorni si fecero più irregolari, adottò
forme biomorfe. Fu attratto dal surrealismo e dal fotomontaggio, e la
sua architettura risentì di ciò nell’uso di texture dai forti
contrasti e dai colori vivaci. Le sue opere si avvalsero di materiali
naturali, e fece largo impiego di murature in pietra, assi di legno e
materiali locali.
La
Petite
Maison del
1935 è un rifugio rustico periferico a volta, che non solo abbandona
i piani sollevati su pilotis, ma è addirittura seminterrato, con
continui riferimenti sia al mondo industriale, sia a quello rustico e
artigianale.
Il
Pavillon
Suisse per
la Citè Universitaire era una casa dello studente strutturata su
pilotis a forma di 8, con una torre curva che comunicava tra scatola
e base, contenente le scale. Una facciata era totalmente vetrata, e
dava sui campi, mentre l’altra era trattata come superficie grezza.
Abbandonando le esili forme bianche degli anni 20, Le Corbusier era
riuscito a creare un’architettura che, sempre basandosi sui soliti
5 punti, si adattava perfettamente ad edifici di grandi dimensioni.
Il Pavillon Suisse era una sperimentazione riuscita degli ideali che
si proponeva nella sua “Ville
Radieuse”.
Le
Corbusier era convinto che un ambiente ben ordinato potesse riunire
in armonia uomo, macchina e natura. La meccanizzazione portava
degrado e declino, ma, se usata nel modo giusto, forniva i mezzi per
realizzare un nuovo ordine. Con la Ville Radieuse, città fortemente
urbanizzata e centralizzata, creò la sua Utopia. La maggior parte
degli spazi era destinata ad aree per il tempo libero, ampie strade
rendevano i trasporti agevoli e i pedoni avevano percorsi appositi su
altri livelli. “L’ordine ideale” era sintetizzato nella
simmetria e nella geometria simbolica della pianta, di forma quasi
antropomorfa. I tipi principali erano grattacieli (raggruppati nelle
periferie) ed edifici per appartamenti, tutti sollevati da terra su
pilotis. Non esisteva più alcuna divisione di classe (com’era
invece nella Ville Contemporaine), e la città era piena di strutture
di carattere collettivo.
Le
Corbusier, tuttavia, dimostrò grande adattabilità creativa (a
differenza dei propri seguaci), come, per esempio, nel suo progetto
per Algeri
(Piano
Obus), in cui grandi viadotti portavano le strade su un livello
superiore rispetto alla città e le case ricercavano uno stile tutto
mediterraneo.
Le
idee urbanistiche di Le Corbusier non vennero mai attuate, e si
dovette limitare a lasciarle sulla carta e a criticare i sistemi
esistenti, come le irrazionali città americane. Lui sperava di
trasformare le città che contenevano un parco in parchi che
contenessero una città.
Negli
anni trenta Wright, Le Corbusier e Mies van der Rohe riuscirono a
rivitalizzare e modificare la propria architettura, e si
concentrarono sulle loro visioni urbane, sperando tutti nel ruolo di
un’architettura capace di ricollegare individui e società in un
ordine naturale e armonico. Per Mies van der Rohe significava spazio
di libertà individuale, per Le Corbusier e Wright era indispensabile
un giusto rapporto con la Natura, illuminista per il primo e rustico
e “americano” per il secondo. Si consideravano platonici
filosofi-sovrani detentori del segreto della società perfetta, anche
se ora ci sembra chiaro che le disgregazioni presenti all’interno
delle società occidentali erano difficilmente superabili con dei
palliativi architettonici.
CAPITOLO 19
La diffusione dell’architettura moderna in Gran Bretagna e in
Scandinavia
Come
per ogni rivoluzione creativa, anche il Movimento Moderno conobbe,
negli anni ‘30, una fase in cui le innovazioni precedenti vennero
assorbite ed esplorate. Questa nuova generazione, che includeva Alvar
Aalto,
Lubetkin,
Sakakura,
Niemeyer,
Sert
e Terragni,
nata a cavallo fra i due secoli, ebbe il compito di assimilare la
Nuova Architettura senza cadere in dogmatismi o imitazioni servili.
Mentre
negli anni ‘20 il Movimento Moderno era all’apice del successo in
quasi tutto il mondo, in Gran
Bretagna e
in Scandinavia
era ancora di scarsissima influenza, ma, alla metà degli anni ’30,
la situazione si invertì.
Favoriti
dall’immigrazione di talenti da paesi come la Germania, vittima
della repressione nazista, Gran Bretagna e Scandinavia prepararono il
terreno, ognuno in modo diverso, alla nascita di un buon movimento
artistico locale.
In
Danimarca e in Svezia l’architettura moderna era vista come simbolo
di democrazia ed emancipazione, ed in Finlandia rappresentava
addirittura la nuova identità nazionale di un paese che teneva a
rivendicare la sua indipendenza dalla Russia.
In
Gran Bretagna, invece, l’architettura moderna fu inizialmente
distante dalle vicende statali, si diffuse tra le difficoltà e la
resistenza dei tradizionalisti ma rimase sempre in una posizione
abbastanza marginale.
L’architettura
moderna degli anni ’30, a differenza di quella precedente, era
caratterizzata da una fusione di idee nuove ed eredità degli anni
precedenti.
GRAN
BRETAGNA
In
Gran Bretagna mancavano, ed erano sempre mancati, tutti i presupposti
per uno sviluppo moderno. C’era una tradizione forte, un movimento
Arts and Crafts vivo e un neoclassicismo sempre presente, mancavano
committenze e talenti progressisti, nell’arte non c’era mai stata
la rivoluzione cubista avvenuta in Europa e la soddisfazione
post-bellica rendeva superflua ogni utopia urbanistica.
Le
prime opere veramente moderne sorsero alla fine degli anni ’20, e
il maggiore architetto degli anni ’30 fu sicuramente il russo
Lubetkin.
In lui convivevano le idee del contesto sovietico e gli insegnamenti
del suo maestro di gioventù Perret, oltre ai principi dell’ammirato
Le Corbusier.
Nel
’30 fondò il gruppo ”Tecton”, con cui progettò prima
l’innovativa vasca per i pinguini dello Zoo di Londra, poi gli
appartamenti High
Point I di
Highgate. Sorgevano in mezzo ad un parco su pianta ad H, per
massimizzare le vedute, con un corpo principale sollevato su pilotis
e tetto terrazzato comune. Una rampa curva (simile a quella dei
pinguini) scendeva nel giardino retrostante. Era una valida sintesi
dell’architettura di Le Corbusier e delle residenze collettive
sovietiche, e lo steso Le Corbusier ne lodò il progetto come una
“Garden City verticale del futuro”.
Anche
Mendelsohn
arrivò in seguito alle persecuzioni naziste, e progettò subito il
complesso per il tempo libero De La Warr Seaside Pavilion. Era molto
raro, in Gran Bretagna, avere così grosse commissioni, e molti
architetti si dovettero accontentare di progettare piccole case
private. Inoltre, lo stile moderno (così lontano dalla “casa”
anglosassone) continuò ad essere guardato con sospetto, come
dimostrano alcune imposizioni delle amministrazioni locali sull’uso
dei materiali tipici o sull’uso di rivestimenti in legno per i
tetti piani.
Due
tra gli edifici moderni più importanti in Gran Bretagna avevano
destinazione commerciale: la Boots Factory di Williams e il Peter
Jones Store di Crabtree. Entrambi avevano una facciata continua in
vetro con scheletro in calcestruzzo, sostenuti da pilastri a fungo.
Più
tardi si sentì il bisogno di uscire dagli angusti limiti
dell’International Style, così lontano dalla “casa”
britannica, e Lubetkin ci provò col suo High
Point II.
Ci furono sì delle costrizioni sul progetto da parte delle
amministrazioni locali, ma ciò non giustificava l’eccessivo
decorativismo e i riferimenti classici e barocchi che
caratterizzarono l’esperimento. Le reazioni furono diverse: c’era
chi si sentì oltraggiato, e chi considerò il progetto un importante
mossa oltre il funzionalismo. Il formalismo di High Point II era
sintomatico dell’imbarazzo degli architetti rispetto ai gusti della
loro ristretta clientela, che faticava a capire l’architettura
moderna, e la crisi di idee della stessa architettura moderna.
SCANDINAVIA
In
Scandinavia il moderno si caricò presto di caratteri
social-democratici, ed incontrò presto l’approvazione dello stato
e del pubblico. Era la giusta risposta ai problemi di una zona che si
stava velocemente urbanizzando, felicemente accolta anche dalla
religione protestante, che ne ammirava l’estetica “povera”. Lo
svedese Asplund
fu un degno esponente dell’architettura moderna scandinava, e
riuscì a combinare armonicamente funzionalità moderna e disciplina
e gerarchie classiche.
In
Finlandia Alvar
Aalto
partiva da fondamenti classici e nazional-romantici, e Bryggman
creò la sua modernità su basi classiche e tradizionali nordiche e
mediterranee. Aalto era cresciuto in un’atmosfera carica di
questioni legate all’identità nazionale finnica, in cerca di
autonomia dalla Russia, influenzato dal classicismo nordico e dal
nazionalismo romantico di gusto quasi gotico, e tenne sempre conto
sia delle condizioni climatiche, sia di un elegante uso dei materiali
locali, in particolare il legno.
Il suo stile, che, maturando, divenne sempre più funzionale, era
strettamente legato a Le Corbusier e ai suoi 5 punti, oltre che a
schemi intrinsecamente classici. Il suo Sanatorio
di Paimio (1933)
è considerato uno dei capolavori del Movimento Moderno. L’edificio
nasceva su un sito rilevato e immerso nelle foreste, visto che il
metodo seguito per curare la tubercolosi era l’esposizione al sole,
al verde e all’aria aperta. Le stanze erano in un edificio a sei
piani con tetto a terrazza, utilizzabile per i letti nei giorni più
caldi, ed era stata data particolare attenzione alle viste
panoramiche e agli ingressi di luce naturale. I piani si aggettavano
da una struttura portante a tronco rastremato, e la disposizione
delle ali denotava una organizzazione complessa e articolata, adatta
ad ogni situazione climatica. Riprendeva gli schemi dell’architettura
collettiva sovietica, raggruppando le stanze private nella struttura
a lastra e le aree collettive in volumi ad essa articolati.
All’incontro
dei CIAM del 1933 Aalto incontrò e impressionò Le Corbusier, Mies
van der Rohe e Gropius; un giovane talento che era riuscito a
convertire un’intera nazione all’architettura moderna. Aalto si
fece promotore nel mondo dei valori finnici, e soprattutto del legno
e dei suoi molteplici utilizzi, disegnando splendidi mobili dal
carattere spesso antropomorfo. Aalto cercava di portare la natura, le
tradizioni e la cultura locale sempre più vicino alla sua
architettura e all’uomo.
Nella
Villa Marea
(1938-41) sperimentò le sue idee di rifugio rurale allo stesso modo
di Le Corbusier nella Ville Savoye. Si strutturava sulla consueta
forma ad “L”, che permetteva una chiusura privata su un lato e un
fronte formale e di relazione sull’altro. Vi era un forte utilizzo
di legno, pietra e mattoni, con grande attenzione alle splendide
vedute e alla foresta circostante. I dettagli erano “artigianali”,
e sfruttavano gli intrecci e le tessiture di materiali naturali ed
artificiali, con uso di cinghie, perni di legno, travi, in una
personale “mitologia della foresta”. Un’ala rustica, affiancata
alla piscina, ospitava la sauna, ed era strutturata in maniera
estremamente naturale, quasi una capanna nordica primitiva,
sormontata da zolle erbose. In tutta la villa c’era un costante
contrasto tra artificiale e naturale, tra acciaio e legno, tra urbano
e rurale, tra colto e primitivo. L’immagine generale evocava forme
biomorfe e astrattismi, e l’opera si radicava nel concetto di
origine, immersa nella foresta.
CAPITOLO 20
Critiche dei regimi totalitari al Movimento Moderno
Nel
corso della storia l’architettura monumentale è stata utilizzata
per incarnare i valori di ideologie e gruppi dominanti, e come
strumento di propaganda dello Stato. I regimi totalitari in Russia,
Italia e Germania tentarono di rafforzare i sentimenti nazionalistici
tramite precedenti tradizioni architettoniche, a cavallo tra
legittimazione storica e populismo. In queste regioni l’architettura
moderna non solo veniva emarginata, ma era anche vista come una
minaccia da sopprimere. Era “straniera”, ignorava le tradizioni
locali, era di difficile comprensione al grande pubblico, era frutto
di “congiure bolsceviche” in Germania o simbolo di un occidente
in declino in Russia. Non sempre fu respinto: in Germania se ne
sfruttò la funzionalità nei capannoni bellici, e in Italia, con
accenti progressisti e latini, venne affiancata al regime.
GERMANIA
In
Germania i dibattiti sulla nuova architettura avevano portato ad una
completa identificazione della casa moderna a tetto piano col
marxismo, con la volontà comunista di annientare la personalità e
l’umanità nel collettivismo standardizzato e materialista. Ne
veniva criticata la mancanza di praticità, lo stile “orientale,
ebreo e bolscevico”, la freddezza dei materiali, la bruttezza,
inadatta a celebrare la razza tedesca. Con la salita al potere dei
nazisti, nel 1933, la Bauhaus fu chiusa e molti architetti furono
messi al bando, altri furono cacciati, altri emigrarono di loro
spontanea volontà (Mendelsohn). Mies van der Rohe decise di restare,
forse convinto da quell’ala del nazismo che considerava la funzione
alla base della forma, e partecipò, come anche Gropius, al concorso
per la Reichsbank del ’33. Entrambi i progetti furono scartati, in
favore di idee più classiche. Nel 1937 emigrò negli Stati Uniti
anche Mies van der Rohe. Hitler
era un architetto frustrato, e cercò di lasciare una nuova Berlino
imperiale, convinto di poter incarnare l’anima di un’epoca e del
volk
nell’architettura monumentale e tradizionale. L’architettura
“nazista” divenne quindi gotica in certi casi, e classica in
altri, relegando l’architettura moderna in applicazioni funzionali
di “bassa gerarchia”, come fabbriche ed uffici. Troost,
il consulente di Hitler per l’architettura, amava un architettura
monumentale e classicheggiante (si credeva in un legame tra cultura
greca e teutonica), semplice e “comunitaria”, celebrativa del
nuovo stato. Nel ’34 Troost morì, e fu sostituito dal giovane
Speer,
l’autore delle monumentali ed enfatiche scenografie delle
manifestazioni naziste, senza disdegnare riferimenti alla
magnificenza egizia, babilonese o classica. Speer voleva
impressionare il mondo con la rinata potenza tedesca, per mezzo di
opere militariste e vigorose, ma ripetitive ed estremamente banali.
Il suo progetto per il nuovo Palazzo della Cancelleria (1938) era
un’imponente struttura classica, piuttosto spoglia e monotona, che
racchiudeva al suo interno lunghi e lussuosi corridoi, con l’intento
di impressionare e “spaventare” qualsiasi visitatore, costretto
ad una lunga camminata tra bandiere, svastiche ed uniformi. Fu nel
bunker ad esso connesso che Hitler morì, nel ‘45, mentre i russi
demolivano il suo mausoleo. Nel 1937 riorganizzò Berlino,
ritagliandola con lunghi viali assiali, rifacendosi agli schemi
parigini, dell’antica Roma e di Washington. Il punto focale era la
cupola di immense proporzioni della “Grande Sala” (mai
costruita), un pantheon celebrativo del nazismo, fronteggiato da un
arco di trionfo.
Nel
campo domestico il nazismo sponsorizzò la ruralità, l’esaltazione
dell’atleticità, i regionalismi, l’artigianalità, facendo
attenzione alle tipologie (tetti a falde) e ai materiali più adatti
in maniera spesso artificiosa.
All’Esposizione
Internazionale di Parigi del ’37 i padiglioni russo e tedesco erano
di fronte, ed era inquietante come somigliassero l’un l’altro.
RUSSIA
In
Russia il gusto ufficiale stava cambiando già dal 1931 (Palazzo dei
Soviet), come, ad esempio, in pittura, dalla quale fu estromessa ogni
astrazione in favore di un realismo dai temi rigorosamente scelti dal
regime. La “formalità” era censurabile: nulla doveva essere di
difficile comprensione per il grande pubblico. In architettura si
seguirono due strade: quella della decorazione esasperata e quella
monumentalità di facile lettura, populista ed imperialista.
ITALIA
Mussolini
non ebbe il bisogno di creare la sua capitale, avendo già un
palcoscenico quale l’antica Roma. Nel 1925 pianificò un’opera di
rinnovamento di Roma, che comprendeva nuove strade diritte a tagliare
la città (
Haussmann) per congiungere gli antichi monumenti con quelli che aveva
in mente di costruire con la consulenza di Piacentini.
Liberò i monumenti da impedimenti limitrofi, esaltò la magnificenza
e il passato glorioso di Roma e lo accostò a viali a scorrimento
veloce, simboli della città moderna (
Marinetti e futurismo). Tutta la propaganda fascista si basò sulla
“terza Roma”, sul nazionalismo e sui parallelismi con l’antica
Roma imperiale.
Il
Movimento Moderno in Italia si sviluppò più tardi (1928), ed
incontrò minore resistenza, grazie anche al fatto che arrivò quando
ormai il fascismo era ben consolidato al potere. Si caratterizzò di
un astratta rievocazione classica, minimizzando il richiamo al mondo
della macchina, rischiando di cadere nel formalismo e nella
monumentalità. Il “Gruppo 7”,
di inclinazioni moderne, sottolineò più volte la sua radicatezza
nella tradizione, ed era loro intenzione fondare un’architettura
“razionale”, strettamente legata alla funzione. La figura più
importante fu Terragni, con
la sua ricerca di sintesi tra classicità e modernità, sulla scia di
Le Corbusier. Nella Casa del Fascio di Como incarnava perfettamente
le ambizioni fasciste, con giustapposizioni severe di pieni e vuoti,
con elementi ricorrenti e aperture che simbolizzavano la trasparenza
del fascismo. Presentò un monumentale progetto per il Palazzo
Littorio a Roma (un enorme palazzo curvo di porfido nero, con un
teatrale palco per il duce) e un’altrettanto audace proposta per un
Danteum, un palazzo processionale (attraverso inferno, purgatorio e
paradiso) in onore a Dante e alla sua opera. Nell’opera di Terragni
avevano un ruolo indispensabile ed inscindibile poetica e politica,
fuse nella sintesi di moderno e mondo classico da lui operata, e fu
un caso più unico che raro di grande talento moderno all’opera per
un regime totalitario.
CAPITOLO 21
Internazionale, nazionale, regionale: la diversità di una nuova
tradizione
La
fase riflessiva che interessò il movimento moderno negli anni ’30
fu caratterizzata da un tentativo, spesso contraddittorio, di
comprendere, spiegare e rivendicare il Movimento stesso. Gli autori
spaziarono tra funzionalismo, formalità, classicismo, contenuti
sociali e ideologici. Ci furono opinioni diverse anche sulla genesi,
tra chi proponeva teorie eurocentriche e chi sottolineava le
esperienze americane.
Gideon,
ad esempio, proponeva uno schema evolutivo lineare, da cui erano
escluse manifestazioni come l’espressionismo, i regionalismi e il
romanticismo del tardo Wright. Giedion vedeva il tutto in modo
transnazionale e panculturale, ignorando intenzionalmente le
manifestazioni nazionaliste, regionaliste e locali.
In
realtà l’architettura moderna fu sì un’espressione universale
di quel periodo, ma era ricca di sfaccettature, non poteva essere
racchiusa sotto nessuna ideologia accomunante ed andava compresa
nella miriade di influenze locali e regionali che presentava, a
cominciare dalle diversissime ragioni che ne avevano permesso lo
sviluppo nelle diverse nazioni.
In
Svizzera si sviluppò
un’architettura moderna di grande valore, vicina al funzionalismo
ed alla Nuova Oggettività tedesca. Rigore tecnico, chiarezza
funzionale e sobrietà formale soppiantarono i tipici regionalismi
alpini e ogni tentativo “poetico”. Il Mundaneum di Le Corbusier
per Ginevra, purtroppo, non fu realizzato. Sarebbe stato una
rivisitazione moderna dell’Acropoli, simbolo della cultura
universale.
In
Spagna Torroja ideò
un’architettura tipicamente latina, ricca di riferimenti a Gaudì,
che per i suoi caratteri di ingegneria a basso contenuto tecnologico
fu adottata in tutta l’America Latina. Qui, con l’avvento di
Franco, predominava un’architettura nazionalista, e il Movimento
Moderno (tra cui Sert) si limitò a trattare questioni locali, ma
senza cadere nel regionalismo. I progetti per Barcellona, che era
stata soggetta ad una forte e rapida urbanizzazione, si avvicinano
molto ad uno stile tipicamente “mediterraneo”, attento alle
esigenze climatiche e naturali e all’utilizzo dei materiali locali.
In
Francia le commissioni
monumentali e civiche rimasero monopolio beaux-arts, e l’architettura
moderna, a parte il caso dello stile molto personale di Le Corbusier,
seguì strade differenziate. Si variava tra funzionalismo e
formalismo, ideologia e razionalismo, regionalismo quasi arts and
crafts e imitazione coloniale.
In
Grecia la mediterraneità e
l’ellenismo di Le Corbusier vennero recuperati, a scapito del
revival che affliggeva la penisola da decenni.
In
tutta l’Europa meridionale ci fu il tentativo di distillare un
autentico stile “mediterraneo”, e un esempio ben riuscito è la
Casa Malaparte a Capri, arroccata su uno sperone roccioso, un rosso
edificio terrazzato dalle forme navali, con un parapetto curvo bianco
a forma di “vela”.
Non
sempre, tuttavia, l’architettura moderna venne ben accolta: oltre
ai regimi totalitari c’era chi la vedeva come un’intrusione
occidentale, soprattutto nelle colonie, capace di distruggere le
tradizioni e creare un mondo piatto e monotono. Ci fu chi invece,
come il turco Eldem, riuscì a sintetizzare al meglio architettura
tradizionale locale e International Style. Lo stesso risultato lo
ottenne Mendelsohn in
Palestina, sfiorando
addirittura un’unificazione culturale tra ebrei e arabi, oltre che
tra occidente e tradizione. Nel suo Ospedale Hadassah a Gerusalemme,
una lunga e bassa struttura rivestita di pietra e traforata di
finestre, sintetizzò sobrietà e riservatezza esterna e luminosità
e freschezza interna, il tutto sotto il motivo unificante del
cerchio, inteso forse a soddisfare le tre civiltà che vi dovevano
convivere, cioè ebrei, arabi e cristiani.
In
Giappone il Movimento Moderno
fu accompagnato da un processo di forte modernizzazione tecnologica
ed istituzionale, con forti legami con l’occidente. L’eclettismo
di ispirazione occidentale si affiancava ad edifici fortemente
tradizionali, immutati da secoli, e persino l’uso dei mattoni al
posto del legno era visto con sospetto. La ricerca di uno stile
moderno tipicamente giapponese oscillava quindi tra chi voleva
accogliere gli schemi occidentali riadattandoli e chi, invece, voleva
liberarsene per esaltare quelli tradizionali. Negli anni ’30
cominciò a nascere un movimento moderno, ma anche il Giappone piombò
nel nazionalismo imperialista, e fatalmente ritornò alle forme
classiche occidentali.
In
Brasile si ricercò un
“moderno tropicale”, attento al clima e ai materiali, e, nel
1936, si avvalsero anche della consulenza di Le Corbusier per
raggiungere il loro scopo, dando vita ad un’architettura ariosa,
sollevata su pilotis, vagamente biomorfa.
In
Messico l’architettura
moderna, come anche in Brasile, divenne uno dei veicoli
dell’industrializzazione, della centralizzazione e del
progressismo.
Nonostante
tutte le ostilità, l’architettura moderna era diffusa, ormai, in
tutto il mondo.
CAPITOLO 22
Architettura moderna negli Stati Uniti: immigrazione e consolidamento
La
seconda guerra mondiale ebbe forte impatto sull’architettura, prima
provocando emigrazioni di artisti, poi screditando la tecnologia di
fronte ad essi (causa di male) e, più materialmente, demolendo
intere città e gettando Europa, Giappone e Unione Sovietica nella
crisi. Il bisogno di ricostruire era impellente, e non c’era più
né la possibilità né la voglia di credere in grandi utopie
urbanistiche. Nei secondi anni ’40 l’architettura moderna era
ormai “tradizione”, e non si poteva ignorarla. Il bivio era tra
innovazione dell’architettura moderna o reazione ad essa, ma
bisognava evitare una ripetitività accademica degli anni prima del
conflitto; sfortunatamente questo avvenne spesso, svalutando
enormemente i caratteri del Movimento Moderno. Gli Stati Uniti
cominciarono ad estendere la loro ombra sul mondo, in un ripetersi
internazionale di stereotipi costruttivi ormai privi di anima,
simbolo della commercializzazione globale. Mentre negli anni ’30 si
era stati molto attenti al problema della trasmigrazione dello stile
e delle radici locali (es. Wright, Aalto, Sert, Niemeyer), ora
accadeva in forma minore. Artisti come Gropius e Mies van der Rohe,
arrivati già maturi negli Stati Uniti, furono costretti ad adattarsi
al nuovo ambiente, oltre che ad influenzarlo fortemente.
I
progetti di Gropius, appena
arrivato, erano un’intrusione internazionalista, straniera;, anche
se presentava già alcuni elementi locali; Breuer,
una volta in America, perse di incisività, avvicinandosi anch’egli
alla tradizione locale. Questo “ammorbidimento” era dovuto alla
guerra appena trascorsa, ma il loro insegnamento fu importantissimo,
in un paese dove si insegnavano ancora le Beaux-Arts. Gropius, con la
sua autorità, portò nel Nord-Est americano l’architettura
moderna, proprio mentre l’Europa annaspava nell’eclettismo, e
questo portò in America un gran numero di giovani talenti, la
generazione del futuro. Progettarono un’università con “l’estetica
della fabbrica”, che andava a sostituire il vecchio complesso
neoclassico, e, verso gli anni ’50, si intravedevano già sviluppi
al di là della rigidità dell’International Style. Tuttavia
l’esperienza americana di Gropius fu un lento declino, dove lui e
l’International Style furono ingoiati dal capitalismo crescente.
Era necessario, ormai, un rinnovamento di queste forme tanto abusate
e svalutate.
Negli
anni ’50 partì il processo di rigenerazione, da una parte con gli
“espressionisti” come Saarinen,
che cercavano un ammorbidimento (spesso manierato) dell’estetica
dell’architettura moderna, dall’altra con i ripetuti tentativi di
un ritorno al classicismo e alle beaux-arts. C’era anche chi, come
Kahn, riusciva invece a
sintetizzare classico e moderno.
Gli
anni ’50, in America, furono un periodo di grande prosperità ed
ottimismo, e il progresso tecnologico e scientifico permise notevoli
sviluppi anche nelle tecniche costruttive. Opera emblematica è il
General Motors Technical
Center di Eliel Saarinen
(poi proseguito dal figlio Eero) nel 1948. Acciaio e vetro erano i
protagonisti di un complesso di edifici che divenne simbolo
dell’industria americana.
Mies
van der Rohe, invece, si adattò meglio di
Gropius, anche se i suoi primi progetti ebbero lo stesso impatto
straniante di quelli di Gropius, ovvero eleganti fabbriche di acciaio
e vetro in contesti completamente diversi. Le sue linee, in schemi
asimmetrici ma al tempo stesso classici, “correvano all’infinito”,
ed è interessante l’espediente usato nell’Institute
of Technology, dove lascia a vista, negli
spigoli, la struttura di acciaio interna, rivestita sulle pareti, per
legge, di uno strato di materiale ignifugo e di un altro strato di
acciaio (puramente estetico). La sua filosofia era “di meno è di
più”, ma, come per Mondrian, i suoi seguaci seppero ridurre il
tutto a spoglie banalità o semplici scacchiere colorate. Ma anche il
messaggio di Mies van der Rohe venne frainteso, perché in America
l’architettura moderna era staccata dal suo ambiente naturale
“socialista”, e, depurata di ogni ideologia, era solamente un
“modo di costruire” e di esaltare la bella vita ed il mondo
capitalista, come nei progetti di Johnson
ed Eames.
Il
gruppo Case Study,
in California, applicò la standardizzazione alla casa unifamiliare,
con l’intento di tralasciare lo stile, che doveva molto comunque
alla tradizione.
L’Equitable
Building di Belluschi adattò
il “leitmotiv” americano della struttura in acciaio con
riempimenti in vetro all’edificio per uffici. Era una lastra
luminosa di vetro verde, marmo e alluminio, una celebrazione
dell’alta tecnologia americana che traeva origine da una ormai
lunga tradizione architettonica nel campo del grattacielo.
Mies
van der Rohe era considerato un po’ il
“maestro” dell’arte del palazzo alto in America (es. torri
gemelle di Chicago), capace di esaltarne tecnologia e verticalità,
struttura (le travi a I di Mies erano considerati ormai un tipo
strutturale al pari delle colonne per l’antica Grecia) e
oggettività priva di formalismi inutili. Il sogno di cristallo
dell’Europa anni ’20 era ormai divenuto realtà nell’America
anni ’50, anche se privo di molti dei valori originali.
Emblematico
nel campo degli edifici “prestigiosi” è il Seagram
Building di Mies e Johnson (’54-‘58), un
imponente grattacielo celebrativo, sobrio, elegante nei materiali e
simmetrico, su un plinto in travertino comprensivo di piccolo
portico. La perfezione formale sfiorata da Mies cadde però, come al
solido, nell’alienazione della “scatola di vetro” provocata
dalle sue volgari imitazioni negli anni ’60 e ’70. Ma anche Mies
aveva le sue colpe, reo di aver creato un’architettura adatta solo
all’ordine e al denaro, capace di cadere nella ripetitività e
nell’alienazione se eseguita senza gli adeguati mezzi economici e
tecnici.
Il
Quartier Generale delle Nazioni Unite per New York di Harrison,
esempio di grattacielo in contesto non commerciale, era un
adattamento del progetto incompiuto di Le Corbusier del ’47, e
dimostrava agli americani la “vera funzione” del grattacielo,
ovvero liberare la città per garantire spazio, luce e verde, non
soffocarla.
Gli
studi di Le Corbusier sulla
proporzione e sull’armonia portarono al “modulor”, un teorema
che univa proporzioni umane e sezione aurea, alla ricerca della
riconciliazione tra meccanizzazione ed ordine naturale.
Le
opere tarde di Wright
rivelano la sua infinita capacità di invenzione. Ormai ottantenne,
alternava produzioni di un orientalismo scarso e quasi kitsch a ben
più alte realizzazioni. L’America delle periferie aveva adottato
la sua Usonian House come cliché, svuotandola di valori. Costruì
anche un grattacielo, la Price Tower,
dimostrando la sua avversione per l’idea di scatola/telaio/griglia
modulare, in favore di un nucleo con solai a sbalzo, ovvero un
sovrapporsi di piani orizzontali. L’opera che lo impegnò più a
lungo fu il Guggenheim Museum,
a New York. L’edificio si snodava intorno ad una rampa a spirale in
espansione, racchiusa da bande sempre più ampie, e i volumi
ausiliari che si articolano da questo volume conico ne riprendono
l’orizzontalità e le linee curve, su superfici lisce. L’edificio
è in nettissimo contrasto con la griglia della città, una forma
naturale e riposante, semplice e leggera. Wright sperava di
realizzare “l’opera d’arte totale”, in armonia con la pittura
e la scultura “non oggettiva” che doveva ospitare, anche se i
suoi pavimenti inclinati, le superfici curve e l’illuminazione non
erano adattissime ad un’esposizione di quadri (quasi che il
contenuto fosse solo un ornamento della sua opera architettonica).
Era comunque un caso emblematico di architettura “organica”, in
cui spazio, struttura e forma si fondono armonicamente, dove lo
spazio, sempre al centro della sua visione, è l’elemento
principale. Wright influenzò diverse generazioni di artisti, anche
se il suo messaggio non era facile da comprendere profondamente, e
ancora oggi non tutte le implicazioni delle sue opere sono state
esplorate.
In
questi anni tra la guerra e gli anni ’60 in America si venne a
creare l’ambiente ideale per lo sviluppo dell’architettura
moderna, ma spesso le energie non furono ben incanalate, e venne data
troppo poca attenzione alla città capitalista e alle sue
contraddizioni. L’architettura moderna ebbe in America una sorta di
“vittoria popolare”, ma perse l’anima che aveva in Europa.
CAPITOLO 23
Forma e significato nelle tarde opere di Le Corbusier
Nel
periodo tra il ‘45 e la sua morte (1965) Le Corbusier diede vita a
opere e capolavori di difficile catalogazione, tra rivisitazioni di
vecchi temi, nuovi spunti e primitivismo. Non perse vigore come
Gropius, né cadde nel manierismo come Wright, e nemmeno finì nel
perfezionismo tecnologico di Mies, ma sviluppò un mondo poetico
sempre più mistico e privato.
Introdusse
nuovi accorgimenti, come il bèton
brut (cemento a vista)
e il modulor,
combinandoli con rielaborazioni dei suoi punti fondamentali.
La
sua fiducia nella macchina, con la guerra, era diminuita, ed era
caduto in uno stato di resa, di parziale isolamento. Nella pittura
passò dal purismo a un biomorfismo inquietante e per nulla
oggettivo,. Il suo obiettivo di diventare l’architetto/urbanista a
capo della ricostruzione francese fallì, e si accontentò di isolate
dimostrazioni come l’Unitè d’Habitation a
Marsiglia, basato interamente sul modulor. Le sue utopie prebelliche
ormai non interessavano più a nessuno, e il “poeta della forma”
ripiegò sempre più in un personale mondo metaforico.
La
Cappella di Notre-Dame-du-Haut
(’50-54) è l’espressione diretta della religiosità di Le
Corbusier, intrisa di panteismo, animismo e di amore per la natura.
Appare come un edificio ricco di curve, superfici concave e convesse,
aperture irregolari, completato da tre torri “incappucciate”
orientate verso tre direzioni differenti. Le torri, insieme alle
superfici ondulate, rimandano al paesaggio collinare circostante.
All’interno, scavato come in una caverna, il pavimento in pendenza
focalizza l’attenzione sull’altare, e l’impressione di solidità
e di “massa” ravvisabile dall’esterno è smentita, all’interno,
da sottili forature lungo i solai e le pareti. Sulla parete esterna
un altare a cielo aperto mette a contatto con l’interno, grazie ad
una nicchia vetrata con la Madonna, visibile anche dall’interno
come in una finestra. Il sito, luogo di pellegrinaggio anche prima
della guerra, è esaltato dall’edificio, che ne richiama il
carattere processionale anche all’esterno, come una chiesa a cielo
aperto, una radura tra gli alberi che conduce all’altare, tutto
completato da un “mausoleo” rappresentato dalle macerie della
vecchia chiesa, distrutta dai bombardamenti. Il cambio improvviso di
direzione che il vecchio maestro Le Corbusier pareva aver appena
intrapreso scioccò la critica.
Subito
dopo progettò un altro edificio religioso: il Convento
Dominicano di La Tourette,
vicino Lione. Le Corbusier aveva sempre ammirato l’architettura
tradizionale monastica e la sua organizzazione, Reinterpretò il tipo
antico esemplarmente, sostituendo la pietra col cemento a vista, ma
conservando l’organizzazione a recinto chiuso. Ogni alloggio era
completo di balcone con vista panoramica, e la disposizione
rispecchiava quella delle strutture ad uso collettivo. Nel tutto
dominava un’austera bellezza morale, povera ma elegante,
rievocativa del percorso spirituale, della rinuncia e del contatto
con Dio. Si basava ancora sui cinque punti, ma con più varietà:
oltre ai pilotis cilindrici pilastri a sezione variabile, non sottili
superfici intonacate ma robusti muri, vetrate frangisole al posto di
finestre nastro, in un orientamento generale che andava al di là
del limitato International Style.
Le
Maison Jaoul, due piccole
case progettate tra il ’51 e il ’54, divennero anch’esse
oggetto di imitazione. Semplici casette in mattoni con struttura in
cemento a vista, con volte curve e tetti erbosi, che sostituivano la
presenza della “macchina” con la Natura e la ruralità.
In
India costruì la Casa Sarabhai
e la Villa Shodhan, di
cemento grezzo e mattoni artigianali cotti al sole. La prima
catturava i venti caldi con la sua struttura, ed aveva un tetto
erboso completo di canali per la raccolta dell’acqua, che defluiva
in una vasca. La seconda era una composizione di parasole, pannelli,
aggetti e aperture, per apparire come un cubo smaterializzato e ricco
di contrasti tra piani e volumi, capaci di sfruttare le correnti e
proteggere da sole e pioggia.
Nel
1951 ebbe la grande occasione di progettare un’intera città,
Chandigarh, che sarebbe
diventata la capitale del Punjab, e lavorò su questo progetto fino
alla sua morte (’65). Una griglia di circolazione suddivideva la
città in zone di abitazioni basse organizzate come in una
città-giardino, e molte abitazioni furono studiate per utilizzare
materiali del luogo (economici) e sfruttare le pecularietà
climatiche indiane. Nel cuore del corpo urbano c’era il centro
commerciale, collocato sull’arteria principale che conduceva alla
zona governativa, mentre le strutture culturali e per il tempo libero
sorgevano su un asse trasversale. Era una versione della Ville
Radieuse senza grattacieli, che riprendeva i boulevards di Parigi e
la forma della vecchia Pechino, senza trascurare l’arte
tradizionale indiana e quella sua personale (la scultura della Mano
Aperta vicino al palazzo del Governatore, la “ciminiera”
portatrice di luce). Chandigarh divenne il simbolo della Nuova India,
libera dalla tradizione e dall’oppressione coloniale,
Anche
le opere tarde offrirono spunti ad intere generazioni di artisti, e
gettarono le basi a correnti diverse, come i “New Brutalist”, e
spesso, come sempre, divennero oggetto di vuota imitazione.
Il
Carpenter Center for the
Visual Arts per la Harvard University sorgeva tra i precedenti
edifici neo-georgiani, ed era una struttura a pianta libera costruita
intorno ad una rampa ad S, ricco di compenetrazioni di volumi
curvilinei ed ortogonali, trasparenti e massicci. Anche
l’orientamento, non in asse col resto del complesso, ne accentuava
il dinamismo. Nonostante la sua importanza, questo fu l’unico
edificio costruito in America da Le Corbusier, un’America
industrialmente avanzata ma povera di spirito, ed infatti non fu
l’America a dargli la possibilità di costruire una città, ma
l’India, culturalmente ricca e materialmente povera. Morì nel
1965.
CAPITOLO 24
L’Unitè d’Habitation a Marsiglia come prototipo di residenza
collettiva
L’Unitè
d’Habitation di Marsiglia (1947-53) si pone
come prototipo alla base di una tradizione architettonica nel campo
dell’abitazione collettiva.
La
lastra è intagliata da profondi brise-soleil, e la struttura, in
cemento a vista, si compone di 12 piani più terrazza e piano terra.
Gli appartamenti sono standardizzati negli elementi, ma la loro
diversa combinazione permetta la coesistenza di monolocali per single
e abitazioni per famiglie con 4 figli. I colossali pilotis
definiscono uno spazio comune sotto l’edificio, e l’ascensore e
le torri delle scale ne accentuano la verticalità. Il tetto a
terrazza è reso riconoscibile da una serie di elementi scultorei: la
palestra, l’asilo, la bizzarra forma a ciminiera del volume tecnico
per l’aerazione, la pista, la piscina,che crea un’immagine “alla
Gaudì”. Era un laboratorio di sperimentazione, e allo stesso tempo
di dimostrazione, delle teorie urbanistiche di Le Corbusier. Cercò
di conciliare la necessità di urbanizzazione ad alta densità con le
“gioie essenziali” dell’uomo, cioè luce, spazio e verde. I
soggiorni erano tutti a doppia altezza (spazio e luce), ed erano
completi di ampi balconi con vista (verde). I singoli appartamenti
erano incastonati in modo che le stanze a doppia altezza stessero al
di sopra o al di sotto di quelle ad altezza singole di altre unità
abitative, riducendo al minimo gli sprechi di spazio e dotando il
tutto di dinamismo. Gli importanti spazi pubblici erano i corridoi
comuni (sovradimensionati) e il tetto a terrazza, oltre allo spazio
di passaggio sotto il palazzo, sorretto dai pilotis. L’Unitè era
un perfetto microcosmo collettivo, quasi la metafora di un
transatlantico fluttuante nella vegetazione marsigliese.
Da
questo prototipo partirono diverse correnti di pensiero, come quella
del Team X, un gruppo di
giovani architetti, il New Brutalism,
i progetti degli Smithson e i
Cluster Block inglesi.
L’olandese
Van Eyck tentò di
riconciliare passato e moderno, cercando di reintrodurre
nell’architettura moderna il “rifugio”, il primitivo.
L’Università
di Urbino di De Carlo,
arroccata sulla collina come le città medievali italiane,
sperimentava un ritorno al medievale intriso dell’organicità di
Aalto.
Purtroppo
la maggior parte delle reinterpretazioni dell’Unitè erano
desolanti edifici alti, che avevano abbandonato la combinazione
vincente di densità e strutture collettive in favore di un mero
funzionalismo basato soltanto alla massima densità possibile.
Spariva il verde, sparivano le aree collettive, spariva l’attenzione
allo spazio e alla luce. L’eccessiva semplificazione del modello è
stata disastrosa, ma per questo non è sicuramente da biasimare Le
Corbusier. Le lastre ad alta densità divennero presto bersaglio di
aspre critiche e di rivolta, e vennero identificate a simbolo
negativo, e si ritornò a sperimentare soluzioni di alta densità in
edifici bassi. L’Unitè simboleggia perfettamente la traduzione dei
sogni e delle speranze di un’epoca nei dubbi e nel cinismo di
un’altra.
CAPITOLO 25
Alvar Aalto e gli sviluppi scandinavi
La
monotonia e la piattezza delle “imitazioni” di architettura
moderna che avevano riempito il pianeta negli anni ’50 fecero
presto spazio ad un ritorno in voga del vernacolare rurale. Veniva
evocato un mondo preindustriale in cui uomo e natura erano in
armonia, con un occhio sempre rivolto alle tradizioni e ai climi e
materiali locali. Giedion battezzò questo stato d’animo col nome
di Nuovo Regionalismo, spesso
in contesti nazionalistici, ma del tutto diverso dallo stile
patriottico-evocativo del nazismo. La Maison Jaoul di Le Corbusier fu
un esempio molto ben riuscito di questa tendenza.
In
Finlandia un processo simile era già partito negli anni ’30, con
Alvar Aalto,
dove l’International Style era stato presto assimilato nell’ottica
di un’architettura romantico-nazionale, ricca del gusto nordico a
riguardo di luogo, paesaggio, luce e materiali naturali, e ciò era
stato favorito dall’industria non ancora pienamente sviluppata e
dalla grande abbondanza di legno.
La
figura di Aalto aveva grandissima influenza sull’ambiente
architettonico scandinavo, anche se lui rimase per lo più
inimitabile. Aalto nel ’47 insegnava al MIT del Massachusetts, e lì
ebbe la sua prima commissione significativa del dopoguerra: il
progetto della Baker House,
un dormitorio per gli studenti del MIT. La parte privata si
sviluppava in un corpo sinuoso in mattone rosso (tradizionale di
Boston), e la forma permetteva una grande varietà nelle stanze e
molteplici viste sul fiume, mentre la parte collettiva era riunita in
corpi rettangolari. Il contrasto di questo mattone di antiche
sembianze con la levigatezza meccanica dell’architettura Americana
sembrava un rifiuto all’industrializzazione in favore di valori più
umani, ma in America ebbe scarso seguito.
Per
Aalto era fondamentale “l’insenatura”, o cortile, spesso
formato da tre lati di palazzo.
Il
suo Centro Civico di Saynatsalo
è dominato dalle superfici erose, dai mattoni rossi, dagli spioventi
irregolari, dalle travi lignee e dalle superfici erbose, il tutto
immerso nella natura. La struttura della zona amministrativa era
ispirata alla polis greca, da cui cercava di prenderne la democrazia
per fonderla con i contorni glaciali e boscosi nordici.
Fino
alla sua morte (’76) Aalto ricevette moltissime commissioni, e
spaziò fra tutte le tipologie riuscendo sempre a dare una risposta
specifica alle aspirazioni del cliente, in sintonia col luogo e con
la sua ideologia sociale e naturalistica. Le sue forme divennero
sempre più irrazionali ed istintive, vagamente biomorfe; un tema
ricorrente, ad esempio, è quello della forma a ventaglio connessa ad
un rettangolo.
Nell’Università
di Tecnologia di Helsinki la forma a ventaglio
appariva in un teatro a gradoni all’aperto, illuminato dal sole,
che stava a simboleggiare la cultura “illuminata” e liberale.
Per
lui la Natura non era solo topografia e materiali locali, ma
soprattutto modello e fonte di leggi per l’architettura, come le
stratificazioni geologiche.
Uno
dei suoi seguaci più interessanti è stato Utzon,
autore della celeberrima Opera House di Sydney
(’57-66), che fu comunque modificata dopo le sue dimissioni. Queste
bianche curve volanti rimandano a barche a vela e al fluire delle
onde sonore, per un’immagine generale dinamica e ricca di tensioni,
che richiama alla mente l’armonia delle chiese gotiche. L’edificio
diventò spesso punto di riferimento per gli architetti di tutto il
mondo e simbolo nazionale per tutti gli australiani.
CAPITOLO 26
Discontinuità e continuità nell’Europa degli anni cinquanta
Nel
dopoguerra, in Europa, il
primo problema era sopravvivere e il secondo garantire alla gente un
tetto, e ciò spiega la mancanza di “poesia” e di idee
nell’architettura. Le eccezioni di Le Corbusier, Aalto, Utzon si
distinsero su uno sfondo di architettura neutra, funzionale, ma
mancante di umanità e sensibilità urbana. A ciò si aggiunse la
mancanza di seri piani regolatori e progettuali o la presenza di
questi nell’aspetto delle visioni prebelliche, troppo isolate da
ogni contesto climatico e locale.
In
Europa proliferarono molteplici interpretazioni della precedente
tradizione moderna, e gli sviluppi si orientarono ora verso
l’organicismo, ora verso il razionalismo, ora verso il
cosmopolitismo, ora verso il regionalismo.
In
Finlandia, nonostante la
guerra, lo sviluppo architettonico proseguì alla stessa velocità,
grazie anche ad Aalto e ad
una mentalità dirigente progressista e modernista.
Nella
Germania Occidentale l’architettura
moderna si accollò il pesante onere della “ricostruzione” per
milioni di persone, perdendo ogni carattere nazionalista o
regionalista che potesse in qualche modo ricollegare al nazismo (ma
cadendo in una certa “impersonalità” e freddezza). Inoltre, in
Germania, la guerra aveva disperso la maggior parte dei talenti che
avrebbero potuto garantire una certa continuità, e si cadde quindi
in prototipi americani caratterizzati da uniformità espressiva e
povertà di contenuti. Eiermann
riuscì, invece, a proporre un’architettura fatta di semplici
elementi, ma ricca di tensioni e appropriata a luogo e funzione.
Scharoun propose, al
contrario di Eiermann, forme meno sobrie, spessori un espressionismo
estremo, basate su geometrie spigolose e curve. Nella sua Filarmonica
di Berlino (’56) l’auditorium era concepito come un vascello
dalle molte facce, con forme spigolose, piani inclinati e
stratificati perle sedute fluttuanti a diversi livelli, per un
insieme che era l’evocazione della musica stessa in termini
spaziali. Le differenze tra Eiermann e Scharoun sono emblematiche
dell’ambiente degli anni ’50, diviso tra tentativi di recuperare
un’estetica minimalista e la via dell’espressione personale.
Anche
in Francia si pose il
problema della ricostruzione, e, anche qui, le idee architettoniche
non erano chiare. Regionalismi e vernacolarismi furono duramente
screditati a causa della loro presunta vicinanza al conservatorismo
di Pètain. Intere città furono affidate a singoli architetti
moderni (tra i tanti Le Corbusier, poi annullato, e Perret), ma in
generale l’architettura francese realizzò aree di scarso valore
progettuale al confronto di Scandinavia e buona parte dell’Europa.
Perret si basò su un
classicismo razionalista e semplice, strutturato sull’idea di
telaio e pannello, ma molti critici videro nel suo risultato
un’eccessiva monotonia, tra l’altro anche antiquata nelle idee.
Le Corbusier rimase,
paradossalmente, per lo più estraneo al suo paese, dove era quasi
ignorato al confronto dell’altissima attenzione che suscitava
all’estero. Non a caso le manifestazioni urbanistiche più vicine
al suo gusto e ai suoi insegnamenti si svilupparono al di là del
mediterraneo, dove il modello dell’Unitè fu sviluppato e adeguato
positivamente alle caratteristiche locali. Figura che usciva un po’
dalle tendenze francesi del dopoguerra era Pouillon,
che era da una parte l’antitesi architettonica di Le Corbusier
(facciata urbana continua, isolati circondati da strade
tradizionalismo), dall’altra strettamente legato alle
caratteristiche climatiche e culturali del sito. Un altro tema
importante nel contesto francese del dopoguerra era la ricerca di
un’appropriata relazione tra arte e tecnica, col tentativo di dare
dignità estetica alle opere ingegneristiche, come con Prouvè,
che fuse architettura e ingegneria, arte e artigianato, razionalismo
e art nuveau.
Anche
in Olanda si presentava il
problema della ricostruzione, ma esisteva una divergenza tra i
tradizionalisti guidati da Molière
(tradizione artigianale del mattone) e i “moderni” guidati da Oud
e Bakema.
Molière, fortemente cattolico, considerava il funzionalismo
degradante e materialista. Il moderno trionfò a Rotterdam, dove
Bakema svilupparono le idee prebelliche in un sistema su griglie in
sintonia con il paesaggio altamente artificiale olandese e con
riferimenti al “vecchio” De Stijl, ai piani sovrapposti di Wright
e all’organizzazione spaziale di Mondrian.
L’Italia
del dopoguerra, come la Germania, sentiva il dovere di distaccarsi
nettamente dall’architettura del fascismo, ma, a differenza della
stessa Germania, non aveva subito lo stesso “esodo” di talenti.
La forte presenza della tradizione e la più viva cultura
architettonica moderna davano sicure garanzie di qualità
sull’architettura, e solamente il classicismo esplicito fu
rigettato tra le varie possibilità costruttive. Il dibattito per una
nuova architettura vide sorgere molteplici correnti di pensiero, come
i Neorealisti (influenzati
dal neorealismo cinematografico) Ridolfi
e Quaroni, che cercarono di
inserire nei loro edifici l’ideologia populista e la coscienza
proletaria. La Stazione Termini di Roma era, invece, uno sviluppo del
Razionalismo, che annoverava
artisti come Gardella
(Padiglione di Arte Contemporanea a Milano), Figini
e Pollini (nel Gruppo 7 degli
anni ’20 con Terragni). Il Grattacielo Pirelli
di Giò Ponti e la Torre
Velasca di Peressutti
e Rogers
sono due grattacieli che dimostrano bene la straordinaria diversità
nell’architettura italiana. Il primo era un elegante e tecnologico
palazzo che dimostrò come in Europa non necessariamente si dovessero
imitare gli esempi americani; il secondo aveva gli ultimi 6 piani
(per gli alloggi) protesi verso l’esterno e sostenuti da
contrafforti obliqui, con una verticalità accentuata per essere in
sintonia col vicino Duomo e rivestimenti in pietra per non
discostarsi troppo dai più antichi e più bassi palazzi circostanti,
avvicinandosi ad uno stile medievale e storicista, e attirando
(ingiustamente) per questo numerose critiche.
In
Italia era impossibile distaccarsi nettamente dalla tradizione (come
sosteneva il Gruppo 7), e l’architettura moderna ne fu sempre
ispirata. Lo stesso ingegner Nervi
(autore del Grattacielo Pirelli) sembrava un degno discendente degli
architetti dell’antichità. Scarpa,
anche lui convinto tradizionalista nella sua modernità, si
avvicinava ai piani e allo spazio di Wright e del De Stijl, con
riferimenti classici e cenni di architettura organica.
In
Grecia l’architetto
Pikionis sviluppò
un’architettura dalle basi fortemente classiche e dai mezzi
espressivi moderni, e, come Scarpa, riusciva perfettamente ad
estrarre l’anima
storica di ogni luogo.
In
Portogallo, dove folklore e
mondo rurale erano ancora forti, Tavora
ritornò in modo moderno alle radici locali dell’architettura,
cercando di eliminare l’eclettismo e il provincialismo dominante.
Siza, come lui, vedeva nel
moderno la via d’uscita dal provincialismo, e si poneva come
modello l’architettura contadina.
In
Spagna, isolata dall’Europa
e persa tra il tradizionalismo di Franco e l’arretratezza
tecnologica, l’unico tenue contatto con l’estero era con il
Razionalismo italiano. Barcellona fu la prima città a voler
riconquistare i contatti con l’architettura moderna internazionale,
favorita dalla sua identità catalana e indipendente, vogliosa di
differenziarsi dal centro spagnolo e di accomunarsi con l’Europa.
L’architetto simbolo di questo periodo fu Coderch,
che sviluppò un linguaggio moderno dai mezzi limitati ma dalla forte
attinenza al loco e alla tradizione mediterranea.
Nel
frattempo si diede una risposta razionalista e funzionalista alle
forti migrazioni dal sud verso le grandi città del nord. De
la Sota propose un’architettura moderna fatta
di planarità, materialità e immaterialità, di riferimenti a Mies
van der Rohe, e diede una forte spinta alla volontà spagnola di
distaccarsi dal tradizionalismo di Franco in direzione del modello
industriale occidentale di modernizzazione. Il suo Palazzo
del Governo Civile a Terragona (ispirata forse
alla Casa del Fascio di Terragni), che rappresentava il potere
centrale di Madrid in Catalogna, era un edificio incerto,
asimmetrico, in alcuni casi leggero e trasparente, ma di forte
razionalità classica, in netto contrasto con la tradizione
franchista. Dimostrazione del successo di questa acuta
“de-costruzione” dell’iconografia del potere è il fatto che il
palazzo, alla fine del regime franchista, acquisto funzione
democratica, e fu preso a esempio anche dalla nuova generazione di
architetti che ne detestava comunque la funzione originale. La
Palestra del Collegio Maravillas
a Madrid è, invece, priva di ogni riferimento retorico, addirittura
umile e funzionale, e il suo look industriale era completato da un
campo da gioco sul tetto. L’acciaio aveva qui un ruolo
predominante, e l’attenzione rivolta a luce ed aria rendono
l’edificio perfettamente funzionale e armonico.
De
la Sota riprese l’insegnamento di Mies van der Rohe e lo rielaborò
non per imitarne lo stile, ma per creare una continuità che
permetterà a generazioni di architetti spagnoli di avere una solida
base per la loro ricerca tra modernità e continuità, garantendo il
rinnovamento di una tradizione altrimenti destinata a morire.
CAPITOLO 27
Il processo di assimilazione: America Latina, Australia, Giappone
Il
Movimento Moderno si sviluppò in alcuni Paesi dell’Europa
Occidentale, Stati Uniti e Unione Sovietica (anche perché, essendo
il Movimento un riflesso dell’industrializzazione, queste erano le
zone industrializzate), ma, verso la fine degli anni ’50,
trasformazioni, valorizzazioni e deviazioni dell’architettura
moderna si erano fatte strada in tutto il mondo, favorite dallo
sviluppo post-bellico, dalla rapida industrializzazione di alcune
zone e dal propagarsi di idee progressiste, capitaliste o socialiste.
I
problemi principali furono la trasformazione dei prototipi in
immagini stereotipate, l’attinenza ai nuovi contesti, la
persistenza o meno delle tradizioni locali. Paesi come Giappone,
Brasile, Sudafrica e Messico accolsero l’architettura moderna già
negli anni ’20-30, sviluppando proprie evoluzioni tra le due
guerre, ma la linea generale era stata l’attinenza
allo stile
internazionale. Nei due decenni dopo la
guerra, invece, il Movimento Moderno assunse molteplici forme nei
suoi centri generatori, e venne data grande attenzione al variabile,
al locale, all’indigeno, al clima. L’India entrò a contatto con
il moderno solo tramite le opere tarde di Le Corbusier, il Pakistan
tramite Kahn, l’Australia tramite Wright; l’influenza di questi
grandi artisti è stata enorme in tutto il mondo, e tutto ciò che
oggi vediamo deriva dall’adozione o meno di alcuni “modelli” da
loro sviluppati (es. i grattacieli di Mies van der Rohe, i cottage di
Wright, i palazzi di Le Corbusier).
In
Messico il Movimento Moderno
aveva già giocato un ruolo importante nella riforma
post-rivoluzionaria degli anni ’20-30; presto assimilato, liberò i
messicani dai simboli della colonizzazione straniera e assunse il
valore del progresso e dell’unità tra i popoli dell’America
Latina. Il Messico, neutrale, proseguì i suoi sviluppi anche durante
la seconda guerra, e rispose ai problemi derivati da urbanizzazione
ed industrializzazione con edifici alti a lastra in sequenze
parallele o libere. Negli anni ’50 si sperimentò sul tema della
riconciliazione tra generale e locale, cosmopolitismo e tradizione.
La figura chiave fu Barragàn;
progettò per committenze facoltose della periferia di Città del
Messico, sintetizzando tradizione e moderno, materiali locali e
tecniche nuove, natura e tecnologia, con riferimenti al Surrealismo
europeo e all’astrattismo, per un risultato di mistici rifugi
contemplativi. Per Barragàn “qualsiasi opera di architettura che
non esprima serenità è un errore”. Ha sempre sostenuto la propria
“architettura emozionale” nei confronti del deplorevole
funzionalismo, e i suoi lavori avevano sempre un che di spirituale,
di privato. Progettò, nel ’57, le 5 torri monumentali a base
triangolare per il quartiere “Satellite City”, e nel ’61
l’Ippodromo di Las Arboledas.
In
Brasile il Movimento Moderno
gettò le sue basi negli anni ’30 con architetti come Costa
e Niemeyer. Il movimento
assunse un carattere particolarmente progressista, incarnando l’anima
dello stato Brasiliano, in rottura col precedente eclettismo. Nei
primi anni il problema principale, come sottolineò lo stesso
Niemeyer, fu che, in tutti questi paesi in via di sviluppo,
l’architettura moderna per essere costruita, anziché mezzo
universale di progresso, divenne un giocattolo chic per una ristretta
minoranza. Negli anni ’50 le basi sociali vennero ampliate, e si
sviluppò un moderno con una complessità formale derivata dal
barocco coloniale e dal biomorfismo astratto moderno. Mentre in
Messico gli ideali progressisti si fondevano con la celebrazione
nazionale permessa dall’estesa eredità precolombiana, in Brasile
non c’era un equivalente delle rovine messicane. Costa, nel suo
piano per Brasilia, e
Niemeyer, nel suo progetto per il Campidoglio della stessa,
elaborarono un linguaggio monumentale utilizzando principalmente
mezzi moderni. La città, intrisa della retorica tecnocratica del
decennio, si sviluppava come proiettata dal centro del paese, vasto e
inesplorato. In pianta ricordava le ali di un aereo, e il punto
centrale, la Piazza dei Tre Poteri (con Palazzo Presidenziale, Corte
Suprema e Congresso), era sull’asse principale che si allungava
all’infinito verso il centro del continente. La Cattedrale,
definita da un fascio di travi iperboliche, completava la piazza come
una corona di spine. Brasilia era l’immagine dell’èlite
tecnocratica che governava il Brasile, un simbolo dell’impegno
nazionale nello sviluppo industriale. Niemeyer aveva formulato
un’espressione tropicale moderna adatta ai climi caldo-umidi tanto
appropriata quanto Barragàn aveva fatto per i climi caldo-secchi.
In
Venezuela l’architetto
Villaneuva sviluppo un
repertorio ricco di elementi a sbalzo e fessure adatto al clima
equatoriale umido e appiccicoso, e nel contempo indirizzò il paese,
di recente industrializzazione, verso una visione sociale
progressista.
In
Australia non solo non c’era
una vera e propria tradizione, ma la popolazione aborigena non si
esprimeva in tipologie edilizie permanenti. Siedler
era il portatore della risposta “internazionale”, estranea al
luogo, cosmopolita, Muller,
invece, riuscì finalmente a sviluppare un “regionalismo moderno”
adatto al territorio australiano. Nel ’50 prese piede un’altra
corrente ancora, quella dei “paesi
dell’interno”, cioè ispirata ai rifugi
temporanei, impalpabile e in grado di mettere in risalto al massimo
la natura.
Nel
frattempo quello che si diffondeva nel resto del mondo non era lo
“stile internazionale”, ma la sua valorizzazione, un vero “stile
multinazionale” esportato dal capitalismo, favorito
dall’industrializzazione troppo rapida di questi paesi e al potere
degli affaristi occidentali. Questo modernismo privo di anima
sembrava cospirare contro le tradizioni nazionali, e portò, così,
ad una tendenza generalizzata al ritorno al vernacolare, al
regionalismo, al “paesanesimo”.
In
Giappone pose le sue basi tra
le due guerre in un ristretto numero di edifici d’èlite, ma,
quando arrivarono anche le idee urbanistiche e su larga scala, queste
entrarono in conflitto con gli antitetici modelli orientali. Il
Giappone era in una grave crisi dopo la guerra, e il grandissimo
bisogno di abitazioni venne soddisfatto da piccole unità modulari a
basso costo sul modello tradizionale del tatami.
Il dibattito sulla possibilità o meno di uno stile giapponese
moderno proseguì fino al ’50, quando, sotto la spinta
dell’industrializzazione crescente e della progressiva
“americanizzazione” della società, si cominciò ad avvicinarsi
ai modelli occidentali, districandosi dagli stereotipi imperialisti e
nazionalisti precedenti. Si trovarono le analogie tra le strutture
moderne e quelle, in legno, tradizionali, tra gli aggetti, le parti
modulari, pareti scorrevoli, schermi. Effettivamente le analogie
erano moltissime, ma gli edifici a grande scala, ad esempio, non
avevano precedenti tradizionali. Spesso non si trovarono soluzioni
sintetiche: molte case sono “occidentali” su un lato e
“tradizionali” in alcune stanze. Si cercò di superare questa
frattura, come fece, ad esempio, Kenzo Tange,
allievo di Le Corbusier. Il linguaggio giapponese divenne simbolico
della nuova democrazia, ma anche di un certo orgoglio personale, che
non doveva sfociare, però, in autoritarismo. Chandigahr divenne un
esempio da seguire. L’architettura moderna giapponese era ormai
conosciuta in tutto il mondo, caratterizzata da un’intensa
espressione strutturale (Stadio Olimpico di Tokyo di Tange) e un uso
“prepotente” della moderna tecnologia. La tradizione perse sempre
più peso, e persino i piani urbanistici degli anni ’60 divennero
grandiosi schemi utopici basati su un fantastico dispiegamento
tecnologico. Il gruppo “metabolist”,
che esaltava il cambiamento e richiamava il futurismo italiano,
propose progetti, mai realizzati, che esaltavano la tecnologia e
componevano la città di parti fisse e variabili, assemblabili
modularmene.
CAPITOLO 28
Su monumenti e monumentalità: Louis I. Kahn
Tra
le due guerre era insolito per gli architetti moderni ricevere
commesse che richiedessero un trattamento monumentale, con rare
eccezioni, come il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin o la
Lega delle Nazioni e il Mundaneum di Le Corbusier. Il tradizionalismo
ufficiale si mantenne forte in questo campo, essendo questo un campo
in cui era necessario preservare
valori e suggerire continuità col passato, e, nei regimi totalitari
che sostennero un’architettura monumentale, il solo paese a
ricercare una monumentalità moderna fu l’Italia. Ciò fece sì
anche che la monumentalità in se fu guardata con sospetto da tutti
gli stati liberali, come simbolo dal totalitarismo, ma dal ’43, con
Sert e Giedion, si cominciò a dibattere sulla possibilità e sulla
tipologia di una monumentalità del dopoguerra. Ormai l’architettura
moderna era in grado di rendere la giusta monumentalità negli
edifici, soprattutto grazie all’esempio dato da Le Corbusier, ma
appariva ancora il vecchio problema del distinguere le diverse
funzioni e del creare una gerarchia. Col tempo la monumentalità
moderna si riavvicinò sempre di più al tradizionale e al regionale;
in Unione Sovietica si venne a creare uno stile particolare, fatto di
cenni allo stato e al comunismo, e in Usa, dove era necessario
distinguere monumentalità privata e pubblica, si cercò di elaborare
un linguaggio nuovo. Mies van der Rohe, in Germania, dimostrò come
il cemento non fosse l’unico mezzo per dare monumentalità,
progettando la Nuova Galleria Nazionale in acciaio e vetro.
L’americano
Kahn, nato neoclassico in un
ambiente che aveva appena cominciato a rifiutare le beaux-arts, si
ritrovò ad assistere, negli anni ’50, ad un generale tentativo di
ritorno ad uno scialbo neo-classicismo, forse come reazione al
ristretto e minimalista “International Style” americano.
L’architettura americana tendeva sempre più alle megastrutture,
alla maestosità, al gigantismo, ma il maestro di tale monumentalità,
ovvero Kahn, fu l’unico a sviluppare un linguaggio adeguato. Superò
i problemi di forma e non cadde in esagerata grandiosità, fuse
metodi tradizionali e mezzi moderni, si intrise di tradizione ma
senza forzature e stonature. La sua era un’etica costruttiva
struttural-razionalista, ma carica di tradizione. Il suo linguaggio
maturò negli anni ’50, con la Yale University
Art Gallery. Il soffitto a trama triangolare
creava interessanti effetti luminosi, e l’esterno richiamava
l’acciaio e vetro di Mies, mentre l’interno ricordava gli spazi
di Wright. Nei Laboratori Medici di Ricerca
dell’Università del Pennsylvania il suo linguaggio si sviluppò
nella distinzione tra parti, tra fisso e variabile, tra funzioni,
come in un moto di repulsione dalla “scatola neutra”. Esaltò le
torri delle ascensori e i giunti strutturali, conferendo
monumentalità e potenza al lavoro di ricerca svolto all’interno,
anche se mancava un po’ di funzionalità. Architettura, per lui,
era meditata creazione di spazi, indipendente dalle richieste dei
committenti, ma legata solo a spazi in armonia idonea alla funzione.
Era necessario identificare la forma ideale per il “tipo” di
istituzione, derivata dall’analisi dei bisogni, e da qui creare un
linguaggio idoneo e coerente. Era una posizione idealista che tendeva
a definire “forme-tipo”, basate su geometrie primarie (quadrato,
rettangolo, triangolo), che miravano a esprimere la sua visione
panteistica della natura. Nel definire la sua monumentalità Kahn non
poté mai fare a meno del “muro”, come piani di luce immateriali
che definivano, in negativo, ombre scure. I muri non erano importanti
solo perché definivano gli equilibri degli edifici, ma anche tra gli
edifici, territorio a cui Kahn rivolse sempre grande attenzione.
Strade, piazze e spazi di paesaggio avevano un ruolo da protagonisti.
Nel
Jonas Salk Institute for Biological Sciences
(’59-65), una comunità di scienziati in ricerca intensiva, non
cercò di esaltare la componente progressista del progetto, ma tentò
di esplorare le implicazioni umane delle scienze, trovando
riferimenti ideali nei monasteri. Il complesso era diviso in tre
zone: aree di riunione e auditori, residenze e laboratori stessi,
tutto in blocchi separati da giardini e acqua, con aspetti
contemplativi ed eleganti. Il Salk Institute era il livello zero
della sua poetica: per quanto ricordi la sublimità dell’antichità,
questa veniva raggiunta attraverso mezzi moderni e astrazioni di
spazio, luce e struttura.
Il
Kimbell Art Museum era una
serie di volte parallele in cemento, su pianta classica, ma lo spazio
interno era asimmetrico e fluttuante, concedeva viste diagonali e
spezzava l’abituale divisione interna standardizzata. Il tutto
utilizzava un limitato numero di materiali: travertino, cemento,
acciaio, acqua e vetro. Ogni volta era divisa in due sulla sommità
da una fessura che permetteva l’ingresso della luce, riflessa su
pannelli di acciaio rivolti verso l’alto che diffondevano
sofficemente la luce.
Nel
suo edificio per l’Assemblea Nazionale di
Dacca (Bangladesh) ha raggiunto la sua piena espressione monumentale.
La sua “forma” avrebbe dovuto riflettere il significato
dell’istituzione più impostante, il governo, e uno dei simboli
usati maggiormente fu il cerchio (centro, combinazione sociale
armonica). Per quest’opera Kahn assorbì echi e riferimenti di
opere importanti nel campo sia d’occidente che d’oriente, ed
elaborò una struttura poggiata su un basamento di mattoni,
circondato d’acqua, costruito in cemento grigio con sottili inserti
in marmo (che ricordavano le capanne di giunchi legati). Intorno alla
massa centrale del Parlamento c’era un assembramento di volumi
cilindrici e oblunghi, sede di istituzioni minori ad esso collegate
(tra cui una mosche orientata a La Mecca). Come Le Corbusier a
Chandigahr, Kahn amplificò il suo precedente sistema architettonico
per raggiungere risultati di massiccia grandiosità. Mentre l’esterno
sembrava solido, l’interno si dissolveva e le buie fessure esterne
si riempivano di luce. L’uso dei materiali e della struttura
sembrava far credere che l’edificio fosse lì da secoli. Kahn seppe
essere conservatore nello spirito, non copiando le esteriorità del
passato, ma la mentalità, come per Wright. Per lui non cambiavano
gli obiettivi dell’architettura, ma soltanto i messi.
CAPITOLO 29
Architettura e anti-architettura in Gran Bretagna
Nel
dopoguerra ogni paese aveva i suoi programmi riguardo l’architettura
moderna, e la Gran Bretagna, finalmente, diede la giusta importanza a
quest’architettura (anche grazie alle necessità di ricostruzione),
fino ad allora sottovalutata.
Tra
i progetti del dopoguerra vi furono le New
Towns, con
numerosi blocchi di appartamenti in serie a standard minimi,
lievemente ispirati alla Garden City. Le soluzioni più diffuse
mancavano sempre di ricchezza, e si collocavano inadeguatamente nel
contesto urbano.
La
speranza era nella nuova generazione, che includeva architetti come
Alison e Peter Smithson.
Ispirati da Le Corbusier e Mies van der Rohe, elaborarono un
linguaggio fatto di impianti e materiali a vista, senza intenzioni
formali, definito dalla critica “New
Brutalism”.
Provavano disgusto per la raffinatezza delle èlite, in favore della
cruda e grezza vita urbana moderna, e cercarono di rispecchiare ciò
nella loro arte. Il loro realismo sociale individuò delle icone
nella “materia della scena urbana”, cioè nei meccanismi, negli
annunci pubblicitari e nelle cianfrusaglie della strada.
Ebbero
poche opportunità di esprimersi prima dei tardi anni ’50, quando
ebbero la commissione dell’Economist
per dei nuovi uffici per gentlemen a Londra. Ciò richiedeva una
pacatezza estranea al loro stile sfacciato, e realizzarono il
progetto in tre torri distinte che creavano, al loro interno, una
piccola piazza sinuosa. Il blocco principale, quello per gli uffici,
era il più alto, e il più arretrato dal livello stradale, con
angoli smussati per ammorbidirne la relazione con gli edifici vicini.
I materiali (travertino) diedero al complesso un carattere
celebrativo, mentre la divisione interna suggeriva una struttura
contemplativa quasi monastica. L’asimmetria di questo “grappolo”
era una critica alla città attuale e ai palazzi per uffici,
richiamando le piazze italiane e i percorsi cerimoniali della polis
greca.
La
loro prima occasione nel campo delle residenze per la classe operaia,
per cui erano naturalmente orientati, arrivò solo nel ’66, col
Robin Hood
Gardens,
e anche qui stravolsero il tipo dell’edificio alto, dividendolo in
due spine sinuose che delimitavano uno spazio verde culminante in una
collinetta artificiale. Le strade-ponte fallirono nel loro intento di
esprimere una comunità ideale, anche perché il complesso era in
sintonia con la dura realtà degli anni ’50, non con il consumismo
degli anni ’60. Erano arrivati tardi.
Un
altro importante architetto fu Stirling,
che sentì il bisogno di dare forza all’architettura moderna
inglese riavvicinandola alla tradizione nazionale. Si rifugiò in una
poetica grezza e incline all’estetica della macchina, vicina a
quella del New Brutalism, ma, in realtà, fonte più importante era
per lui il vernacolo industriale delle città del nord, come
Liverpool.
Il
suo stile emerse nel Leicester
University Engineering Building
(’59-63), un edificio lievemente industriale e navale, con forti
aggetti e vetrate industriali, sovrastato da una torre per le riserve
idrauliche.
Nella
History
Faculty Building
della Cambridge
University
riuscì ad integrare perfettamente, come da richiesta, la biblioteca
con gli ambienti circostanti, con uno stile oscillante tra
fantascienza, romanticismo ingegneristico ed esaltazione di vetro e
acciaio. Nonostante la sua originalità formale, tutto era ponderato,
in relazione a un forte razionalismo e funzionalismo. Prediligeva le
superfici vetrate perché permettevano di sfruttare la luminosità
soffusa del plumbeo cielo inglese, e ne difendeva la non
impeccabilità termica col clima normalmente stabile, privo di sbalzi
termici. Lo stile di Stirling raggiunse la sua pienezza negli anni
’60 e ’70, con una serie di grossi impianti industriali, immagini
della nuova civiltà della macchina, influenzato anche dalle teorie
di “Archigram”.
“Archigram”
era un gruppo di architetti (Cook, Chalk, Herron, Crompton, Webb,
Greene) fondato nel ’61. Facevano uso di simbologie “rubate”
alla fantascienza e all’astronautica, come capsule, astronavi e
robot. Herron immaginò città dalla forma di ragni che si muovevano
sull’acqua verso Manhattan (Walking
City), Cook
pensò la Plug-in
City,
strutturata su intelaiature in cui potevano essere inseriti elementi
abitativi standardizzati. Archigram aveva un atteggiamento
anti-eroico che rifiutava la venerazione della natura; addirittura
esaltavano le possibilità edonistiche del consumismo moderno.
Cercavano di “trovare un nuovo vernacolo, costruire città simili a
raffinerie e case simili a macchine, per quest’atomica epoca
elettronica”, liberata dal peso della storia e della cultura.
Archigram
non era l’unica manifestazione di tali pensieri: Price
sosteneva che la città sarebbe stata migliore senza le ossessioni
dei formalisti, e il suo “anti-stile” era una delle tante
espressioni di questa crescente “non-architettura”. Il paradosso
di questi anti-architetti, però, era che, nel loro tentativo di
sovvertire i legami col passato e le costrizioni di espressione
formale, definirono essi stessi una tradizione e delle forme, fino a
quando, negli anni ’70, le loro forme verranno addirittura
“addomesticate” dall’architettura ufficiale.
Lasdun,
invece, si poneva contro queste tendenze, e considerava la tecnologia
solo un
mezzo,
piuttosto che un fine. Lasdun innestò nel suo moderno l’attenzione
per il contesto, prima di allora assente: ormai era importante un
minimo di coerenza ed armonia con il contesto circostante, non più
come nei primi anni del Movimento Moderno, quando si cercava,
piuttosto, il contrasto
accentuato.
Il
suo Royal
College of Physicians (’59-61),
sede di un prestigioso corpo accademico di medici, collocato vicino
alle neoclassiche terrazze del Regent Park di Nash, non strideva
minimamente col contesto. Un bianco parallelepipedo su pilastri, con
un pian terreno in mattoni curvo e inclinato. L’atrio conteneva una
scala a spirale a pianta quadrata che collegava i diversi livelli
aperti su un lato. Nelle forme e nelle finiture si riscontrava una
delicatezza neoclassica, il terrazzo bianco richiamava il bianco del
Regent Park, i pilastri riprendevano gli ordini classici, i mattoni
porpora rispecchiavano i tetti in ardesia circostanti. L’edificio
“rimava” perfettamente col Regent Park di Nash e la città
circostante.
La
sua ossessione per il contesto si sviluppò ulteriormente nel
progetto per la University
of East Anglia
di Norwich. Il contesto era rurale, su un prato degradante verso il
fiume. Scelse un modulo lineare capace di seguire l’andamento del
paesaggio circostante, fatto di una successione di livelli
sopraelevati, “stratificazioni” con torri annesse che, oltre a
emulare il paesaggio, miravano a innalzare le attività umane su
livelli superiori.
Nel
National
Theatre
(’63-76) questo sistema di torri e stratificazioni si perfezionò,
con una serie di spazi compenetranti lungo il fiume in grado di
rendere benissimo la natura pubblica e aperta di questa istituzione.
Le torri richiamavano l’estetica barocca e i profili medievali,. La
forma del corpo principale era asimmetrica e cangiante, in cui spazio
e luce collaboravano a suggerire il continuo mutare dei volumi,
impedendogli di diventare un arrogante monolite e mantenendolo a
scala umana.
Nonostante
questo grande pluralismo, in Gran Bretagna c’erano anche degli
interessi comuni: la ricerca di una sintesi tra moderno e tradizione,
l’importanza della tecnologia, l’aspetto umano.
CAPITOLO 30
Estensione e critica negli anni ’60
I
grandi nomi di questo periodo, per quanto diversi, presentano tratti
comuni: sono tutti nati tra il ’15 e il ’30 e cresciuti nel
declino dell’International Style, hanno tutti ammirato le opere
tarde dei maestri per la loro ricerca di una maggiore robustezza e
complessità, e cercarono di evitare sia la difesa di dogmi del
passato che la reazione totale ad essi.
Negli
anni ’60 un ottimismo generalizzato, persino nel pubblico,
circondava l’architettura moderna (le crisi degli anni ’70 e ’80
sembravano ancora lontane…), e Giedion, annunciando la “Terza
Generazione”, previde un lungo e facile cammino per l’architettura
moderna. In realtà le differenze tra gli autori erano enormi, e non
si venne mai a creare un coerente stile del tempo. Nell’edilizia
generica si assistette ad un trionfo di una banale formula
internazionale, riduttiva, monotona e strumentale alla rendita. I
maestri pionieri trovarono il loro “nemico” nel “corrotto
revivalismo” del XIX secolo, ma negli anni ’60 bene e male erano
più difficilmente distinguibili; l’eclettismo aveva perso
centralità, ma la svendita dell’architettura moderna aveva creato
un “male” che condivideva le forme con il “bene”.
L’architetto degli anni ’60 fu incapace di scegliere una strada
precisa, tra la voglia di preservare, quella di innovare e quella di
ricominciare daccapo, ma questi dubbi rimasero fino agli anni ’70,
causandone la crisi. Alcuni dilemmi furono la conseguenza del
materialismo del rapido sviluppo economico, causa di uno sviluppo
urbano selvaggio che, oltre che a mancare di urbanità, distruggeva
le campagne. Molte critiche, infatti, riguardavano la creazione di
aree di circolazione pubblica, l’integrazione di vecchie e nuove
piazze e vie, recupero dei centri storici. In questo periodo il Team
X lavorò
sull’associazione umana e sulla ridefinizione dell’identità
urbana. Il Team X non diede vita a dogmatismi, anzi dava grande
libertà ad ognuno di essi. Van
Eyck, ad
esempio, lavorò su una certa “continuità” con l’utopismo
prebellico; d’altronde l’Olanda era patria di grandi esempi di
urbanizzazione. In tutte le sue opere c’era un tono umano
rassicurante, ma, come anche per gli altri del Team X, pose poca
attenzione alla connessione tra i suoi edifici e la struttura urbana
esistente.
Agli
inizi degli anni ’60 l’International Style era già “passato”,
mentre prendeva piede il “New
Brutalism”,
contraddistinto da un’espressione diretta dei materiali,
separazione di parti ed elementi, accentuazione delle torri di
servizio, compenetrazione di spazi. Si esaltavano i dettagli come
“cose in sé”, con superfici in cemento grezzo a vista che
richiamava sia la forza della realtà urbana, sia l’effetto
dell’erosione naturale. I temi della “nuda verità” e “onestà
strutturale” erano presenti in molti edifici dei primi anni ’60,
anche non propriamente “New Brutalism”.
In
Finlandia,
come in tutto il mondo, erano presenti diverse componenti di
sviluppo, a volte in competizione. C’era il minimalismo
quasi astratto di Blomstedt,
l’organicismo
di Pietila,
e i residui di Moderno, a cui questi ultimi si contrapponevano, che
andava ancora di gran moda nel resto del paese.
In
Spagna
il pluralismo si espresse con l’integrazione di elementi del
Moderno e di soluzioni adeguate ai diversi climi e luoghi, senza però
cadere nel regionalismo. Madrid si arricchì della Torres Blanca di
de Oiza,
una torre organica, funzionale e tecnologica, come deve un’opera di
architettura moderna, ma anche anti-moderna per il suo espressionismo
scultoreo. Barcellona vide sorgere molte opere mature di Coderch,
caratterizzate da mattoni rossi, balconi in cemento, terrazze,
declinando l’Unitè di Le Corbusier alla realtà catalana.
In
Germania
emersero diverse scuole di pensiero, e Berlino si arricchì di molti
edifici validi singolarmente (tra cui una Unitè) ma privi di un
principio urbanistico comune. La monumentalità civica stava ormai
tornando dal suo stato di “tabù” postbellico, e la norma
dell’edilizia corrente si era assestata su una prosa architettonica
di baso profilo basata su blocchi a parallelepipedo, telai
strutturali e facciate continue, in contrasto con le rare
dimostrazioni di poeticità di artisti come Mies
van der Rohe
(Nuova Galleria delle Nazioni) e Scharoun
(Filarmonica di Berlino). Le reazioni a questa monotonia assunsero
spesso le forme dell’organicismo romantico ispirato al passato o
del riesame delle regole urbanistiche del passato. Il problema del
“passato” stava inesorabilmente tornando al centro
dell’architettura tedesca.
In
Italia
il “miracolo economico” del dopoguerra si realizzò a spese sia
della città che delle campagne.L’architetto Scarpa
si tenne lontano dalla consuetudine italiana alla teorizzazione (es.
Argan), e creò mirabili esempi di edifici moderni perfettamente
inseriti in un tessuto più antico. De
Carlo si
confrontò con il problema della grande scala e della
standardizzazione edilizia (Università di Urbino), senza perdere di
vista i valori architettonici ed urbani.
In
Gran Bretagna il Team X, gli Smithson, Lasdun e Stirling
erano
espressioni uniche, ma gli Archigram
e la loro non-architettura furono molto simili alla sperimentazione
di Archizoom
e Superstudio
in Italia. Superstudio esprimeva un rifiuto del capitalismo, vedendo
le forme e gli spazi dell’architettura del passato solo come una
pretesa di ordine assoluto, maschera di oppressivi sistemi sociali di
potere.
Mentre
l’intenzione del Team X era di “umanizzare” la tecnologia, le
loro opere attirarono molte critiche di eccessiva astrazione. La
critica di sinistra attaccava ormai il moderno, giungendo al punto
massimo alla fine degli anni ’60, con l’accusa alla
pianificazione urbana di essere la maschera del capitalismo, un
controllo sui poveri. Altri gruppi sostennero e difesero le strutture
storiche e tradizionali delle città, ponendole al centro
dell’urbanizzazione (in contrasto con le megastrutture tecnologiche
stile Archigram o Metabolist). L’idea della Megastruttura, in
realtà, era di convogliare in un edificio singolo le tematiche della
città, viste anche le continue critiche mosse ad ogni tentativo di
pianificazione urbana. Per contro, molti chiedevano alla città
moderna di adattarsi a quella antica, non il contrario, come era
accaduto fino ad ora con risultati spesso terribili. L’interesse
per l’edificio venne sostituito da quello per l’isolato, nel
tentativo di creare una città di spazi, e non di oggetti.
In
Usa, invece, ci fu un boom
edilizio, e si creò una sorta di araldica standardizzata per la
grande impresa, dallo stile che riecheggiava un Mies semplificato.
L’estrema fiducia nella potente tecnologia americana portò anche
qui ad un gusto particolare per la megastruttura (si pensò
addirittura di coprire Manhattan con una calotta ambientale) e ad uno
strapotere del calcolo e della scienza ingegneristica sul gusto per
la forma. Questo porterà, negli anni ’70, ad una reazione
fortemente formalistica, che renderà vita dura all’avanguardia
americana. Come eccezione è da sottolineare Goff,
eroe della controcultura americana per il suo rifiuto dei valori
aziendali.
Se
Mies van der Rohe dominò gli anni ’50 in America, Le
Corbusier dominò i primi anni ’60. Il suo
unico capolavoro americano, il Carpenter Center di Harvard, non fu
apprezzato molto, ma il suolo americano si disseminò di
rivisitazioni de La Tourette, con esaltazioni di pilastri,
brise-soleil e forti aggetti, il tutto con una vena di gigantismo.
Il
grattacielo rimase uno dei tipi centrali dell’architettura
americana, e le altezze crebbero a dismisura, creando un’estetica
fatta di un onesto mix di travature reticolari e megapilastri,
necessari per questi estremi. La formula estetica di Mies non era più
adatta (singole finestre, parapetti e travi a I); ora un edificio
“modello” era diventata la John Hancock Tower
di Graham, rastremata e
bilanciata da controventature a X.
Altro
architetto degno di nota fu Rudolph,
sostenitore di una monumentalità in cemento grezzo. Era una reazione
alla sottigliezza dell’International Style, e il suo Art
and Architecture Building era di una
monumentalità grezza e vagamente primitiva, con un volume massiccio
ed esageratamente irregolare, per un espressionismo interessante, ma
privo di reale contenuto sociale.
A
distinguersi da questo sfondo di meccanicismo o formalismo era Kahn,
sentinella di saggezza e morale antica. Oltre ad essere il più
grande talento del dopoguerra americano, fu grande insegnante (a
Philadelphia) e trasmettitore delle sue idee.
Tra
i suoi allievi di maggior talento Venturi,
col suo Complessità e contraddizioni
nell’architettura,
che era un Verso
una architettura tutto personale. Venturi
credeva, in opposizione al miesiano Less is
more, in un Less is
bore, non come un aumento dei dettagli
ornamentali, ma da un arricchimento di forma e significato, da una
correlazione e/e piuttosto che da quella “ortodossa” o/o. I suoi
sforzi architettonici erano caratterizzati da un atteggiamento
populista, di “arte dal basso” (esaltava il manifesto
pubblicitario stradale), alla ricerca di un vernacolo tipico
americano. Nella Guild House
Venturi applicò i suoi ideali di complessità su ampia scala, un
complesso per anziani con aree comuni e oltre 90 appartamenti, con
un’antenna televisiva d’oro in bella mostra, simbolo del tanto
tempo passato davanti alla tv dagli anziani (…). Utilizzò banali
componenti edilizie standardizzate di basso costo, sempre nella sua
ottica pop di utilizzare vecchi cliché in nuovi contesti.
Altro
architetto ad opporsi all’architettura moderna stereotipata fu
Moore, in California. Nato
regionalista e intriso di Pop Art, sfruttava nelle sue opere miscugli
di riferimenti diversi (citazioni coloniali, regionaliste, di epoche
passate, cliché, ecc…), con effetti spesso volutamente ironici.
Era un eclettismo esagerato, privo di ordine e di tensione.
Venturi
e Moore, due iconoclasti “eretici”, ci hanno dimostrato, però,
la perdita di terreno dei principi dell’architettura moderna negli
anni ’60.
Dall’altra
parte c’era anche chi, come i New York Five,
cercava invece di recuperare i mitici principi del moderno tramite le
bianche forme degli anni ’20, anche in reazione alle dure masse
“brutaliste”. Era loro intenzione far rivivere quella che
definivano “l’età dell’oro” negli anni ’60, ma
difficilmente andarono oltre dimostrazioni di eleganza. Negli esempi
più riusciti riuscirono a proporre un gioco intellettuale in cui si
poteva assistere alla rottura di alcune regole “classiche” degli
anni ’20, o a leziosi accostamenti eruditi, il tutto per un
pubblico molto ricercato.
Negli
anni ’70 spesso i “bianchi” (N.Y. Five) vennero contrapposti ai
“grigi” (Venturi e Moore), ma, in realtà, avevano molto in
comune, ed entrambi attribuirono grande valore alla manipolazione
formale complessa di schermi e piani, coinvolti nell’uso di
citazioni e di revival, entrambi reazione alla progettazione moderna
ormai priva delle sue basi, entrambi accademici ed
iperintellettualizzati, isolati dalla società americana.
In
termini generali, il percorso tra il ’55 e il ’75 in Europa
Occidentale e USA partì da un esteso consenso e si attestò su un
grande scetticismo, che vide diversi attacchi alla “mitologia”
moderna. Le certezze lasciarono posto a “fedi spezzate”, dove
nessuna idea forte scosse la società, e gli architetti fluttuavano
insicuri ed estraniati. Alla fine degli anni ’70 i tentativi di
revival di stili precedenti vennero definiti “rivoluzionari”…
CAPITOLO 31
Modernità, tradizione e identità nei paesi in via di sviluppo
L’architettura
moderna nacque nei paesi occidentali industrializzati basati sul
progresso, dove si cercò di creare uno stile appropriato e
autenticamente moderno. I risultati furono imitati spesso altrove,
anche se non si presentavano le stesse condizioni di partenza,
infatti, nei paesi meno sviluppati, le forme moderne ebbero
ripercussioni interessanti solo negli anni ’40 e ’50. La
diffusione di questa versione svalutata del moderno si realizzò o
attraverso un rapido sviluppo, o grazie all’intervento coloniale, o
per imitazione da parte delle avanguardie post-coloniali intenzionate
a portare i simboli del progresso in nazioni “arretrate”. Nei
paesi che si liberarono dalla colonizzazione il moderno entrò o come
mezzo di trasformazione sociale (India), o come risultato degli
investimenti internazionali sul territorio, nel contesto di una
neo-colonizzazione economica. Altre volte il moderno era un pretesto
per attirare capitali stranieri. Tutto ciò provocò una grave
collisione tra vecchio e nuovo, tra moderno e tradizione, causata
anche dal fatto che questi paesi avevano compiuto in una generazione
oltre 100 anni di sviluppo, utilizzando mezzi non propri e non
facendo in tempo ad assorbirne le implicazioni. L’antico veniva
visto come simbolo di arretratezza, lo stile coloniale rimandava alla
dominazione, e allora ci si rifugiava nel “confortevole” moderno,
totalmente estraneo al contesto, poco funzionale ma simbolo della
“libertà consumistica” occidentale. Fu così che molti paesi
liberatisi a fatica dalle colonie si fecero volentieri colonizzare
rapidissimamente da un sistema architettonico occidentale moderno
solo esteriormente. Sorsero città sullo stile di Londra e Manhattan,
vittime di questo surrogato di moderno e dei suoi cliché, domini
dell’imperialismo economico occidentale (ma c’erano esempi simili
anche in zona sovietica).
Una
via d’uscita poteva essere il tentativo di coniugare elementi
indigeni ed importati, ma il rischio di “falso regionalismo” era
grande. Una giusta soluzione era il Regionalismo Moderno, che portava
alla luce gli insegnamenti fondamentali della tradizione locale per
unirli ad un linguaggio moderno, ma ciò necessitava di talenti veri.
Nella
transazione dell’architettura dai paesi industrializzati a quelli
meno venne a variare anche il metodo di progettazione e
realizzazione: l’architettura moderna presupponeva una divisione
del lavoro tra architetti, costruttori, ingegneri ed operai, ma in
molti paesi “sottosviluppati” le fasi venivano ridotte, e magari
si importavano materiali estranei al luogo per farli lavorare da una
manodopera locale adatta ad altri materiali e abituata a metodi di
costruzione totalmente differenti.
Spesso
i modelli “a basso costo” occidentali risultavano essere più
costosi in altri contesti, oltre che meno funzionali, rispetto alle
abitazioni tradizionali, come osservò in Egitto
l’architetto filosofo Fathy.
Suggerì di utilizzare metodi, materiali e manodopera locale. Fathy
criticò l’industrializzazione e l’architettura moderna,
rifiutando i miti del progresso imposti dall’occidente. Era
convinto che un contadino fosse in grado di costruirsi una risposta
ai propri bisogni molto meglio di quanto potesse fare un architetto.
Il suo romanticismo contadino crollava, però, davanti alla necessità
delle città in crescita di nuove abitazioni in tempi brevi, a basso
costo e di minimo ingombro.
In
altri contesti, come l’India
e il Brasile,
l’industrializzazione aveva stravolto sia le tradizioni sia il
mondo rurale, causando una migrazione incontrollata verso le città.
Si vennero a creare megalopoli dalle periferie fatiscenti, in cui né
il moderno, né il romanticismo rurale di Fathy potevano nulla. In
questo contesto di baracche di lamiere e rifiuti (bidonville)
qualsiasi architettura era un lusso.
Alla
fine degli anni ’60 le concezioni di pianificazione globale erano
ormai sotto accusa. In Perù,
nel ’68, le Barriada erano
una rievocazione razionale dei modelli emersi proprio nelle
bidonville; in Nuova Guinea
si incoraggiarono gli immigrati dalle campagne a riproporre i propri
modelli vernacolare, più adatti al clima, e sia arrivò addirittura
a teorizzare la nascita di un moderno regionalismo neoguineano.
In
questo periodo molti architetti cercarono parallelismi tra il moderno
primitivista e arcaico e principi indigeni, come avvenne in India.
Qui il moderno era un’adeguata risposta post-coloniale che
travalicasse differenze di credo o di casta, e Kahn e Le Corbusier
avevano dato un forte stimolo in questo senso. Il Gandhi
Ashram Memorial di Correa
(’63) si sviluppava tra spazi aperti, chiusi e semi-coperti, un
labirinto di ombre e spazi. Il tutto era tenuto su da una griglia di
pilastri, culminante in tetti piramidali a tegole. La struttura
evocava la semplicità e la verità di Gandhi, riprendeva la Casa
Sarabhai di Le Corbusier e una concezione spaziale tipicamente
indiana, fatta di pilastri, terrazze, flussi d’aria e spazi per la
comunicazione sociale. Gli architetti indiani volevano fornire alla
società indiana, sottoposta al drastico passaggio dalla vita rurale
a quella urbana, un equivalente moderno ai linguaggi architettonici
tradizionali. La meccanizzazione era debole, l’acciaio scarso e
l’aria condizionata un lusso: perché, allora, non usare mezzi di
climatizzazione naturali, manodopera e materiali locali a basso
costo? Balkrishna Doshi,
allievo di Le Corbusier, tradusse splendidamente la tradizione in un
linguaggio moderno, creando variazioni in dipendenza di clima e uso,
richiamando la maglia compatta e densa della città tradizionale
indiana.
Negli
anni ’70 l’architettura indiana assunse definitivamente un
carattere proprio, complesso, policromo, polimaterico, stratificato,
integrato con ambiente e tradizione, accurato dal punto di vista
della circolazione dell’aria e dell’illuminazione naturale, il
tutto in contrapposizione con la monotonia poco funzionale del
moderno importato.
L’architetto
del terzo mondo non disponeva di tecnologia avanzata, ma la grande
disponibilità di manodopera e materiali a basso costo permetteva
soluzioni impensabili in occidente. Le Sale
Espositive per il commercio a Nuova Delhi di Raj
Rewal erano versioni in cemento armato a basso
contenuto tecnologico di strutture in acciaio high
tech, rese possibili da un largo uso di
manodopera.
In
America centro-meridionale
l’architetto uruguaiano Dieste
era un altro sostenitore dell’architettura derivata da materiali,
tecniche e possibilità locali, con forme plastiche e genuine.
L’architettura messicana si caricò di un vernacolo fatto di
policromaticità, sobrietà e rilassamento; Logorreta
individuò nel “muro” forte e policromo l’elemento ricorrente,
tipico, della cultura messicana.
In
Turchia l’architetto Eldem
cercò uno stie moderno propriamente turco, fondendo
standardizzazione in cemento ed elementi propri dell’uso locale,
come aggetti e strutture lignee, come fece in Iraq l’architetto
Chadirji.
In
altri paesi, invece, l’industrializzazione era molto meno presente,
e il vernacolo locale molto più forte, favorito dalla natura
prevalentemente rurale di questi stati. Il Centro Medico di Ravereau,
in Mali, era la
trasformazione di forme tipiche locali, e fondeva le proprietà
tecniche occidentali con l’abilità artigianale locale. Bawa
in Sri Lanka si adattò alle
caratteristiche tropicali dell’isola, sintetizzando influenze
orientali ed occidentali.
Nel
1949, dopo la Rivoluzione, la Cina
intraprese un processo di autodefinizione culturale tra l’influenza
sovietica, il proprio percorso di industrializzazione e la gloriosa
tradizione. Le influenze del classicismo sovietico si mischiarono
spesso ad un nazionalismo crescente, o a rievocazioni tradizionali, e
la crescente influenza del Partito Comunista cinese diede sempre
maggiore importanza alla funzione sociale rispetto alla qualità
formale.
Spesso
il tentativo di fondere monumentalità e tradizione è sfociato nel
kitsch, come per i concorsi per la Regia Biblioteca a Tehran e
l’Aeroporto di Dharan in Arabia Saudita, in cui gli architetti
occidentali hanno dimostrato grandi difficoltà a cogliere lo spirito
dei clienti. Altre volte sono stati i clienti a richiedere
all’architetto occidentale un’opera che rispecchiasse le ultime
novità occidentali. In entrambi i casi il “locale” è stato
trascurato, e i sostenitori dell’identità locale attaccati come
nemici del “progresso”.
Uno
degli elementi della crisi che investì l’architettura dei paesi
meno sviluppati fu appunto la mancanza di un linguaggio adatto sia a
incarichi moderni che a incarichi tradizionali.
Nel
’73, con la crisi petroliera, i paesi esportatori di petrolio
incrementarono le loro entrate, “acquistando” tecnologie e
conoscenze dall’occidente. Ne conseguì un boom costruttivo,
parallelo alla stasi della produzione occidentale, ma non fu del
tutto positivo: i “nuovi ricchi” non badavano alle raffinatezze
della produzione occidentale, e gli architetti occidentali, tesi al
guadagno economico, ignoravano costumi e tradizioni locali. Tutto era
“importato”, e anche quando vennero fatti tentativi di
espressione “locale” questi erano soltanto manierismi di
facciata.
Intanto
in tutto il mondo musulmano prendeva piede un “revival
Islamico”, in contrasto al freddo materialismo
modernizzante occidentale. Cercarono di eliminare i tratti
occidentali dalla loro architettura, il tutto intriso di un forte
dogmatismo religioso.
Lo
sguardo rivolto al passato non portava necessariamente al regresso
architettonico, come ci ha dimostrato Utzon
nell’edificio per l’Assemblea
Nazionale del Kuwait (’72).
Raro esempio di espressione monumentale, era un’ottima sintesi tra
riferimenti locali, generici tipi tradizionali e senso moderno dello
spazio.
L’ossessione
della rappresentazione culturale, centrale negli anni ’70, correva
il rischio di ignorare qualità e autenticità architettonica, e
quest’accettazione indiscriminata di iconografie tradizionali portò
spesso al kitsch. Un moderno superficiale e un banale tradizionalismo
erano in realtà da fuggire allo stesso modo.
CAPITOLO 32
Pluralismo negli anni settanta
Negli
anni ’70 si sviluppò il fenomeno chiamato “postmoderno”,
basato su un evidente riuso del passato. Fu un’epoca di pluralismo,
dove si affiancarono decine di correnti di pensiero e di cosiddette
scuole, di cui molte rimasero soltanto sul piano teorico. Si creò
una vera “lotta” per la supremazia, in cui ogni corrente voleva
affermare le superiorità delle proprie idee sulle altre, facendo
affidamento anche sui mezzi della stampa e delle università. La
convinzione comune era che “l’architettura moderna era morta”,
e che una nuova generazione “postmoderna” stesse nascendo. In
realtà la continuità col Movimento Moderno era ben maggiore di
quanto loro volessero lasciar intendere. Gli oppositori si
appropriarono della denominazione di “moderni”, ma ciascuna delle
due fazioni era in realtà una interpretazione semplicistica e
monolitica dell’architettura moderna. Entrambi si preoccupavano
troppo degli aspetti stilistici, quando in realtà la continuità
andava cercata sul piano delle idee generatrici e dei principi
generali.
La
violenta reazione contro tutto ciò che veniva denominato “moderno”
assunse varie forme, ma il bersaglio preferito fu l’urban
revival altamente distruttivo caratteristico
degli anni ’60. Si rimproverava di ignorare i bisogni umani, di non
integrarsi con il contesto, di mancare di identità, di essere
strumento dell’oppressione di classe. Il relativismo della
controcultura dei tardi anni ’60 criticava il determinismo
sociologico caro all’ala funzionalista del Movimento Moderno, e il
filone revisionista della storia dell’arte insidiava la legenda
dell’inevitabilità dello sviluppo moderno. La morte dei maestri
del moderno sicuramente non migliorò la situazione, e col calo dl
fervore progressista il Movimento Moderno entrò in un vero stato di
crisi (identificata dagli oppositori nella crisi della società dei
consumi).
In
risposta in molti casi si tornò indietro, convinti che fosse l’unica
via di uscita, riesaminando forme anteriori. Persino i “postmoderni”
fecero uso di frammentazione, collage e planarità, come nella
migliore tradizione anni ’20. Come spesso accade, gli storici del
tempo si dimostrarono troppo intrisi degli interessi della corrente
per essere obiettivi: in realtà non erano innovazioni
rivoluzionarie, e i debiti col passato sono ora evidenti.
Nessuna
etichetta stilistica può raggruppare la grande varietà di edifici
nati negli anni ’70, che andarono dall’ high tech all’arcaico.
Architetti come Utzon, Kahn,
Scarpa e Lasdun
produssero opere al di là di ogni moda, ma non per questo
“anacronistiche”, mentre Johnson
si trasformò di volta in volta per stare al passo con le tendenze, e
ciò lo privò della giusta profondità. Stirling
cambiò stile, interessandosi a contesti e preesistenze, Gehry
diede vita al principio dell’assemblaggio cubista, Ando,
in Giappone, combinò riduttivismo e tradizione giapponese, ed
emersero giovani architetti come Graves
e Isozaki.
Gli
anni ’70 mancarono completamente di uniformità, ma si possono
esaminare le diverse tipologie sviluppate.
Sul
tema della residenza si partì
dalla critica alla Unitè, con l’intenzione di dare maggiore
identità e contestualità. Nacque la “progettazione partecipata”,
nel tentativo di migliorare la comunicazione tra architetto e cliente
(Byker Wall di Erskine
del Team X). Il Byker Wall era stato progettato con la continua
intermediazione tra architetto ed utenza, ma, nonostante fosse un
prodotto pregevole sotto tutti gli aspetti, era tutt’altro che una
forma nata solo per mano degli abitanti di Newcastle.
Altro
modo di rispondere alla Unitè era rifugiarsi nel vernacolo, in una
convinzione che l’Unitè fosse architettura elitaria, e così, in
Europa, spioventi e cornicioni diventarono simboli di rispettabilità
politica e di “misura d’uomo”.
Il
Quartiere Gallaratese di
Rossi a Milano era in
contrasto sia col Byker Wall che col vernacolare: la complessità del
Byker sostituite da scarna e ripetitiva semplicità, la sua forma
sinuosa e pittoresca da un’ossessiva linearità, al posto delle
nicchie una monotona galleria che percorreva tutto il piano terra
dell’edificio. Rossi proponeva un’architettura basata su schemi
“base”, antecedenti alla caotica situazione generata
dall’industrializzazione, mescolando questi tipi storici a seconda
dei bisogni, in un linguaggio fatto di geometrie semplici. La sua
opera è stata definita “neorazionalista”, a causa anche delle
similitudini con il razionalismo italiano degli anni ’30.
Siza
ristrutturò, in Portogallo, il Quartiere di Quinta
de Malagueira. Cubi intonacati di bianco, scavati
da terrazze e ombre, che si adeguavano perfettamente ad un paesaggio
ed un clima specifico, tra città e campagna. Erano unità
residenziali basse ad alta densità, vicine al vernacolo portoghese.
Era convinto che l’architettura non inventasse nulla, ma si
rifacesse continuamente a modelli del passato.
Sul
tema degli edifici per uffici,
invece, la norma consisteva nelle scatole di vetro verticali e in
quelle, suburbane, orizzontali, e si cercò, allora, di arricchire
queste scarne formule con giardini, atri e balconi.
La
lussuosa Ford Foundation a
New York, di Roche e
Dinkeloo, oltre ad arricchire
l’edificio come sopra descritto, cercò anche di aprirlo
visualmente verso la strada.
Il
Willis Faber Dumas Building a
Ipswich, di Foster, non era
una critica alla tecnologia, era anzi un’esaltazione del meccanismo
di precisione. La pianta libera era estremizzata, per uno spazio di
lavoro continuo ed articolato dinamicamente, e vetro e finiture in
acciaio cromato contribuivano all’effetto generale. Riprendeva lo
spazio di Mies van der Rohe, le fantasie cristalline degli anni ’20
e i grattacieli minimalisti americani degli anni ’60, ma questa
esaltazione tecnologica aveva perso, ormai, la forza dell’utopia
presente, invece, negli antenati degli anni ’20.
L’edificio
per le Assicurazioni Centraal Beheer
in Olanda, di Hertzberger,
era invece all’opposto, su una posizione di ferma critica alla
tecnocrazia. Anziché celebrare lo spazio di lavoro aperto e
continuo, ne esaltava il territorio privato del singolo lavoratore;
se il primo si sviluppava verso l’interno da un involucro uniforme,
questo era assemblato dall’interno verso l’esterno, sulla base di
piccole unità standardizzate su scala umana. Era fatto di stretti
vicoli tortuosi articolati su vari livelli, in cemento armato grezzo
che lasciava all’individuo la possibilità di personalizzarsi il
luogo di lavoro, arredandolo a piacere.
La
Banca Europea per gli Investimenti
di Lasdun, in Lussemburgo,
era dominante nell’immagine, ma su scala umana nell’organizzazione.
Era un edificio fortemente orizzontale e su livelli sovrapposti
(Wright, Dom-ino), che si contrapponeva decisamente alla banalità
della scatola di vetro.
Anche
la produzione di grattacieli
risultò particolarmente varia.
I
due enormi prismi del World Trade Center
(Torri Gemelle) di Yamasaki
(1969) erano l’estremizzazione del minimalismo dell’oggetto nella
piazza, e rappresentarono il punto finale di un percorso.
Presero
piede nuove concezioni, partendo dalla suddivisione del grattacielo
in parti, e dall’attenzione rivolta al basamento (spesso come atrio
aperto sulla strada) e al coronamento (sede di impianti di
manutenzione e di grande importanza simbolica).
Il
Quartier Generale della Citicorp di
Stubbins era un revival dell’International
Style in versione High Tech, con le sue superfici riflettenti e la
serie ininterrotta di finestre a nastro.
Un’altra
via consisteva nella “decorazione” della scatola, come fece
Johnson nell’American
Telephone and Telegraph. Partendo dalla divisione
tripartita, riconducibile ai grattacieli degli anni ’20 (basamento,
fusto e sommità), enfatizzò l’ingresso con un arco, l’atrio con
un colonnato classico gigante e il coronamento con un frontone
spezzato al centro da un buco circolare.
I
musei furono altrettanto
vari.
Il
Centre Pompidou di Parigi,
progettato da Renzo Piano e
Rogers (‘71-‘77), era un
centro culturale a funzione mista, e l’intenzione fu di creare
un’istituzione popolare, più che un palazzo di cultura. Un
imponente e funzionale hangar sostenuto da un telaio megastrutturale
in tubi d’acciaio, con prospetti interamente vetrati e spazi
interni flessibili. Un lungo tubo di vetro conteneva una scala mobile
esterna, fungendo contemporaneamente da decorazione, da simbolo di
apertura sociale e da richiamo agli archigram.
Il
contrasto del Pompidou col Kimbell Art Museum
di Kahn, con la sua gravitas
e la sua moderazione, era massimo.
Nel
Musèe de la Prèhistoire di
Simounet si esaltava la
fluidità spaziale, invece della macchina.
Il
Museo Prefetturale di Arte Moderna
di Isozaki utilizzò un
linguaggio di semplici geometrie e di alta qualità di dettagli, tra
astrazione e riferimenti.
Verso
la fine degli anni ’70 l’architettura moderna fu accusata della
mancanza di un “immaginario riconoscibile”, richiamando gli
architetti dal piano della ricerca formale a quello delle immagini
facilmente leggibili.
Il
cosiddetto “postmoderno”,
invece, diceva di combinare funzionalismo, forme semplici e verità
strutturale, ma era difficile capire cosa in realtà proponessero di
nuovo. L’architettura divenne sempre più un “sistema di segni”
facilmente leggibili, e ciò rivalutò enormemente l’eclettismo.
Come
il “New Brutalism”, il “postmoderno” era un vago cumulo di
aspirazioni e rifiuti, più che un programma e uno stile ben
definito. Lo stato d’animo postmoderno (di più non era) fu uno
delle tante tendenze revisioniste degli anni ’70, tutte a favore di
un arricchimento estetico e simbolico, ma non venne fatta differenza
tra una banale semplicità ed una più intensa purificazione formale.
Tutto il moderno era rifiutato, senza distinzioni. Un intero filone
letterario lottò per la destabilizzazione delle idee del Movimento
Moderno, attaccandone il funzionalismo (anche se non lo era), il
contrasto con la storia (nonostante il forte attaccamento alla
tradizione), l’utopismo (ma non era solo dell’anteguerra?).
L’eclettismo
di Moore divenne un modello
postmoderno, e la sua Piazza d’Italia,
una fontana tra curvi schermi colorati composti da colonne classiche,
capitelli, trabeazioni ed archi, era, più che una rivisitazione
classica, un allestimento da Luna Park.
Il
progetto, mai realizzato, di Graves (Ex
N.Y. Five) per il Fargo-Moorhead Cultural
Centre, era ricco di metafore
naturaliste e citazioni storiche, oltre che di simbolismi derivati
dalla sua posizione a cavallo di un fiume tra due stati.
Questo
nuovo tradizionalismo era privo di una vera ricerca di rigore, e ciò
portò, nella maggior parte dei casi, ad eclettismi un po’ kitsch.
Il tema dell’immaginario era l’unico a cui si desse particolare
attenzione, e venivano derisi attenzione sociale e necessità
strutturale. Queste nuove tendenze erano ormai il simbolo del
consumismo, e non a caso trovarono il terreno più fertile negli
Stati Uniti.
Nonostante
tutti i loro propositi, questo nuovo eclettismo non fu, agli occhi
del pubblico, più facilmente comprensibile del moderno, anzi, il
gran numero di citazioni richiedeva un gioco intellettuale di alto
livello. Altro problema di questo “eclettismo radicale” fu la
difficile, e spesso sottovalutata, fattibilità costruttiva e
strutturale.
Ma
il postmoderno non fu solo americano: nel 1980 la Biennale di Venezia
propose la Strada Novissima, carica di riferimenti classici; sempre
nel 1980 si “giocò” riproponendo il concorso per il Chicago
Tribune del ’22, un’occasione di esercizio di revival.
Tra
le varie nuove tendenze era forte l’uso dell’assemblaggio, del
collage, della frammentazione (Gehry, Hollein).
Anche
la Neue Staatsgalerie di
Stirling (77-84) a Stoccarda
si affidava alla frammentazione, riprendendo schemi neoclassici e
allusioni storiche. Fondeva high tech e classicismo, monumentalità e
democrazia, moderno e antico, ricco di ornamenti colorati. Stirling
prendeva ispirazione dalle piazze romane e dal presunto carattere
“collagistico” della Villa di Adriano. Rifletteva i temi in voga
nel periodo: contesto, classicismo, collage, policromia, ornamento,
riferimenti postmoderni, ma in realtà era basata su una disciplina
progettuale moderna, “manieristica” nei confronti dei grandi del
moderno.
Per
quanto riguarda la città, il
postmoderno era interessato ai modelli preindustriali, antidoti per
gli effetti dello sviluppo economico, ed era animato da un grande
rispetto per il contesto esistente. L’architettura moderna fu
colpevolizzata del fenomeno mondiale di distruzione dei centri
storici per costruire grattacieli e strade, e si reagì con la
tendenza alla “conservazione globale” di tutto ciò sia vecchio.
Altra conseguenza fu l’ossessione per le “vedute d’insieme”
delle strade, che distolse troppo, però, l’attenzione dai singoli
edifici. Venivano ora esaltate le “strade corridoio” tanto temute
da Le Corbusier.
Collage
City, saggio di Rowe
e Koetter, si basava sul
collage, in contrasto al determinismo moderno, ed enfatizzava gli
spazi più che gli “edifici-oggetto”. Aveva una vena ironica nei
confronti delle utopie del moderno, ma in realtà rispecchiava un
sentimento diffuso che tendeva a storcere il naso di fonte a
qualsiasi dimostrazione di positività ed entusiasmo. Il collage era
una tecnica per “usare le cose e non prestare loro fede”, senza
correre il rischio, così, di aderire a qualsiasi utopismo di
qualsiasi epoca.
Il
sentimento generale era di essere alla fine di un ciclo, ma nulla
aveva ancora preso il posto del moderno. Alcuni pensavano che
rimanesse ormai solo il manierismo, ma in realtà le manifestazioni
di buona architettura, tutte evoluzioni del solito moderno, c’erano,
come ad esempio la Tomba
Brion di Scarpa.
Ospitava diverse tombe familiari, carica di atmosfere antiche, e più
che un edificio era un paesaggio. Le “rovine” nell’acqua
accentuavano il senso di erosione del tempo, e la Cappella Funeraria,
in un malinconico stagno circondato da cipressi, sembrava una moderna
isola dei morti, in piena sintonia col paesaggio veneto, fatto di
canali, isole e lagune. Il visitatore veniva coinvolto in un percorso
rituale. La frammentazione è sfruttata per esplorare le questioni
della fede e dell’immortalità, in un’atmosfera generale di
sospensione e di riflessione.
Altro
esempio di grande architettura è la Chiesa di
Bagsvaerd di Utzon,
composta di tre spazi principali: atrio, sala comunitaria centrale e
giardino di servizio con uffici. All’esterno l’edificio era
regolare e geometrico, ma all’interno il soffitto era formato da
bianche superfici curve in cemento, come onde, che modulavano
splendidamente la luce. Gli effetti di luce e i materiali disadorni
rendevano perfettamente l’idea di una “casa d’incontro”
religiosa, e allo stesso tempo richiamava una casa, una fattoria, una
sala, una chiesa. La forma nasceva direttamente da un mezzo
strutturale adeguato alle idee.
CAPITOLO 33
Architettura moderna e memoria: nuove percezioni del passato
Non
bisognerebbe mai scrivere la storia del passato recente, per il
rischio di essere parziali, mentre non è così per il passato, visto
che si ritiene che la vera forma della storia emerga, prima o poi, da
sola.
Ormai
non si può più parlare di un ristretto numero di centri cosmopoliti
occidentali da cui partono le idee guida per tutto il mondo, ma, già
dagli anni ’40, paesi come Finlandia, Giappone e Brasile seppero
farsi valere negli equilibri internazionali. Negli ultimi anni paesi
come Spagna, Portogallo, Messico ed India hanno trovato un proprio
carattere.
L’architettura
degli ultimi 20 anni non può essere ascritta d un’unica ideologia,
né descritta attraverso temi riduttivi come “high tech”,
“regionalismo”, “neorazionalismo”, “classicismo”,
“contestualismo” o “minimalismo”. Come sempre le opere chiave
si rifiutano di rispettare qualsiasi movimento.
Il
postmoderno si è dimostrato fenomeno effimero e relativamente
localizzato, e l’immagine caricaturale che ha dato
dell’architettura moderna ha distorto la prospettiva storica. La
breve moda del revivalismo ha soltanto cambiato gli abiti formali
all’architettura, ma il moderno ha invece alterato la vera e
propria anatomia spaziale della progettazione. Gli anni ’80,
nonostante le convinzioni di neoavanguardisti e tradizionalisti, sono
passati lungo processi di evoluzione e rivalutazione, più che di
rottura e rivoluzione. Non è imitazione, ma adattamento di principi
base precedenti a nuove intenzioni.
La
megalopoli diventò il modello urbano predominante, la
globalizzazione indebolì ulteriormente le tradizioni locali, la
gestione elettronica delle informazioni cambiò tipologie e
necessità.
Come
reazione alla città dell’informazione in molti cercarono identità
regionale, integrità strutturale, legami con tradizioni e valori
locali, fini morali, poeticità.
Le
certezze si dissolvevano: i determinismi di inizio secolo erano
scomparsi da tempo, l’idealismo utopico era stato screditato e
tutte le ideologie basate sul progresso erano morte.
L’architetto
fu sempre più in posizione marginale nella definizione dell’ambiente
urbano, e l’interesse per il collage e il frammentato superavano
quello per il contesto urbano.
Si
era rafforzato un ossessivo interesse per il passato, sia tra i
neomoderni, sia tra i postmoderni, sia tra i tradizionalisti,
rispecchiando un crescente bisogno di identità e base storica. Ci si
poteva rapportare al mondo classico in vari modi: citazioni integre,
utilizzo degli schemi di ordine, stili stravaganti e manieristi. I
classicisti postmoderni (Graves) appartenevano a quest’ultima
categoria, senza un ordine o una disciplina sottostante, e la loro
superficialità ebbe modo di rivelarsi, negli anni ’80, anche in
grandi commissioni. Grandi prefabbricati con inconsuete colonne, che
non riuscirono mai a trasmettere valori più profondi
dell’architettura classica.
Nei
primi anni ’80 ci fu un boom, in USA,
nella costruzione di edifici per uffici, e la formula tripartita
divenne la moda del periodo. Apparivano serie di archi, colonne,
sommità gradinate e coronamenti decorativi, ed erano altrettanto
banali dei prismi standardizzati di vetro che cercavano di abbellire.
Questa decorazione storica, tanto amata nell’America di Reagan,
forniva un veloce stile d’alta classe e conservatore, ma in realtà
privo di contenuti e di coordinazione (archi e pilastri che non
sostengono nulla). Negli anni ’80 alcuni tentativi di riferirsi al
mondo classico più direttamente si intersecarono con programmi
culturali e politici, spesso dal tono reazionario. In Inghilterra
l’ondata neoclassica corrispondeva ad un crescente conservatorismo
politico, con la nuova destra alla ricerca di un mezzo che
sostituisse il moderno del “welfare state”. Figure come quella di
Terry vennero portate sotto i
riflettori, nonostante il suo classicismo monotono, incaricati di
rivalutare la “gloria nazionale” avvilita dalle intrusioni di un
internazionalismo “socialista”. Terry si considerava “classico”,
e prese le distanze anche dal postmoderno, che considerava peggio del
moderno, in quanto “opera di Satana” perché fatto addirittura
con ironia. Era un’arte accademica che si rifiutava di affrontare
i problemi del presente (come diceva Scott nel lontano 1914…).
In
Italia e Germania
nel dopoguerra e in Spagna
dopo la caduta di Franco un riferimento diretto a opere classiche
sarebbe stato impensabile, ma il substrato classico entrò comunque
in contatto col moderno. I neorazionalisti italiani, come Rossi
e Grassi, si basavano su una
vena di valori classici; Rossi ridusse il classico a elementari
figure geometriche, su piante simmetriche dal gusto classico; Grassi
riconfigurò il classico in un linguaggio di rigide forme
rettangolari (portici della Casa dello Studente di Chieti). Il
neorazionalismo evitava sia
il vuoto del funzionalismo, sia la superficialità del
tradizionalismo, evocando la storia con un’architettura moderna
fortemente astratta. Purtroppo anche il neorazionalismo si ridusse,
in Europa, ad una serie di cliché da imitare pedissequamente.
Evoluzioni
regionali nel neorazionalismo si diffusero in tutta Europa, sotto la
spinta di quello italiano, meritevole di aver dato forma ad
aspirazioni comuni. Un gruppo di architetti svizzeri del Canton
Ticino, Snozzi, Galletti,
Vacchini e Botta,
elaborò un linguaggio strutturale e geometrico, ma intriso della
poeticità del luogo. Botta
sviluppò uno stile proprio, fatto di una grande attenzione al
paesaggio circostante, e alla natura, legato alla sua terra. La Casa
Rotonda era una casa unifamiliare in calcestruzzo (ricoperta di
mattoni), un solido monumento cilindrico tagliato in due da una
fenditura attraverso la quale penetrava la luce. Il lucernario
triangolare ricordava un frontone o la forma di un tetto a spiovente,
e le finestre erano fatte in modo da catturare la luce diversamente a
seconda del periodo dell’anno, come a ricordare il ciclo delle
stagioni e la presenza della natura. Le viste erano ritagliate
unicamente nel paesaggio incontaminato, e la casa rievoca un
osservatorio o una torre di ritiro spirituale. Botta voleva creare
un’architettura in sintonia col proprio tempo e con la natura, e
respingeva la superficialità del postmoderno.
Il
Canton Ticino si sviluppò rapidamente in questo periodo,
abbandonando la vita rurale per una struttura urbana moderna, ma
sempre inserita in un contesto naturale e tradizionale. Galletti
cercò di creare dei “monumenti” che facessero da punti fissi, da
confini dello sviluppo economico e da “promemoria” della
tipologia del paesaggio svizzero. Fuse vecchio e nuovo, natura e
urbanistica, creando elementi stabilizzatori nella emergente e
disordinata massa extraurbana.
Vacchini
desiderò urbanizzare le disordinate aree periferiche, conferendo
loro un contenuto civico. Introdusse l’idea dell’ossatura in
acciaio e calcestruzzo nella tradizione elvetica, tra il moderno di
Terragni e gli aspetti locali. La sua Scuola di
Montagnola sembrava un foro romano all’aperto,
con mura di cinta e cortile interno, chiuso su tre lati e aperto sul
panorama montano. Includeva le tre cose che un edificio può
rappresentare: un limite creato nel paesaggio, una porta verso un
mondo diverso, un posto in cui sentirsi a proprio agio.
L’architettura
ticinese si differenziava dallo scadente classicismo postmoderno,
grazie alla sua ricerca del ritmo, alla coerenza fra parti e tutto,
all’attenzione ai materiali, all’artigianalità locale,
all’attenzione per il contesto.
Negli
anni ’80 si ravvivò l’interesse per l’antichità classica, e
in particolare per la “rovina”. L’italiano Venezia
si interessò a tutto ciò, distinguendo rovine “reali e
metaforiche”. La rovina ci lascia intendere l’idea strutturale
antica, il processo costruttivo, e Venezia fu particolarmente
ispirato dal territorio siciliano. Il Museo a
Gibellina, di una geometricità astratta, si basava su una forte
struttura a telaio, che faceva grande affidamento su luci e ombre. Il
Piccolo Teatro all’aperto
di Salemi era una stanza all’aperto, su un terreno brullo,
delimitata da muri, come un pozzo rettangolare all’aria aperta. I
materiali grezzi e locali e i pezzi di colonne spezzate accentuarono
ancora di più l’immagine del teatro greco.
Il
Museo Nazionale di Arte Romana
progettato da Moneo in Spagna
univa rovine reali e metaforiche. Posto lungo due antiche strade
romane, era di fronte ad un teatro e ad un anfiteatro, circondato
tutt’intorno dalle rovine della vecchia cittadina. L’edificio si
componeva di una serie di muri ricoperti di mattoni romani, in cui si
intagliavano archi sormontati da lucernari industriali e tetti a
tegole. Il risultato era un incrocio tra una fabbrica di inizio
secolo ed una struttura classica, basato fortemente sulle analogie
con l’ingegneria romana, presente tutt’intorno. Era puro
eclettismo, ma non banale: si adattava perfettamente all’ambiente
circostante, e non solo, arricchito da riferimenti al mondo islamico
della moschea di Cordoba e alla tradizionale architettura spagnola.
Altro
esempio di perfetta armonia tra vecchio e nuovo in Spagna è il
Velodromo di Barcellona, di
Bonell e Rius.
Posto su un pendio, era semplice e rigoroso, con una struttura onesta
e strettamente legata alla forma, con materiali gestiti
razionalmente. Questa funzionalità era correlata ad accorgimenti di
proporzione e geometrie che lo associavano ad anfiteatri e arene per
corride,. Lo definirono classico nella forma e nella posizione,
moderno nel razionalismo, nella semplicità e nella coerenza tra
struttura, forma e materiali.
Il
Palazzo dei Congressi e delle Esposizioni
a Salamanca di Baldeweg
esprimeva il dilemma della monumentalità moderna in un contesto
democratico post-franchista. L’iconografia dell’edificio più che
sostenere l’autorità la rovesciava, così come la sua cupola non
era tradizionale ma sospesa e aperta, fonte dell’illuminazione. Era
un palazzo moderno nello spazio, nella struttura e nella posizione
sociale, ma era anche monumentale.
Negli
anni ’80 si ebbero molteplici dimostrazioni inerenti alla
trasformazione del passato, e alcune delle migliori furono eclettiche
nel migliore senso della parola, sintetizzando principi e tipologie
da diversi periodi, senza tralasciare l’eredità moderna. “Nulla
di vecchio è mai rinato, ma neppure scompare mai completamente. E
tutto ciò che è sempre stato emerge in una forma nuova” diceva
Alvar Aalto.
CAPITOLO 34
Universale
e locale: paesaggio, clima e cultura
L’architettura
moderna è sempre stata legata alle culture locali, coinvolta, in
alcuni casi, addirittura in progetti di identità nazionale. La
storiografia ha sempre guardato il Movimento Moderno da un punto di
vista “di parte”, chiaramente occidentale, ma, nonostante le
principali tappe del moderno siano avvenute in Europa
e Stati Uniti, non va
sottovalutato l’apporto di Messico,
Giappone, Brasile,
Palestina, Sudafrica,
degni esempi di un moderno adattato a clima e tradizione.
Nel
dopoguerra nell’architettura moderna agli ideali progressisti
furono integrati rapidamente natura e regionalismi, e si affermarono
architetti come Barragàn,
Tange, Niemeyer
ed Eldem, tutti a cavallo tra
influenza internazionale e interpretazione della propria società.
Con
gli anni ’70 le culture locali non occidentali vennero rivalutate,
e fu permesso un uso maggiore del passato. Ciò portò
all’incentivazione, in tutto il mondo meno sviluppato, di un
moderno fuso con le immagini nazionali provenienti dal passato, come
hanno fatto Bawa, Balkrishna
Doshi, Dieste
e de Leòn. Questo sforzo non
era assolutamente ristretto alla sola ricerca di identità, ma era
intrinseca nell’opera di grandi architetti come Wright,
Le Corbusier, Aalto
e Kahn prima, e di Utzon,
Van Eyck e Coderch
dopo. Creazioni come la prairie house di Wright, i complessi urbani
di Aalto e le tarde opere di Le Corbusier e Kahn hanno avuto il
merito di individuare i miti delle diverse società, fondendo locale
e universalità, e per questo divennero eterna fonte di influenza.
Negli
ultimi anni la standardizzazione globale e il crescente pluralismo di
identità (non più corrispondenti ai confini nazionali, come
Catalogna e Ticino) ha creato una situazione più confusa, mentre la
base rurale tipica di molti paesi è stata spazzata via dalla
crescente industrializzazione, con seri danni alle tradizioni
vernacolari.
Il
classicismo riemerso negli anni ’80, spesso legato ai regionalismi,
è sintomo di questa preoccupazione per la distruzione delle radici,
oltre che da una crisi generale del moderno e una voglia di
ricominciare daccapo. Era un “regionalismo
critico” (Frampton) che si discostava dal
postmoderno (solo un’altra faccia della crisi), anche dai
regionalismi nazionalistici anni ’30; si proponeva, invece, di
recuperare e salvaguardare le antiche tradizioni minacciate dalla
globalizzazione, come un romanticismo ottocentesco spogliato, però,
del nazionalismo (Barragàn,
Coderch, Botta,
Siza, Ando).
Negli
anni ’80 sorsero parecchi edifici capaci di rispondere
perfettamente a clima, luogo e memoria, senza ignorare cambiamenti
sociali e tecnologici; alcuni nascevano nel contrasto tra mondo
urbano e rurale nei paesi in via di sviluppo, carichi anche della
questione dell’identità, altri in angoli sperduti del mondo
industrializzato, dove l’architettura indigena era ancora visibile,
ma le culture natie seriamente minacciate.
La
Ramada House di Chafee
(1980), in Arizona, combinava
spazio e struttura moderni con metodi antichi di sopravvivenza nel
deserto, fortemente moderna nell’anima, ma perfettamente integrata
con paesaggio e tradizione (ricoveri nomadi e abitazioni locali).
Erskine,
invece, ricercò forme adatte alle condizioni climatiche dell’estrema
Scandinavia, in un
regionalismo “sub-artico”. Elaborò accorgimenti adatti a
proteggere dalla neve e dalle bufere, a sfruttare la luce, a
consentire la vita sociale in spazi chiusi per i mesi invernali.
Doveva molto al “funzionalismo poetico” di Aalto e ai cicli
naturali.
Fehn,
per le stesse problematiche, sviluppò
un’architettura essenziale e minimalista, fatta di piani, spesso
seminterrata, facendo uso anche di calcestruzzo, legno, vetro e
acciaio. La sua Galleria d’Arte (mai costruita) per Verdens End
(fine del mondo) si inseriva nelle fenditure della costa rocciosa,
affacciato sull’immensità dell’oceano e del cielo. Il suo Museo
Norvegese dei Ghiacci ricordava, appunto, un relitto, o una lastra di
pietra, incastonata nel ghiacciaio.
Quando
il regionalismo si diffuse in Europa, spesso si limitò a imitazione
populista o kitsch vernacolare, ma in alcune regioni si ebbero
sviluppi di buon livello, come per il Canton
Ticino di Botta
e colleghi.
Lo
stesso avvenne in Catalogna,
dove sorse un moderno con accenti mediterranei (Lapena,
Torres, Llinas,
Ferrater), sulla scia di
Gaudì e Coderch.
In
Australia l’architettura
domestica cercò di salvare le tradizioni morenti tramite un
linguaggio nuovo, incastonato nel paesaggio culturale e naturale. La
Palm House di Leplastrier,
inserita in un tratto di foresta pluviale, ricordava un rifugio
primitivo realizzato con materiali industriali. Murcutt
rispose alle esigenze climatiche con esili strutture metalliche,
ricoperte di lamiere, che ricordavano le capanne dei pastori e i
rifugi degli aborigeni. Diede particolare attenzione alla
ventilazione e alla luce naturale, che richiamava spesso il sole tra
le foglie della foresta. Trasse ispirazione dallo studio delle
foglie, che in Australia, anziché seguire il sole, cercavano di
mostrargli meno superficie possibile.
In
Giappone l’architetto Ando
riuscì, utilizzando strumenti moderni, a ripristinare l’unità tra
casa e natura che era presente nell’architettura giapponese prima
dell’industrializzazione. Contrapponeva un minimalismo visivo alla
confusione della megalopoli moderna, per una intimità che riportava
al contatto con la natura, con sé stessi e con la tradizione.
Nei
paesi che uscivano dall’occupazione coloniale, invece, ebbe più
importanza la ricerca di identità e il recupero delle tradizioni
locali. Si predilessero forme simboliche radicate nel passato alle
forme internazionali, e il risultato fu, a volte, una superficiale
storicità (simile al postmoderno occidentale), e, altre volte,
espressioni moderne delle tradizioni locali. Bisognava fondere
vecchio e nuovo, e scavare nella storia alla ricerca di un punto di
riferimento: ogni generazione sceglie il passato dal quale desidera
attingere.
La
ricerca di identità presupponeva un linguaggio comprensibile, e, nel
1980, Bawa, progettando il
Parlamento dello Sri
Lanka, si rapportò al problema di fornire un
simbolo democratico nazionale a uno stato post-coloniale ricco di
caste, religioni e culture. Lo costruì su un’isola raggiunta da
una cerimoniosa strada rialzata, ed evocava un tempio orientale ed
allo stesso tempo un villaggio. Mescolava materiali industriali e
artigianali, e rispondeva perfettamente alle aspettative di una
società alla ricerca di un’immagine di sé stessa.
Purtroppo
questa formula “tradizionale” non andava bene sempre, a causa
della rapida urbanizzazione, e, per il Ministero
degli Affari Esteri dell’Arabia
Saudita l’architetto svedese Larsen
elaborò una fusione tra semplicità moderna, allusioni regionali e
riferimenti islamici, e risolse il ruolo di “porta della nazione”
nei confronti dei diplomatici stranieri in modo che riflettesse i
rigidi valori morali del paese e il ruolo di primo piano dell’Arabia
Saudita tra i paesi islamici. L’imponente struttura ricordava una
fortezza tradizionale, ma includeva ogni lusso tecnologico, con un
soffitto sospeso sulla sala principale. Era un’opera decisamente
eclettica, vicina al neorazionalismo italiano, con alla base la casa
araba, fatta di muri che escludevano il calore e gli sguardi
indiscreti, e di giardini e fontane. L’edificio era la perfetta
espressione di un cauto equilibrio tra occidentalizzazione e
tradizionalismo.
Altre
tipologie di edifici, come i grattacieli,
sono viste come “internazionali”, ma ci sono stati anche dei
tentativi di “regionalizzarli”. La Banca
Nazionale del Commercio,
in Arabia Saudita, di Bunshaft,
fondeva la tipologia internazionale con i principi relativi ai climi
caldi e alle tempeste di sabbia. Era a pianta triangolare, ricolto,
come la prua di una nave, verso il mare. Riprendeva i principi di
ventilazione naturale tradizionali.
In
paesi come India e Messico l’architettura moderna aveva già una
propria tradizione, e fu possibile, quindi, sviluppare temi
precedenti.
Il
moderno del Messico era di
grandi proporzioni, di un’astratta monumentalità, abbastanza
legato al passato.
Logorreta
continuava a esprimere il suo linguaggio di ampi volumi, pareti
colorate e aree cintate, traendo ispirazione da Barragàn.
De
Leòn, commissionando molte opere pubbliche, fu
caratterizzato da un linguaggio chiaramente monumentale e retorico.
Ispirato al tardo Le Corbusier, era molto legato al passato
precolombiano (Maya) della sua terra, che cercava di fondere con la
cultura occidentale. La sua Corte
Suprema, a Città del
Messico, incarnava la monumentalità dell’edificio pubblico
imponente ma aperto e accogliente. Discendente della Corte Suprema di
Chandigarh, aveva la geometria ripetitiva di Rossi. L’edificio
raccoglieva elementi universalizzanti, come portico, piattaforma e
sala ipostila.
Anche
Salmona, in Colombia,
si ispirava a Le Corbusier, ma basandosi sulle costruzioni indigene
in mattoni. La concezione dello spazio era araba, e ciò è spiegato
dal fatto che la prima colonizzazione colombiana fu proprio quella
proveniente dal sud della Spagna.
In
India moderno e antico,
regionale e internazionale si fondevano a perfezione, grazie
soprattutto alla direzione fatta intraprendere loro dalle opere di Le
Corbusier e Kahn, e al nuovo e ravvivato interesse per la propria
cultura del passato.
Correa,
allontanatosi lentamente dall’influenza dei due maestri, elaborò
un linguaggio nuovo, ricco di tradizionali terrazze e piattaforme,
cortili e aria aperta,
balconi e aggetti, ventilazione naturale e riparo dal sole. La
struttura, semplice e in calcestruzzo, era tipicamente moderna. Le
sue piante ricordavano i mandala,
spesso legati alle forme tradizionali indiane. Correa sosteneva che
le forme che generavano l’architettura erano cultura
(immortale e costante), aspirazioni
(variabili e dinamiche), clima
(immutabile e fonte di tutto) e tecnologia
(cambia col tempo, e fa cambiare l’architettura).
In
India anche l’urbanistica generava grande interesse, soprattutto
per risolvere il problema dell’urbanizzazione di massa. Il
complesso residenziale Asian Games Housing
di Rewal era basato
sull’aggregazione di edifici in corti e zone cintate, con portali
tra le diverse aree. Gli elementi erano pochi e standardizzati, ma la
loro collocazione e modifica creava una grande varietà. Tutta
l’architettura di Rewal era fatta di giardini e cortili, portali e
passaggi, terrazzi e livelli diversi, rievocando gli schemi del
passato senza imitarli superficialmente.
Il
problema dell’urbanizzazione selvaggia, però, aveva raggiunto
ormai proporzioni talmente grandi che nessun piano architettonico
avrebbe potuto nulla. Doshi e
Correa cercarono di risolvere
il problema, individuando, nell’abusivismo urbano, un nuovo
vernacolo. La loro
urbanistica riprendeva l’utopismo di Le Corbusier, ma adattandolo
profondamente alla tradizione indiana.
Lo
studio di Doshi, Sangath, era
il manifesto di una nuova architettura indiana, moderna ma radicata
nelle tradizioni e nel clima, riferendosi ad “elementi costanti
dell’architettura indiana: la piazza del villaggio, il bazar e il
cortile”. Il profilo era in piena sintonia col paesaggio (basse
volte parallele) e in rapporto con l’uomo (
modulor), mentre la pianta era quasi labirintica, come nei vecchi
templi indiani.
Questo
interesse degli anni ’80 verso il carattere proprio dei luoghi era
la reazione alla perdita di radici provocata dalla
industrializzazione globalizzata, ma le strategie adottate non erano
nuove: la fusione tra idee architettoniche internazionali e locali
era presente nel mondo già da decenni.
CAPITOLO 35
Tecnologia, astrazione e idee di natura
L’architettura
del tardo XX secolo è stata caratterizzata da pluralismo culturale e
varietà geografica, ma ciò non significa che non ci siano schemi
più ampi e linee di sviluppo comuni.
HIGH
TECH
Una
corrente appartenente al ramo “moderno” è quella high
tech, comprendente Foster,
Rogers e Piano
(gli ultimi due progettisti del Centre Pompidou). Condividevano una
dedizione alla poetica della struttura, e nascevano dall’ingegneria
del XIX secolo.
Il
Lloyds Building
di Rogers era quasi
romantico, nella sua esaltazione della tecnica, mentre le opere
dell’ex socio Piano erano
più funzionaliste e razionaliste (la forma derivava solamente da
struttura e funzione). Foster
era a metà strada: idealizzava la tecnologia a mezzo per fondere
natura e uomo. La sua Hong Kong e Shangai Bank
era in contrasto con la solita tipologia del palazzo alto: anziché
sviluppato attorno ad un cuore centrale, era aperto, con un atrio
verticale in mezzo e tutti i sistemi sugli spigoli o addirittura
esterni all’edificio (+ stabile ai monsoni). Il corpo era sollevato
su sostegni per lasciare libera la strada, e una lente convogliava i
raggi del sole all’interno dell’edificio. La Menil
Collection di Piano
era alta tecnologia senza esibizionismo tecnocratico, e allo stesso
tempo alto artigianato. Una sottile struttura metallica sosteneva
delle “foglie” di ferro-cemento, che filtravano la luce, ispirate
al Kimbell Art Museum di Kahn. La bassa struttura a misura d’uomo,
con balconi e verande, si adattava perfettamente all’ambiente
texano.
Il
movimento High Tech si è confrontato col tema della tecnologia, tra
utopismo e materialità, e, al fianco del postmoderno, conobbe il
successo commerciale, dopo aver concentrando l’attenzione del
pubblico sullo styling anziché sulla struttura e sulla funzionalità
(consumismo).
DECOSTRUTTIVISMO
Con
l’espansione della città diffusa, che aveva ormai ingoiato la
campagna, le tipologie tradizionali passarono in secondo piano, e,
tra l’esaurirsi del postmoderno e del neorazionalismo, si sviluppò
una nuova “moda”, fatta di astrattismo e minimalismo,
frammentazione e dinamicità, espressione della perdita di radici e
della dissoluzione del tardo XX secolo (filosofia della
“decostruzione”).
Figura
seminale fu l’americano Frank Gehry.
La sua opera prendeva molto dall’immediatezza della California e
dai contatti con gli artisti locali, ma andava, in modo del tutto
universale, oltre il moderno, verso una concezione dl mondo fatta di
confusione e sradicatezza. Rispondeva all’inquietante megalopoli
non con il rifugio, né con la tradizione, ma con una frammentazione
confusa, un assemblaggio quasi forzato. I suoi edifici erano ricchi
di tensioni visive, piani non ortogonali, volumi inclinati, materiali
assemblati senza ordine, casualità e geometrie spezzate. La sua
opera, per quanto personale e priva di manifesti programmatici, trovò
un clima di incertezza diffusa pronto ad accoglierla.
Altro
filone sul tema dell’astrazione e della frammentazione fu quello
dei “neo-moderni” Meier e
Eisenman (ex NY five). Lo
stile di Meier si basava su strutture spezzate, rampe intrecciate e
luminosità irregolare, ma si esaurì presto, come dimostra la sua
opera tarda per la Sede di Canal Plus
(’91), semplice e in pieno stile Le Corbusier. Eisenman cercò
prima di rivalutare il moderno sulla East Coast americana (dove era
stato da tempo abbandonato), poi sviluppò un linguaggio fatto di
griglie e geometrie slegate dal territorio e senza un’apparente
giustificazione funzionale, per un vocabolario anti-classico nella
struttura e ricercatamente casuale nei riferimenti (luogo e
tradizione non avevano più significato).
Il
Parc de la Villette di
Parigi, di Tschumi, era
invece l’esempio di un altro ramo neomoderno, basato sulla parodia
delle vecchie forme utopiche, in questo caso il meccanicismo
costruttivista degli anni ’20. Come voleva Mitterand, rifiutava
ogni concezione romantica della natura, per un nuovo paesaggio del
XXI secolo. Il parco era strutturato su linee, assi e confini, con un
astrattismo che arrivava ad evocare, con dei ricorrenti cubi rossi,
gli stand di propaganda sovietica anni ’20. Questi cubi erano come
irridenti giocattoli giganti, arbitrari nella forma, disposti
casualmente per il parco.
Questo
ambiente diffuso, vicino alla filosofia della “decostruzione”,
ironizzava sulle utopie del passato, incapaci di fornire veramente
rapporti profondi tra forma e funzione che promettevano, ma non era
in grado di dar forma a ideali propri: come il collage, essi
“utilizzavano le cose senza prestar loro fede”.
L’olandese
Koolhaas elaborò un
linguaggio fatto di sospensione, illusione, trasparenza e leggerezza,
senza gusto tecnocratico, era anzi dubbioso nei confronti
dell’industrializzazione, ed esprimeva questa sua critica con
sottili ironie evocative.
In
realtà questo “decostruttivismo” aveva confini ben poco chiari:
gli autori più noti erano tutti estremamente diversi fra loro, ed
ognuno spaziava in questi ampi confini per soddisfare i propri
propositi, diversi da quelli degli altri.
L’architettura
moderna in Giappone degli
anni ’80 e ’90 rivelava differenti modalità di reazione alla
rapida trasformazione tecnologica dell’ambiente. Maki
si rifugiò in audaci soluzioni strutturali e alto artigianato locale
di acciaio, vetro, plastica e calcestruzzo, espressione di una
società in equilibrio tra dedizione tecnologica e rispetto per la
tradizione.
Ando
riaffermò il legame con la natura, con edifici quasi minimalisti,
fatti per completare ed esaltare lo sfondo paesaggistico.
Anche
in Francia l’architettura
moderna degli anni ’80 combinò posizioni spesso anche
contrastanti, influenzata, nel complesso, da un rinnovato interesse
per il significato della città, per le opere seminali del moderno e
dalla spinta promotrice nel settore pubblico ed istituzionale del
governo socialista (a differenza dei “privatizzati” Stati Uniti e
Inghilterra). I grand
projet di Mitterand
ridisegnarono la capitale, spesso caratterizzati da geometrie secche,
piani trasparenti, dettagli meccanicisti e forme derivate dal primo
moderno e dal costruttivismo sovietico. La Citè
de la Musique di de
Portzamparc era fortemente frammentaria, e creava
un’ideale portale per il Parc de la Villette. L’Insitut
du Monde Arabe di Nouvel
combinava le geometrie preesistenti sulla Senna con due corpi, uno
curvo e uno trasparente, intorno ad un cortile, in uno stile elegante
e teatralmente high tech (macchinari a vista, acciaio, elettronica).
La Grande Arche de la
Defense, di Von
Spreckelsen, quasi un parallelo dell’Arco di
Trionfo, sembrava orientarsi verso la Torre Eiffel (monumento del
centenario della rivoluzione), il monumento dell’età
dell’informazione elettronica collegato a quello dell’età del
vapore e dell’acciaio. L’arco simboleggiava una porta tra
microchip, con una struttura tensostatica che stava a simboleggiare
un flusso di energia.
Nonostante
questo fervore a Parigi, gli edifici più interessanti furono
realizzati nelle province, come il Musèe de
l’Arles Antique di Ciriani.
A pianta triangolare, sviluppava il tema della promenade di Le
Corbusier, per mezzo di rampe tra pilotis. Il Museo
del Centro Archeologico Europeo di Faloci
è anch’esso astratto, ma attento al contesto rurale. Rendeva
l’idea delle diverse stratificazioni temporali, e metteva in
contatto con le vicine rovine romane e celtiche.
In
Finlandia l’architettura
moderna continuò a riferirsi ad uno stato sociale industrializzato,
con un costante dialogo col paesaggio circostante. La monumentalità
classica era del tutto estranea, e il modello istituzionale continuò
ad essere quello elaborato da Aalto. Il moderno, carico qui di
significati i identità nazionale, era ancora forte, e non conobbe la
crisi che afflisse invece quello europeo in genere. Negli anni ’80
ci fu una ricerca in reazione alla standardizzazione, e anche qui i
punti di vista furono diversi.
Reima
e Pietila si basarono su
analogie naturali, Gullichsen
credeva nella reinterpretazione del miglior moderno (un vero
eclettismo moderno), Heikkenen
e Komonen mescolarono
l’astrazione proveniente dal continente con le caratteristiche
geografiche e la Natura in sé: un edificio riprendeva l’arcobaleno
nella sua vetrata a riflessi varianti, un altro, al circolo polare
artico, aveva un grande 8 per terra a rappresentare il percorso
annuale del sole a mezzogiorno.
Leiviska,
invece, era di un moderno non tecnologico, ma puramente tradizionale,
con pareti in mattoni e soffitti di legno. I suoi edifici religiosi
incarnavano anche una particolare sensibilità per la forza
spirituale della natura e dell’uso della luce.
Il
Padiglione finlandese per l’Esposizione Mondiale di
Siviglia del 1992 fu progettato da un gruppo di giovani architetti,
chiamati MONARK. Un volume in acciaio lucido affiancato da un
elemento curvo di onnipresente legno, un contrasto tra materiali
industriali e naturali che creava una sorta di cratere, uno spazio
dai poteri rigeneranti.
Il
termine astrazione fu spesso,
negli anni ’80, sinonimo di vuoto formalismo, ma, in realtà, molti
architetti lo utilizzarono per creare opere di ottimo livello.
L’americano Holl resistette
a postmoderno e decostruttivismo, per impegnarsi poi in un’astrazione
vicina alla natura e ai luoghi, con una stretta corrispondenza tra
forma e concetto.
Gli
svizzeri Herzog e de Meuron
cercarono un legame poetico tra forma, struttura, idea e contesto, ma
senza ricorrere a scontati riferimenti ambientali. La loro
astrazione, basata su semplici forme moderne, era evocativa di mondo
classico, naturale e tradizionale, ma in modo non evidente. Il loro
panteismo e naturalismo era rilevabile solo a
livello strutturale,
mai analogico o figurativo.
Questa
architettura svizzera era la risposta al kitsch e al finto neomoderno
consumistico, a altrettanto accadde in tutto il mondo, sfociando
spesso anche nel minimalismo.
L’architettura
del tardo XX secolo in Spagna
riuscì ad evitare immediati tradizionalismi e superficiali
neomoderni, per un’architettura aperta alle sperimentazioni e
indirizzata, per lo più, alla città. Era un moderno saldo e
radicato, forte di predecessori come Sert, de la Sota, Coderch e de
Oiza. L’ high tech fu quasi del tutto estraneo qui. L’interesse
per l’urbanistica si attivò contro l’azione distruttiva dello
sviluppo industriale, spesso in direzioni astratte, razionalistiche e
minimaliste. Rispondeva alle esigenze regionali senza essere
sfacciatamente regionalista.
Risentì
dell’influenza del portoghese Siza,
astratto ma legato a loco e paesaggio.
I
molteplici moderni della fine del XX secolo furono raramente inseriti
in progetti sociali di grande scala, e quindi poterono poco per
salvare la città e la campagna dalla dissoluzione causata
dall’industrializzazione. Forse proprio questa era una spinta
ispiratrice, perché l’architettura moderna trovò terreno fertile
proprio lì dove lo scontro tra interessi pubblici e privati era più
duro, soprattutto nelle democrazie sociali. Le diverse problematiche
locali continuarono a suggerire soluzioni “regionaliste”, ma allo
stesso tempo un sentimento comune e universalizzante accomunatagli
architetti di tutto il mondo, abitanti di un pianeta diviso ma
uguale, colpito da sconvolgimenti come il crollo del comunismo, la
crisi ecologica e i conflitti religiosi. Questo periodo non suggeriva
più le ottimistiche ed utopistiche percezioni del “primo periodo
eroico”, ma erano più realistiche e realizzabili, spesso orientati
alla creazione di microcosmi in opposizione al ritmo del mondo.
Nonostante
le convinzioni e le sensazioni di cambiamento, in realtà
l’architettura era in una fase ancora un po’ “passiva”, visto
che tutto nasceva, ancora adesso, dalle innovazioni della prima metà
del secolo, e la continuità era ben più forte e durevole di quanto
si pensasse.
CAPITOLO 36
Conclusione: modernità, tradizione, autenticità
Con
la prima architettura moderna si diffuse la convinzione che
finalmente si era raggiunto un genuino stile moderno, soluzione a un
problema vecchio di un secolo. Sicuramente lo trattarono troppo
“monoliticamente” e ne sottovalutarono i legami col passato, ma
ebbero ragione a sottolinearne il carattere epico e pionieristico. Le
sue implicazioni non si sono tutt’oggi ancora esaurite, anzi
continua a dare vita a nuove interpretazioni. E’ stata una grande
trasformazione mondiale, universalizzante, rivitalizzante per
l’architettura stessa. Fuse idealismo e progresso, scienza e
storia, città e natura, anche se fallendo in molti sforzi utopici,
sconfitto da industrializzazione e globalizzazione e partecipe della
dissoluzione provocata dal progresso.
I
temi base dell’architettura moderna raggiunsero la chiarezza tale
da generare le regole del movimento intorno agli anni ’20, periodo
di straordinaria intensità creativa. Questi momenti d’oro, nella
storia dell’architettura, sono quasi casuali, e nascono da
coincidenze di talento, committenza, fortuna e contesto culturale. La
generazione che maturò dopo la seconda guerra comprendeva elementi
del calibro di Le Corbusier,
Gropius, Mies
van der Rohe, generazione che aveva ereditato
l’ossessione della definizione di un linguaggio moderno dai
predecessori Wright,
Mackintosh, Behrens
e Perret, ma erano animati
anche da un universale progressismo sociale, spesso sfociato in
utopismo.
Questa
breve coincidenza di condizioni favorevoli fu in grado di generare
nuove basi formali, spaziali, strutturali e simboliche, che sarebbero
rimaste invariate (solamente ricombinate e reinterpretate) fino ai
giorni nostri.
La
generazione che ereditò la scena fin dagli anni ’30 (Aalto,
Barragàn, Terragni,
Niemeyer, Lubetkin,
ecc…) assorbì i principi del periodo “eroico” estendendone gli
insegnamenti, e nemmeno la guerra fu in grado di cambiarli. Più
tardi le idee espresse negli anni ’20 ispirarono la sperimentazione
di artisti come il Team X,
Kahn, Van
Eyck, Tange,
Utzon e Lasdun,
e anche i primi scialbi grattacieli eredi dei progetti degli anni
’20. Lo stesso postmoderno
era in realtà un’altra espressione del moderno, solo un “cambio
d’abiti”, mentre i maestri del moderno, come Wright e Le
Corbusier, erano stati in grado di rivoluzionare i linguaggi in modo
permanente, offrendo una base di lavoro a geni come a imbecilli:
ormai è la tradizione dominante del nostro tempo. In realtà è una
tradizione molto sfaccettata e dinamica, ricca di personalità e
regionalismi, e il talento del singolo sta nel reinterpretate in modo
personale e adeguato al contesto gli insegnamenti del passato. Quando
sarà inadeguato alle nuove necessità, lo stile corrente verrà
anche scartato, così come è successo con la rivoluzione industriale
e la nascita del Movimento Moderno, ma l’architettura moderna è,
in realtà, molto più adeguata al nostro contesto di quanto possa
sembrare, tanto da non permettere una sperimentazione che non ne
tenga conto come base da cui partire.
I
più grandi esempi di architettura moderna hanno una profondità che
li imparenta con le più grandi opere del passato, come la Robie
House, la Ville Savoye,
il Padiglione di Barcellona,
il Centro Civico di Saynatsalo,
il Kimbell Art Museum, la
Chiesa di Bagsvaerd e la Sala
Congressi di Salamanca,
opere per cui sarebbe riduttivo inscriverle strettamente nel
movimento moderno.
Dalla
seconda metà del settecento e il primo ventennio dell’ottocento
(Galilei e Newton) abbiamo una diffusione del pensiero scientifico.
Le macchine contribuirono a questo e nacque la rivoluzione
industriale. Chi prestava il proprio lavoro, gli operai, ricchi solo
di prole, veniva definito proletario, le cui condizioni di vita erano
malsane. Da qua nacque tra il 1815 e il 1848 il socialismo. Con
l’industrializzazione arrivarono anche nuove idee ottimistiche. Le
tenebre nelle quali l’uomo si dibatteva sarebbero state rischiarate
dalla luce della ragione; da ciò il termine di Illuminismo,
caratterizzante il diciottesimo secolo. Motto dell’illuminismo:
abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
Le idee dell’illuminismo erano fiducia nel progresso, creazione di
una società giusta, uguaglianza di tutti gli uomini, tolleranza
politica e religiosa, internazionalismo della cultura. I sovrani
andarono incontro alle esigenze dei sudditi senza rinunciare al
proprio potere assoluto.
Boullè
fu l’architetto che tra gli anni settanta e novanta del settecento
ruppe con il barocco e il rococò. Nacque a Parigi nel 1728. Affida
la sua architettura alle figure geometriche semplici esaltando la
sfera. Si riferisce a soggetti classici (egitto, oriente) per
prendere in prestito forme note. Evita le decorazioni; l’unico
motivo decorativo sono le ombre forti e profonde.
Nel
mezzo del neoclassicismo apparve un veneto, Piranesi (1720-1778),
dell’opinione che i romani non dovessero nulla ai greci, ai quali
erano anzi superiori. Come Boullè rendeva la solennità delle forme
semplici per mezzo di scenari grandiosi entro i quali l’uomo
appariva.
Il
neoclassicismo è la logica conseguenza sulle arti del pensiero
illuminista. Assieme al rifiuto degli eccessi del barocco e del
rococò guardava all’arte dell’antichità classica, specie alla
grecia. Nacque intorno alla fine dell’ottocento; comunica un
desiderio di ritorno all’antico. Il movimento ebbe come sede
privilegiata Roma, fonte inesauribile d’ispirazione classica.
L’unica via per diventare grandi era l’imitazione degli antichi.
Ma l’imitazione è una cosa diversa dalla copia; imitare significa
ispirarsi, il copiare prevede un’opera identica all’originale.
Il
neoclassicismo rifiuta l’ornamento barocco: l’architettura deve
essere espressione della sua funzione.
Nel
congresso di Vienna (1815) si ebbe la definitiva restaurazione
dell’Ancient regime.
Il
Romanticismo fu un complesso movimento diffusosi in europa tra la
fine del settecento e i primi decenni dell’ottocento. L’ideologia
romantica è il prodotto di una società in grave crisi economica e
sociale, con problemi sia dalla crescente industrializzazione sia
dalla restaurazione politica. La borghesia, preoccupata dal
ristabilirsi del predominio aristocratico, e gli intellettuali, che
intuivano l’impossibilità storica di un ritorno al passato,
divennero i punti di riferimento di un’opposizione che mirava a
sostituire le monarchie assolute con monarchie costituzionali.
Intanto cresceva il malessere negli strati più bassi della
popolazione e nacquero moti di rivolta. I fini del congresso di
Vienna furono di richiudere politicamente e culturalmente ogni stato
all’interno dei propri confini prerivoluzionari; questo fece si che
venissero meno anche gli ideali di universalità della cultura
illuminista e dell’arte neoclassica. Il concetto di popolo che
esalta il romanticismo è quello legato all’idea di nazione, ovvero
individui legati fra loro da vincoli indissolubili. Se noi siamo
quello che siamo lo dobbiamo soprattutto all’ambiente in cui
abbiamo vissuto e nel quale siamo cresciuti. Il nostro presente è
profondamente intriso nel nostro passato, ma non passato remoto,
astratto e indifferenziato al quale faceva riferimento il
neoclassicismo, ma il nostro passato più prossimo, più vicino, più
vero. Prima in germania, poi in francia, Inghilterra e italia, il
romanticismo si contrappone con il neoclassicismo e con tutta la
cultura del razionalismo illuminista. Quest’ultimo fa riferimento
ad un passato ideale (antichità greco-romana), il movimento
romantico cerca le proprie radici nel più vicino medioevo. La fede,
il sentimento, l’irrazionalità che il secolo dei lumi aveva
condannato e bandito riaffiorano ora in mille forme. Sul piano
politico abbiamo una compattazione nazionalistica e la formazione dei
grandi stati nazionali. Sul piano architettonico il neoclassicismo
lascerà il passo allo storicismo e all’eclettismo, una tendenza ad
ispirarsi a fonti artistiche anche di epoche diverse operando una
scelta degli elementi ritenuti migliori.
Neoclassicismo
e romanticismo sono due fasi di uno stesso processo storico;
sembrando contrapposte sono in realtà connesse sul piano artistico e
culturale. Il neoclassicismo si fa promotore del ritorno all’ordine,
ispirandosi a modelli classici; il romanticismo esalta la fantasia,
la sensibilità personale e la malinconia, rifiutando tutto ciò che
si poteva ricollegare con il razionalismo illuminista, base del
neoclassicismo. Tuttavia entrambi sono caratterizzati da un timore
del presente e dal rifiuto dei suoi aspetti più veri e concreti. Si
ha una costante ricerca di forme espressive in gradi di far evadere
dall’insoddisfazione di un oggi in rapida evoluzione.
Neoclassicismo, greco-romani; romanticismo, medioevo.
Tra
il 1855 e il 1867 nasce il fenomeno dei macchiaioli che avrà
influssi fino al nostro secolo. La macchia in opposizione alla forma.
La
forte industrializzazione intorno alla metà del diciannovesimo
secolo è la causa e l’effetto del momento di maggior sviluppo
tecnologico che l’umanità avesse mai conosciuto. La produzione dei
materiali da costruzione conobbe un nuovo impulso grazie ai nuovi
processi di fusione ad altissime temperature, il coke, gli impianti
siderurgici e le travi e altri elementi di ferro di dimensioni e
resistenza tali da poter essere utilizzati in campo edilizio. Le
ghise, l’acciaio e il vetro rivoluzionano sia il modo di costruire
che le tipologie degli edifici. Elementi come archi e volte diventano
obsoleti; in crisi anche la figura dell’architetto, abituato a
progettare secondo le regole della tradizione, che si trova a dover
fare i conti con materiali che non conosce. Intorno alla metà del
secolo emerge una nuova figura professionale, l’ingegnere. La sua
preparazione è più tecnica che artistica, studia la ghisa e
l’acciaio per mezzo di calcoli matematici. Gli ingegneri diventano
così gli unici in grado di intendere e interpretare le leggi interne
della materia. L’architettura del ferro ebbe modo di esprimersi
nelle grandi strutture come ponti, viadotti, stazioni ferroviarie e
padiglioni espositivi. Questi ultimi in occasione delle esposizioni
universali diedero gli esiti più straordinari a partire dal 1851.
Era necessario allestire in tempi relativamente brevi padiglioni
tanto ampi da poter contenere i materiali delle mostre. Le strutture
in ferro e vetro potevano rispondere a tali esigenze. La prima
esposizione universale si tenne nel 1851 a londra. Per celebrare
quest’evento si ebbe un concorso internazionale per la costruzione
di un padiglione da collocare al centro di una delle zone più verdi
della capitale, tra hide park e kenningston garden. Tra i 245
progetti vinse paxton, un costruttore di serre che realizzò una
faraonica struttura in ghisa e vetro, che con oltre 77000 metri
quadrati di superficie sarebbe stato lo spazio più vasto mai coperto
da una costruzione. L’impresa, impensabile senza utilizzare le
nuove tecnologie, fu portata a termine in pochi mesi tra lo stupore
generale. Il Palazzo di cristallo è composto da una navata centrale
gradinata lunga oltre mezzo chilometro, una grande volta a botte in
ghisa e vetro, appositamente costruita per non abbattere alcuni
alberi secolari del parco. L’opera fu resa possibile dal fatto che
i diversi elementi strutturali, avendo forme geometriche sempre
ricorrenti, poterono essere realizzati in serie commissionandoli a
varie fonderie. Dopo l’esposizione l’edificio fu smontato e
rimontato a sydenham, alla periferia di londra; nel 1937 fu distrutto
da uno spaventoso incendio. Nel giro di un anno fu comunque smontato
e rimontato due volte, simbolo di maneggevolezza e riutilizzabilità
, punto di forza di ogni successiva struttura in ferro. Per le altre
esposizioni si realizzarono padiglioni sempre più giganteschi,
strutture più snelle ed economiche e forme più ardite ed
esteticamente valide. Le esposizioni si susseguono fino ad arrivare
addirittura a tre in un solo anno. Nel 1889, in occasione del primo
centenario della rivoluzione, Parigi ospita la sua terza esposizione
universale. Fu allestita negli spazi erbosi del campo di marte ed era
composta di tre diverse strutture: il palazzo, una massiccia
costruzione ad u, la galleria delle macchine e la torre eiffel. La
galleria delle macchine fu progettata da dutert che si avvalse di tre
ingegneri per il calcolo delle strutture, inaugurando la
collaborazione professionale. Presenta soluzioni tecniche più ardite
del palazzo di cristallo. Il vastissimo ambiente (48300 metri
quadrati) è coperto da una serie di enormi arconi a campata unica,
cioè senza pilastri o altri appoggi intermedi, ovvero l’arco a tre
cerniere (suolo e vertice). Per ingentilire la struttura usa elementi
decorativi in lamiera sagomata e lastre di maiolica dipinte. La
costruzione simbolo è la torre di 300 metri d’altezza che per
l’epoca è la costrizione più alta della terra; la sagoma serviva
a contrastare l’azione del vento. Per la prima volta in
architettura è la natura a determinare le forme più idonee. Si
regge su quattro piloni reticolari per scaricare l’enorme peso.
L’essenzialità della struttura e la precisa motivazione funzionale
rende superfluo ogni intervento decorativo. Chiusasi l’esposizione
la torre non verrà smontata. In italia la rivoluzione industriale
arriva tardivamente per la volontà di uniformarsi a una linea di
tendenza che sta andando in tutte le altre capitali europee. Gli
architetti italiani però sono tutti di formazione accademica e
quindi anche nell’usare ferro e ghise non riescono ad abbandonare
il decorativismo che invece di migliorare l’aspetto finisce per
appesantire le strutture. Tra le architetture in ferro italiane
appare a parte la galleria di vittorio Emanuele 2 di milano
realizzata da mengoni tra il 1865 e il 1878. egli in realtà vinse il
concorso del 1861 per il totale rifacimento di piazza del duomo. La
galleria fu pensata come una unica navata intersecata al centro da
una più corta. I quattro bracci erano ricoperti con volte di ghisa e
vetro per arrivare ad un ottagono centrale.
Attorno
agli anni trenta dell’ottocento con viollet-le-duc cominciò ad
affermarsi una nuova concezione del restauro, in stile; il nuovo non
doveva distinguersi dall’esistente.
Nel
1870 in Francia si proclamò la terza repubblica, favorendo l’ascesa
di una borghesia moderata e conservatrice. Parigi consolida il
proprio aspetto borghese e festoso arricchendosi di teatri, musei,
ristoranti, sale da ballo, casinò e soprattutto caffè. Ovunque
erano novità e progresso: dalle imponenti stazioni ferroviarie in
acciaio e vetro fino ai primi grandi magazzini con all’interno
avveniristici ascensori a vapore. Senza Parigi l’impressionismo non
sarebbe potuto esistere, e senza l’impressionismo non sarebbe nata
la belle epoque, periodo tra la fine dell’ottocento e l’inizio
della prima guerra mondiale, e fa riferimento al benessere economico
e alla vita spensierata che caratterizzava la classe borghese del
tempo. Forte sensibilità verso il progresso tecnico e scientifico.
L’impressionismo non è organizzato ne preordinato e si costituisce
piuttosto per aggregazione spontanea; giovani artisti che avevano una
gran voglia di fare iniziarono a riunirsi al cafè guerbois. Il
movimento impressionista è privo di una base culturale omogenea
perché i vari aderenti provenivano da esperienze artistiche e da
realtà sociali fra le più disparate. Nella pittura abbiamo il
diverso modo di porsi con la realtà esterna, tutto ciò che
percepiamo con i nostri occhi continua al di la del nostro campo
visivo; nei loro dipinti vi è la quasi totale abolizione della
prospettiva geometrica. Ciò che più conta è l’impressione che un
determinato stimolo esterno suscita nell’artista; si tendono ad
abolire i forti contrasti chiaroscuri e a dissolvere il colore
locale. Gli impressionisti cercano di rendere il senso della mobilità
delle cose. A questo ha contribuito non poco l’invenzione della
fotografia. Come data precisa d’inizio del movimento impressionista
abbiamo il 15 aprile 1874.
Le
tendenze post-impressionistiche sono quegli orientamenti artistici
che si sviluppano in francia nell’ultimo ventennio dell’ottocento
e che ebbero ripercussioni su tutta l’europa e che furono
fondamentali per la nascita dell’arte del novecento. Alla base vi
era la conquista impressionistica della natura. Caratteristiche
comuni ai post-impressionisti furono il rifiuto della semplice
impressione visiva e la tendenza a cercare la solidità
dell’immagine, la sicurezza del contorno, la certezza della libertà
del colore.
Gli
ultimi decenni dell’ottocento vedono il pieno sviluppo della
seconda rivoluzione industriale che condurrà il vecchio continente
verso il traguardo del nuovo secolo. Dopo la formazione degli stati
nazionali l’europa vive un periodo di relativa stabilità politica;
sono gli anni della cosiddetta belle epoche, con benessere economico
prodotto dell’espansionismo capitalista. La maggior parte dei
capitali è nelle mani di pochi e la modesta borghesia impiegatizia
si deve accontentare solo delle briciole dei grandi proventi
industriali. Il proletariato vive ancora in condizioni estremamente
disagiate e precarie. Si otterrà una pace sociale che in cambio di
modeste concessioni, consente di proseguire nella politica di
espansionismo industriale e di colonizzazione. Si aprono così nuovi
orizzonti economici fornendo materie prime e forza lavoro a costi
concorrenziali. I paesi che non intraprendono vaste colonizzazioni
nei paesi extraeuropei o che, come l’italia, colonizzano poco,
rimangono quindi tagliate fuori dai mercati internazionali, costretti
ad importare a prezzi alti. Il conflitto d’interessi anglo-tedesco,
il contrasto austro-russo, la forte contrapposizione franco-tedesca
sono alcune delle motivazioni che porteranno alla guerra a cui farà
seguito il totale ridisegno di tutti gli equilibri politici ed
economici d’europa.
Molte
speranze erano riposte nella scienza per alleviare il duro lavoro
dell’uomo a seguito della rivoluzione industriale. Tuttavia molte
attività artigiane morirono per la concorrenza spietata
dell’industria; le città si erano riempite di contadini
urbanizzatisi per necessità. Ma l’operaio fu costretto ad
abbandonare le proprie radici; il lavoro che gli veniva concesso era
una massacrante fatica quotidiana senza ne un salario equo ne
un’attività gratificante. Il lavoro era ripetitivo ed alienante.
La grande esposizione del 1851 mostrava, accanto a pezzi altamente
decorativi e costosi, una svilita produzione industriale di oggetti
d’uso comune, rivelando le negatività della produzione in serie
legata al basso costo e svincolata dall’arte. Si sentiva la
necessità di un cambiamento radicale che riconsiderasse gli scopi
stessi del lavoro operaio e la qualità dei manufatti industriali. Fu
morris il primo ad occuparsi esclusivamente di arti decorative, le
cosiddette arti minori. Riteneva che bisognasse restituire al lavoro
operaio quella spiritualità e quel sentimento che erano stati
eliminati dall’uso delle macchine; l’operaio, nel realizzare cose
utili doveva farle anche belle. Tuttavia la produzione di morris,
essendo di qualità, si rivolgeva ad una ristretta cerchia di
persone, escludendo proprio quelle masse operaie che voleva
beneficiare. Fondò così la “arts and craft exhibition society”,
un’associazione di arti e mestieri che si prefiggeva di conciliare
la produzione industriale con l’arte. Lo scopo era di consentire ai
meno abbienti di acquistare oggetti d’uso comune di buona qualità
e a basso prezzo.
Il
decorativismo era il presupposto immediato dell’art nouveau. Gli
oggetti sfornati dall’industria, tutti rigorosamente uguali e
sempre rispondenti a precisi standard di finitura, perdono qualsiasi
personalità; al loro minor costo si è dovuto sacrificare tutta una
serie di raffinatezze lavorative e di riguardi estetici. La quantità
ha sopraffatto la qualità. Dare dignità artistica al prodotto
industriale significa rispondere a due importanti esigenze; la prima
di ordine economico (l’innalzamento del livello estetico dei
prodotti porta all’apertura di un mercato della media e piccola
borghesia), la seconda è di porre le basi per un’arte diversa e
moderna, in linea con il progresso ma al tempo stesso capace di
recuperare quei valori ideali e fantastici. L’art nouveau è la
risposta che la cultura europea, stanca dello storicismo eclettico,
da al disagio del proprio tempo. Il termine indica i contenuti
rivoluzionari che si vogliono esprimere. È così che l’art
noouveau diventa in breve l’arte della belle epoque. In ogni paese
d’europa l’art nouveau si sviluppa in modo diverso, al fine di
meglio interpretare quel desiderio di novità che è insito nel suo
stesso nome. E anche i nomi, naturalmente, cambiano. Art nouveau è
quello francese e deriva dall’insegna di un negozio di arredamento
d’avanguardia a Parigi;in italia prende il nome di liberty, da una
ditta di arredamenti moderni, in germania jugendstil, in austria
sezession, in belgio stile horta e in spagna modernismo. Nessun campo
è stato immune all’art nouveau; il campo tessile, la moda, la
ceramica e i vetri, la grafica. Victor Horta è il maggiore esponente
dell’art nouveau in belgio. Nei suoi edifici c’è sempre la
corrispondenza interno-esterno e funzione-forma, abolendo ogni
riferimento di tipo storicistico. Usa molto il vetro,
smaterializzando le pareti inondando di luce gli interni. A seconda
dei vari paesi in cui si sviluppò , l’architettura art nouveau
assume forme e soluzioni costruttive diverse. La sua costante sta
nell’uso nuovo e funzionale del ferro e delle ghise. Sono le
strutture stesse a diventare decorazione, attingendo spesso al
fantasioso mondo vegetale e animale. Horta reinvesta la ringhiera
usando il metallo in modo assolutamente anticonvenzionale ispirandosi
al mondo vegetale.
L’ambiente
viennese di fine secolo è per molti versi la vera e propria culla
della cultura e del gusto art nouveau con architetti come Olbich,
Wagner e Loos. Due particolari avvenimenti condizionano gli ultimi
decenni del secolo: la creazione della kunstgewerbeschule e il
sorgere della sezession. I corsi della kunstgewerbeschule nascono per
unire ai consueti strumenti per la formazione artistica anche un
bagaglio di nuove conoscenze tecniche relative all’uso dei
materiali, alle loro caratteristiche e al loro impiego industriale.
Artisti e artigiani lavorano fianco a fianco. A Vienna tra il 1898 e
il 1899 viene costruito il palazzo della secessione di olbrich,
allievo di Wagner. Partendo da una pianta quadrata da origine ad un
semplice contenitore dalle pareti lisce e quasi disadorne, ad
eccezione di un fregio floreale sotto il cornicione, porte e finestre
si aprono con tagli netti e decisi, senza le cornici, le modanature o
i timpani quali ci aveva abituato l’architettura eclettica. La
grande invenzione decorativa è costituita da un’ampia cupola in
rame dalle forma quasi sferica, traforata a motivi floreali e
rilucente di lamine d’oro, contrasta con la chiara massa muraria e
consente una diffusa illuminazione dall’alto dell’interno
destinato ad uno spazio espositivo che non è ingombro di muri o
elementi strutturali fissi e può dunque essere modificato. Mai
edificio fu più consono alla sua funzione; divenne nuovo punto di
riferimento per l’architettura moderna, divenuta ormai insofferente
all’eclettismo fino ad allora dilagante. Loos combattè in ogni
modo il concetto di decorazione in architettura. I tempi sono ormai
maturi per l’avvento di una nuova architettura e totalmente
funzionale, nella quale ogni decorazione sia definitivamente bandita
in funzione della qualità prima che ogni architettura deve
soddisfare: il benessere di chi vi abita. Nella casa per la famiglia
steiner la semplicità geometrica, la funzionalità delle sue
aperture, solo dove servono, la rinuncia a ogni estetismo in nome
della semplicità e della comodità d’uso, già preludono il
razionalismo.
L’espressionismo
è una ben definita tendenza dell’avanguardia artistica del nostro
secolo tra il 1905 e il 1925 nell’europa centro-settentrionale e
soprattutto in germania. Come l’impressionismo rappresentava un
moto dall’esterno verso l’interno, era cioè la realtà oggettiva
a imprimersi nella coscienza dell’artista, l’espressionismo
costituisce il moto inverso, dall’interno all’esterno: dall’anima
interna dell’artista direttamente nella realtà.
La
necessità di conquistare nuovi mercati e di ridisegnare i confini
europei crea le premesse per la prima guerra mondiale, detta la
grande guerra (1914-1918), che sancirà il definitivo termine della
belle epoque e il primo affacciarsi sulla scena internazionale della
nascente potenza degli stati uniti. Si aprirono nuovi orizzonti di
ricerca, da quella scientifica con einstein a quella filosofica con
bergson, che considera come slancio vitale l’impulso a creare
spontaneamente forme e situazioni sempre nuove e imprevedibili. Anche
il settore dell’arte si apre a un universo di ricerche e
sperimentazioni mai tentate prima. Picasso e braque furono i
fondatori del cubismo, il cui significato può riassumersi in “la
pittura è dunque un equivalente della natura”. I pittori cubisti
non cercano di compiacere il nostro occhio imitando la realtà ne,
come facevano gli impressionisti, tentando di interpretare le
suggestioni. Essi si sforzano di costruire una realtà nuova e
diversa. Se la riproduzione prospettica di un qualsiasi oggetto può
apparirci senza dubbio verosimile la verità di quell’oggetto è
quanto mai lontana e diversa. Contrasto tra Vero-verosimile. La
realtà che percepiamo attraverso il senso della vista è spesso
diversa dalla realtà vera. I bambini sono involontariamente cubisti.
La realtà cubista comprende anche il fattore tempo; per poter
assumere punti di vista diversi occorre muoversi e per muoversi
occorre tempo. Il nome del movimento deriva dall’uso cubista di
scomporre la realtà in piani e volumi elementari (cubi). La data di
inizio del cubismo si fa risalire al 1907. il periodi di massimo
splendore inizia nel 1909. è il momento del cosiddetto cubismo
analitico, scomporre i semplici oggetti dell’esperienza quotidiana
secondo i principali piani che li compongono. Tra il 1912 e il 1913 è
la fase del cubismo sintetico, dove appare l’equivalenza tra
pittura e natura; l’artista cerca di creare forme che non hanno più
alcun rapporto con quelle già note. Lo scoppio della prima guerra
mondiale mette bruscamente fine alla grande stagione del cubismo.
Esso, assieme al rinascimento, rappresenta uno dei momenti di svolta
storica di tutta l’arte occidentale. Il cubismo è il figlio più
vero del nostro secolo, perché ha aperto la strada a tutte le altre
avanguardie artistiche.
Il
manifesto del futurismo di marinetti appare per la prima volta a
Parigi nel 1909. nasce così il futurismo che terminerà nel 1944. si
assiste alla nascita di una nuova estetica della macchina e al tema
futurista della velocità e della sua bellezza. Apparirono fenomeni
di rinnovamento coincidenti con l’art nouveau, lo jugendstil e il
liberty. L’italia di inizio secolo vive con ritardo una propria
piccola rivoluzione industriale. Artefice principale dell’evoluzione
dell’italia nei primi quindici anni del secolo è giolitti; da qua
il periodo prende il nome di età giolittiana. Il futurismo, rispetto
a tutte le altre proposte dell’avanguardia internazionale (come ad
esempio il quasi contemporaneo cubismo o il dada o il surrealismo) è
caratterizzato da una visione estetica che abbraccia l’intero modo
di concepire la vita. Tra gli espedienti più originali abbiamo le
serate futuriste. Elementi chiave sono il rifiuto della tradizione,
privilegiare l’immagine del movimento. Il poeta futurista utilizza
nuove immagini e inedite analogie; molto importante fu la rivoluzione
tipografica mediante l’impiego contemporaneo di caratteri con forme
e dimensioni diverse. Sul piano politico il futurismo apparve solo
tra il 1918 e 1920; comincia con la fondazione di un partito politico
futurista, culmina con un’alleanza con i fasci di combattimento di
mussolini nel 1920 e si conclude quando nel 1920 marinetti scioglie
questa alleanza per riportare il futurismo nei confini artistici.
Mussolini diventa presidente del consiglio nel 1922 e dal 1924
instaura un regime totalitario che termina con la seconda guerra
mondiale.
Sant’elia
nasce a como nel 1888. lavora prima come disegnatore nell’ufficio
tecnico del comune. Dal 1909 al 1911 inizia l’attività di
architetto. Nel 1912 diventa professore di disegno architettonico a
bologna. Nel 1941 aderisce al movimento futurista. L’anno dopo si
arruola e muore in battaglia nel 1916. l’originale contributo di
sant’elia al futurismo è costituito da molti schizzi e disegni,
con la necessità di dare forma leggibile a un’architettura vicina
alle proprie aspirazioni e che ha come scenario la metropoli moderna
proiettata nel futuro. Nel 1914 vengono presentati i disegni al
pubblico ad una mostra. Tre delle sedici tavole della mostra erano
sul tema della centrale elettrica, simbolo della tecnologia moderna,
risultato della potenza della macchina, cattedrale del futuro. La
centrale elettrica possedeva uno straordinario monumentalismo
espresso dai possenti volumi proiettati verso l’alto, la scomparsa
di ogni accenno di decorazione e l’assenza quasi totale di
aperture; sono presenti condotte forzate per introdurre dinamicità
nell’immagine. L’espressione di monumentalità viene accentuata
dalla prospettiva dei disegni dal basso verso l’alto. Si propone
come immagine di una nuova civiltà industriale. Cinque tavole di
un’altra mostra avevano come titola la città nuova; complessi
architettonici dalle dimensioni gigantesche con complesse strutture
tecnologiche. Invece della singola opera architettonica o del piano
urbanistico generale tratta di una dimensione progettuale intermedia;
appare un forte senso tridimensionale e sempre monumentalismo. Pareti
gradinate e torri per gli ascensori esprimono una intensa e dinamica
spinta ascensionale. Progetto anche un sistema di integrazione dei
trasporti, con piste d’atterraggio collegate ad una sottostante
stazione ferroviaria. È l’ideologia metropolitana che anima
l’estetica futurista; condanna l’architettura ispirata allo
storicismo e all’eclettismo.
Lo
spirito giocoso era comune a tutta l’esperienza futurista. Nasce
l’ambientazione; non più solo opere d’arte ma un’aggregazione
di oggetti, arredi e decorazioni che insieme trasformano uno spazio
in un0opera d’arte totale. Questo non costituisce una novità
assoluta, era gia apparso nello jugendstil; ma mentre in quel caso si
fa riferimento a un’idea dell’arte come valore assoluto, ora le
finalità sono del tutto diverse. Per il futurismo l’arte non è
più fine a se stessa e non ha come obiettivo la pura esperienza
estetica. Diventa uno strumento per affermare una diversa concezione
della vita e un suo rinnovamento con trasformazione culturale verso
la modernità.
Tra
le due guerre mondiali il futurismo sviluppa appieno la tendenza
innata a estendere la propria visione a tutte le pratiche artistiche
e comunicative. L’arte meccanica costituisce dunque uno dei
principali indirizzi di sviluppo del futurismo tra le due guerre.
Tra
le fiamme del primo conflitto mondiale la svizzera, da sempre
neutrale, rimane un’isola apparentemente felice, dove si rifugiano
intellettuali e artisti da tutta europa. Nel 1916 nasce il dada, un
movimento che è un nonsenso per definizione. Il dada è il tutto e
il nulla, è gioco e paradosso, è libertà di essere dada o no, è
arte e negazione dell’arte. L’esperienza dada è il gusto per il
paradosso e il gioco dei nonsensi. L’ambiziosa scommessa del dada è
riscattare l’umanità dalla follia che l’ha portata alla guerra,
e per fare ciò è necessario azzerare tutte le ideologie e i valori;
vuole essere un’arte nuova. Il dada è un modo di essere e di
sentire, è rifiuto totale del passato attraverso il rifugio nella
follia innocua del nonsenso e dell’ironia. Dada non è un
movimento, è una tendenza, e come tale si dissolve in pochi anni.
Muore dunque intorno al 1922. è una forma nella quale ciascuno può
leggere, se vuole, qualunque cosa.
Rietweld
aderisce alle idee di de stijl per poi avvicinarsi al razionalismo.
Mondrian fu suo maestro e artista neoplastico.
All’indomani
della prima guerra mondiale l’europa, orribilmente devastata doveva
ricostruire se stessa e quel sistema di valori e di punti di
riferimento indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo di una
società civile. Quest’opera non poteva non coinvolgere anche le
arti e in special modo l’architettura, più concretamente legata
alle esigenze di vita e di quotidianità della gente. L’ultima
importante esperienza architettonica prebellica era stata l’art
nouveau. Partita dalle ottime premesse di olbich e horta e Wagner
l’art nouveau si è però incagliata in nuovo e vuoto accademismo.
All’iniziale liberazione dalle ormai inutili forme della tradizione
storicistica si era sostituita la meccanica riproduzione di forme
sinuose e floreali; quando le forme sono slegate dalla funzione non
hanno senso. Se prevale la logica decorativa, costruire in art
nouveau non è indice di maggiore modernità che costruirne uno in
stile neogotico. Loos era contro l’ornamento fine a se stesso,
definito da lui addirittura un delitto. L’esperienza razionalista
europea degli anni venti riparte da loos e da quei gruppi
d’avanguardia che soprattutto in germania usavano moderni materiali
da costruzione e nuove tecnologie ad essi connesse. Tra queste
esperienze di anteguerra aveva assunto particolare significato quella
del deutcher werkbund. Fondato a monaco da muthesius nel 1907 diventa
subito uno straordinario laboratorio di idee per sanare la storica
frattura esistente tra arte, artigianato e industria. Nell’ambito
del werkbund maturano alcune delle personalità artistiche più
significative dell’architettura razionalista. Fra tutti spicca
behrens che rivoluziona ogni precedente regola edilizia tenendo conto
fin dalla progettazione delle esigenze e dell’ottimizzazione dei
costi. Uno dei suoi lavori più impegnativi fu la fabbrica di turbine
della aeg del 1909 a berlino. Behrens cerca di dare a un manufatto
industriale la solenne imponenza di un tempio; per la prima volta
l’architettura si interessa all’aspetto di una fabbrica; si
interessa di aspetti prima mai neanche presi in considerazione. Nei
due lati corti abbiamo un massiccio frontone a profilo spezzato
creando un gigantesco gioco di incastri fra materiali diversi; a
concludere vi è una immensa vetrata e un timpano che disegnano una
specie di fungo o la testa di una enorme vite. La forma ha sia
esigenze funzionali che decorative e simboliche. Si ha così una
corrispondenza tra forma e funzione caratteristico del deutcher
werkbund. Elementi comuni al razionalismo saranno comunque la sempre
più perfetta identificazione tra forma e funzione, l’utilizzo tra
forma e funzione, l’utilizzo di volumi semplici e netti, la
preponderanza della linea e degli angoli retti, labolizione di ogni
decorazione e lo studio della standardizzazione, cioè l’impiego di
elementi prefabbricati di dimensioni sempre uguali o comunque fra
loro multiple. Abbiamo così un’architettura veramente nuova e
democratica, per rompere ogni continuità anche formale con il
recente passato.
Il
bauhaus è il più alto e significativo momento di sviluppo del
razionalismo tedesco. Fondato nel 1919 a weimar da gropius è la
fondamentale e insostituibile palestra intellettuale. Un po’
scuola, un po’ bottega artistica, un po’ laboratorio artigiano è
il simbolo della rinascita umana e morale della germania tra la
sconfitta della prima guerra mondiale e il devastante avvento della
dittatura nazista. Il bauhaus si proponeva di sviluppare
ulteriormente le esperienze del deutcher werkbund. Il bauhaus è
prima di tutto una scuola pubblica dove allievi e docenti studiano,
vivono e lavorano assieme. L’ideologia era basata sul socialismo. È
una officina di idee prima che di opere, dalla pittura alla scultura,
dalla grafica all’architettura, dall’urbanistica all’industrial
design. All’interno della scuola gropius e gli altri insegnanti
seguono i propri allievi in tutte le fasi creative: dalla
progettazione alla sperimentazione fino alla realizzazione in
officina; dal bauhaus arrivarono alcuni oggetti diventati punti di
riferimento del gusto contemporaneo. Molti dei primi allievi del
bauhaus sono a loro volta diventati maestri, come breuer. Il successo
del bauhaus richiama a weimar studenti e intellettuali da ogni parte
della germania e d’europa e indispettì così i gretti ambienti
accademici locali al punto che gropius fu costretto nel 1924 a
trasferire l’istituto a dessau. Il trasferimento del bauhaus
significò anche la possibilità per gropius di progettare e arredare
la nuova sede. Fu una delle prime e più perfette architetture
razionaliste, con grande equilibrio compositivo, studio delle
funzioni, grande abilità tecnica e coerenza nell’uso dei
materiali. La struttura è articolata in due volumi a forma di
parallelepipedo. In uno vi sono le aule per le lezioni teoriche,
nell’altro vi sono i laboratori per le esercitazioni pratiche. Un
lungo corpo sospeso su pilastri in calcestruzzo armato collega i due
settori. Sotto questo ponte coperto passa la strada di accesso al
bauhaus. La palazzina a cinque piani è quella dove ci sono le camere
e i servizi per gli studenti interni. La planimetria assume la forma
di due L incastrate fra loro e i prospetti denunciano le funzioni. Le
pareti del settore dei laboratori sono grandi vetrate. Per le aule e
le amministrazioni abbiamo finestre e nastro. La palazzina
dell’ostello ha finestre e portafinestre a L. Gli unici materiali
visibili sono il vetro, che individua i vuoti, il ferro, che
incornicia i vuoti, e l’intonaco bianco, per i pieni; questo
richiama la bicromia brunelleschiana; gli intenti di gropius erano di
semplificare e geometrizzare la propria architettura fino a renderla
pura funzione. Non esistono cornici o altri elementi decorativi non
direttamente necessari alla struttura. Gropius applica anche qui,
come già in alcune precedenti applicazioni progettuali, l’angolo
di vetro. Con l’impiego del calcestruzzo armato i solai dei vari
piani sono delle grandi piastre libere rette da poche pilastri. Le
pareti diventano puri setti divisori; questo modo di costruire si
definisce a pianta libera; questo permette la costruzione di
incredibili scatole trasparenti. La presenza delle vetrate continue
dal punto di visto dell’uso permette ampie superfici vetrate che
consentono una migliore illuminazione. Dal punto di vista ideologico
poi il vetro e il cristallo sono simboli espressionisti di chiarezza
di pensiero e di pulizia morale. La stagione di dessau è per il
bauhaus quella più proficua e culturalmente intensa. Nel 1928
gropius cede la direzione a meyer. Quattro anni dopo però la
situazione politica diventa definitivamente incompatibile con la
sperimentazione e la democrazia del bauhaus. La scuola viene quindi
chiusa. Nel 1933 il regime nazista, appena al potere, decreta la fine
senza appello del bauhaus. Con esso muoiono le speranze democratiche
e si gettano le basi per il terzo reich di hitler. Questo bolla come
degenerata l’esperienza razionalista, disperdendone i prodotti e
perseguitandone gli artefici. I migliori intellettuali tedeschi
devono così abbandonare il loro paese lasciandolo in mano di artisti
mediocri e servili ai voleri del regime. È così che l’architettura
tedesca, senza dubbio la più avanzata del dopoguerra, sarà
ricacciata verso l’assurdo e vacuo monumentalismo classicheggiante
negli edifici pubblici e nella banalità della tradizione
pseudotirolese delle casette con il tetto spiovente e i gerani sui
balconi nelle costruzioni private. Gropius, van der rohe e altri sono
costretti a fuggire. Molti si rifugeranno in Inghilterra, in unione
sovietica ma la maggioranza negli stati uniti e costruiranno edifici
e grattacieli.
Jeanneret,
le corbusier, nasce nel 1887 in svizzera, ma la sua vera patria fu la
francia. Dal 1906 al 1914 vagabondò per tutto il vecchio continente,
partecipò ad un’esposizione del deutcher werkbund e a berlino
frequentò per un breve periodo, assieme a gropius e van der rohe, lo
studio di behrens. Nel 1907 visita anche l’italia. In questo modo
jeanneret, che non ha mai compiuto studi architettonici regolari,
apprende dal vero e nel modo più diretto le grandi lezione del
passato; diventa così un attento osservatore-architetto. Dal 1917 si
stabilisce a Parigi e l’anno successivo da vita al purismo,
movimento pittorico, che partendo dalle posizioni dei cubisti ne
semplifica alcuni aspetti introducendo le forme pure. Dal 1922 apre
uno studio di architettura. Muore nel 1965.
Tra
il 1929 e il 1931 costruisce la ville savoye a poissy, in francia.
Composta da due soli piani, ha pianta quadrata e si regge su pilotis
(tradotto, palafitte). Dal basso si nota un portico, il garage, i
servizi da lavanderia e l’appartamento per l’autista. Le pareti
non hanno funzione portante, sono solo i pilotis che reggono i solai.
Dal grande soggiorno rettangolare si accede ad una terrazza ad L,
invisibile da fuori perché chiusa dalle pareti bianche delle
facciate. Un’altra rampa porta alla copertura piana dove compare il
solarium, protetto da un muro sagomato. La costruzione appare come un
assemblaggio di volumi geometrici puri. La logica progettuale di le
corbusier sta proprio in questo suo creare gli ambienti dall’interno,
plasmandoli sulle esigenze di che dovrà in seguito fruirne, senza
interessarsi più di tanto dei rapporti con l’esterno. Ciò non
significa però indifferenza a tali rapporti: un’architettura non
può essere in contrasto con l’ambiente. Villa savoye è il miglior
prototipo dei cinque punti di una nuova architettura: i pilotis, il
tetto giardino, la pianta libera, le finestre a nastro e la facciata
libera. I pilastri sono arretrati rispetto alle facciate che possono
assumere sempre nuove configurazioni. In questo modo la casa può
assumere il ruolo di macchina per abitare. Le teorie di le corbusier
trovano applicazione anche nella progettazione di grandi complessi di
abitazione e di intere città. Nel 1947 elabora il modulor, sulla
base delle proporzioni umane, che individua una serie di multipli e
sottomultipli geometrici in base ai quali dimensionare le
costruzioni. Tra il 1946 e il 1952 nell’ambito dei programmi di
ricostruzione postbellica francese realizza anche l’unite
d’abitation, immaginando la concentrazione di un altissimo livello
di alloggi all’interno di un unico blocco polifunzionale, a
Marsiglia. Fu l’edificio per civile abitazione più grande mai
costruito, composto da ben 17 piani, è percorso al suo interno da 7
strade coperte che servono 337 appartamenti per un numero massimo di
1500 abitanti. Quasi tutte le celle abitative sono del tipo duplex,
su due diversi livelli accessibili mediante una scala interna; ciò
consente di creare spazi più liberi e mossi. L’unitè mostra però
tutti i limiti di un’operazione ancora troppo intellettuale per il
grande pubblico, molti abitanti si trovarono infatti a disagio per le
ampie superfici vetrate e ciascuno cercò di ridurle in vari modi.
Rimane perciò una sorta di gigantesco laboratorio sperimentale;
l’esperienza però si colloca in una scala progettuale a cavallo
tra quella architettonica e quella urbanistica. Pensare un insieme di
più unitè significa immaginare delle vere e proprie città. Grande
risonanza ebbero i piani urbanistici di le corbusier per dare vita a
città piu vivibili. Un esempio per tutti è costituito da
chandigarh, capitale della regione indiana del punjab. Si può
individuare un tessuto a maglie regolari diviso in veri settori
dotati di scuole, attrezzature sportive, verde pubblico e strade
commerciali oltre ad abitazioni per un totale di abitanti per settore
che varia dai 1000 ai 20000. realizzato dal 1951 sa riproporre alcuni
aspetti della cultura urbana del luogo, fatta da case basse, vie
strette e cortili affacciati verso l’interno per proteggere dalle
temperature tropicali. L’architettura di le corbusier è capace di
farsi anche monumentale nella cappella di notre dam du haut a
ronchamp realizzata tra il 1950 e il 1955. è in calcestruzzo armato,
composta da un’unica navata a forma irregolare. Tre piccole
cappelle indipendenti sono ricavate in altrettante piegature dei tre
rubusti setti murari. Le tre cappelle terminano in altrettanti
campanili di forma semicilindrica, la copertura è realizzata con una
gettata di calcestruzzo modellata come se si trattasse di una gran
vela rovesciata. Per aumentare il senso di leggerezza la copertura
non poggia direttamente sulle pareti ma su corti piastrini affogati
nella muratura; osservando il soffitto dall’interno si percepisce
una lama di luce che penetra tra i muri; la luce entra all’interno
anche da decine di aperture dalle più disparate forme creando
suggestivi effetti di luce anche grazie al contrasto tra il bianco
calcinato dell’intonaco e il grigio sporco del cemento. La morbida
sinuosità non contraddice il rigore razionalista; le forme
continuano ad essere lo specchio fedele delle funzioni che si
svolgono al loro interno. La chiesa non ha una facciata privilegiata
e dunque è un qualcosa da scoprire girandole intorno, vivendole nei
suoi percorsi.
L’architettura
che va sviluppandosi fra il 1700 e il 1800 negli immensi territori
americani non ha alcun riscontro in europa. A partire dai primi anni
del novecento una vertiginosa crescita economica porta gli stati
uniti, all’indomani del primo conflitto mondiale, a sostituire la
gran Bretagna nel ruolo di paese più ricco e industrializzato. Per
tutto l’ottocento negli stati uniti si erano continuati ad
utilizzare gli stili europei, in particolare gli stili neoclassici e
neopalladiani. L’edilizia residenziale si sviluppa in orizzontale
fuori dai centri urbani; le case non superano i due piani e
utilizzano il legno. In città invece nasce una nuova tipologia
edilizia, il grattacielo. Esso è la risposta al vertiginoso aumento
dei prezzi dei terreni nelle aree centrali. Lo sviluppo verticale è
possibile dall’uso combinato di nuovi materiali come il cemento
armato e il vetro e soprattutto l’acciaio. All’inizio del 1900 in
europa si diffonde l’art nouveau e in america l’architettura
raggiunge la sua individualità. Gli architetti europei che visitano
gli stati uniti ne restano profondamente influenzati. Wright fu il
più grande architetto della storia americana. Nasce nel 1869 e muore
nel 1959. nel 1897, non ancora ventenne lavora nello studio di
sullivan. Studia approfonditamente i materiali e le proprietà
applicative. Sua è la teoria sull’architettura organica;
l’architettura deve essere pensata e realizzata seguendo i
suggerimenti naturali biologici che scaturiscono dall’attenta
osservazione della realtà. Nel 1905 wright è in giappone dove trova
conferme alle sue teorie secondo le quali l’architettura non deve
essere un contenitore cupo e indifferenziato, ma un ambiente vivo.
Nelle praire house recupera molti elementi della tradizione dei
pionieri. Esse presuppongono un’agiata committenza borghese.
Contrariamente ai razionalisti francesi e a le corbusier, wright non
sembra essere particolarmente sensibile alla problematica sociale. La
robie house del 1909 è composta da tre piani sfalsati. È
organizzata intorno ad un grande camino centrale come avveniva nelle
semplici case dei pionieri. Il focolare rappresenta il vero e proprio
cuore pulsante della casa. In questo caso il camino incorpora anche
il blocco scala. Crea un suggestivo incastro di volumi sfalsati. Il
programma delle praire house è in aperta controtendenza con i
programmi di edilizia intensiva dei razionalisti europei. La casa è
infatti pensata come un organismo che cresce intorno al singolo uomo
o al massimo al suo nucleo familiare. La casa sulla cascata in
Pennsylvania del 1936 è immersa nella natura, all’interno di un
bosco su di uno spuntone di roccia. È realizzata con amore quasi
artigianale, utilizzando i semplici materiali del luogo, soprattutto
pietra e legno. Le tecnologie impiegate sono avanzatissime; la
struttura non si presenta come un corpo estraneo, ma al contrario
mette in evidenza una serie di piani che si intersecano e si
accavallano nello spazio. Gli spazi interni sono estremamente liberi;
il centro è l’enorme soggiorno vetrato; il soggiorno è ricco di
rientranze e sporgenze millimetricamente determinate dalla
preesistenza di un albero che non si voleva abbattere o dalla
necessità di affacciarsi sul torrente con una certa angolazione. Il
pavimento e della medesima pietra dello sperone di roccia esterno. I
pilastri portanti sono rivestiti in pietra del luogo. L’edificio
non ha un fronte o un retro. L’acqua che scroscia nella cascata
genera un fruscio che penetra nel soggiorno. Nelle camere al piano
superiore, essendo gli affacci opportunamente arretrati, la voce
dell’acqua giunge assai attutita. L’ultima opera di wright è uno
dei capolavori indiscussi del maestro, il solomon guggenheim museum a
new york di fronte a central park tra il 1943 e il 1959. per il
progetto wright si ispirò ad una conchiglia; la spirale rappresenta
un percorso pressoché infinito. È costruito attorno ad una grande
rampa elicoidale fino a sbocciare in un’ampia e luminosa cupola
vetrata. È un modo nuovo e rivoluzionario di essere un museo;
l’itinerario d’arte si percepisce solo percorrendolo. Si prova
un’impressione di estremo riposo, simile a quella prodotta da
un’onda calma, sottolineato dalla penetrazione luminosa.
Rappresenta il testamento artistico e umano di wright.
In
italia lo sviluppo industriale arriva molto tardivamente. Il gusto
corrente è ancora dominato dall’eclettismo storicistico.
Nonostante la vittoria militare, la prima guerra mondiale lascia
l’italia in una situazione di prostrazione economica e di crisi
sociale senza precedenti. Solo miseria e disoccupazione. Il
malcontento generale culmina con l’occupazione delle fabbriche nel
settembre del 1920. la svalutazione della lira, l’incapacità della
classe politica di esprimere un governo giusto e autorevole creano le
premesse per l’ascesa del fascismo. Strumentalizzando la protesta
operaia e facendo leva sui timori della piccola e media borghesia
mussolini organizza il 28 ottobre 1922 la marcia su roma. Da ciò
ebbe il via libera per diventare capo del governo instaurando di
fatto una dittatura personale. Il razionalismo che incominciava a
diffondersi in italia si sviluppava già all’interno della
dittatura fascista. Il nazismo tedesco, una volta conquistato il
potere, si dimostrerà fin dall’inizio fieramente avverso a
qualsiasi tipo di architettura razionalista: essa avrebbe potuto far
tornare alla mente la democrazia. In italia invece, poiché il
razionalismo aveva avuto uno sviluppo quasi parallelo a quello del
fascismo, lo si identificò spesso con il fascismo stesso,
diventandone, entro certi limiti, addirittura l’espressione
artistica prediletta. Da qua cambiamenti e rifiuto di tradizioni;
dietro al modernismo di facciata si andavano pericolosamente
affacciando i veri intenti repressivi e dittatoriali del regime. Il
panorama culturale dell’architettura italiana tra le due guerre è
in effetti estremamente complesso e contraddittorio. Si va dal
ridisegno di intere aree urbane, alla costruzione di nuovi edifici
pubblici e di monumenti, fino alla fondazione di nuove città. Alcune
di queste opere sono di grande rilievo, altre sono poco più che di
propaganda, altre sono scempi. Inizialmente, comunque, il
razionalismo sembra trionfare incontrastato. Ovunque apparivano
edifici dai volumi netti con coperture piane e finestre rigorosamente
prive di timpani e cornici, sulla falsariga del bauhaus. Il più
attento razionalista italiano è terragni (1904-1943); richiamato
alle armi nel 1939 e inviato sul fronte russo, riuscì a tornare nel
1943 profondamente segnato tanto da suicidarsi. Sua è la casa del
fascio, costruita tra il 1932 e il 1936 a como. Pianta perfettamente
quadrata e altezza esatta metà del lato; è quindi mezzo cubo le cui
facciate hanno varie aperture quadrate in rigoroso rapporto
proporzionale tra loro; sembra alludere simbolicamente a quel formale
ritorno all’ordine di cui il fascismo si era fatto promotore. In
realtà contrasta clamorosamente con l’asimmetria con la quale le
quattro facciate sono composte: una diversa dall’altra in relazione
alle diverse funzioni cui devono rispondere. Con il consolidarsi del
regime anche l’architettura muta. Dalla purezza geometrica a un
sempre maggior monumentalismo. I semplici intonaci lasciano il posto
al marmo e al travertino, le proporzioni sono gigantesche e
l’iniziale chiarezza viene sacrificata alla scenograficità
dell’insieme. Il massimo ideologo di questo monumentalismo fu
piacentini (1881-1960). Suo è il monumentale palazzo di giustizia di
milano (1939-1940). Il rivestimento marmoreo, l’esagerata
dilatazione delle finestre, le retoriche scritte in rilievo, i due
altissimi setti di muro all’ingresso, quasi a suggerire le colonne
di un tempio classico; sono infatti in contraddizione con il
linguaggio razionalista; si riallaccia addirittura all’antica
tradizione classica.
Michelucci
nasce nel 1891 e muore nel 1990; rappresenta una delle presenze più
significative del razionalismo degli anni trenta e del neorealismo
(periodo del dopoguerra nel quale cultura e arte italiana vogliono
riscoprire la realtà del proprio paese, liberi dal fascismo) degli
anni cinquanta e sessanta. Si forma all’accademia delle belle arti
di Firenze e partecipa al concorso del 1932 per la costruzione della
stazione di santa maria novella di Firenze. I razionalisti
sostenevano il progetto di michelacci. Ha forma semplice e squadrata,
generata direttamente dalle unzioni che deve svolgere. Dalla
gerarchia delle funzioni deriva l’organizzazione degli spazi. Anche
nella scelta dei materiali michelucci si dimostra attento: le
strutture in calcestruzzo armato e il rivestimento esterno n pietra
forte. Negli anni cinquanta partecipa alla ricostruzione delle parti
di Firenze che i nazisti avevano minato. In particolare la chiesa di
san giovanni battista dei primissimi anni settanta. Appaiono
citazioni colte da wright e da le corbusier. Le architettura
michelucciane vogliono essere soprattutto organismi viventi, non
asettici contenitori.
La
seconda guerra mondiale lascia dietro di se un mondo sconvolto e
allibito. Ai milioni di soldati morti in combattimento si aggiungono
i milioni di civili periti e gli altri milioni di innocenti eliminati
nei campi di sterminio nazisti. Dal cuore sale alto un unico grido:
pace, giustizia sociale e libertà. Si attuano ovunque grandiosi
programmi di ricostruzione. Grazie al poderoso contributo
statunitense, i tempi della ripresa europea vengono accelerati al
massimo grazie al piano marshall (1948-1952). In questo l’america
investe enormi capitali e ha almeno due obiettivi: uno economico, per
disporre di nuovi mercati internazionali, un altro politico, per
confermare la supremazia mondiale degli stati uniti. Nasce anche la
nato e in oriente viene stipulato i patto di Varsavia, dando origine
alla contrapposizione politica dei due grandi blocchi, quello
filostatunitense e quello filosovietico. Dai conflitti economici e
politici nasce la guerra fredda, una tensione politica tra stati
uniti e unione sovietica per giustificare il riarmo nucleare. L’arte
del dopoguerra assume così forme e linee evolutive assolutamente
diversificate e imprevedibili. L’america diventa un punto di
riferimento per tutte le nuove avanguardie; nella società
statunitense vengono incarnati valori di libertà e democrazia. Gli
artisti, liberati, estendono le loro ricerche in ogni direzione e i
risultati sono spesso caotici e contradditori. Questo è il riflesso
di una nuova società occidentale basata sul consumismo. Abbiamo una
evoluzione tecnologica, una diffusione dei mezzi di comunicazione.
L’arte contemporanea è sensibilissima agli andamenti delle mode e
dei mercati.